In principio era il verbo? In principio fu il luogo. Prajapati circondato dalle vampe ardenti delle acque e della mente che fluivano senza sosta, impermanenti, decise che “ciò che era” aveva necessità di un fondamento. Così fu la terra, su cui poi si distese.
Ecce scaena.
Prajapati nella solitudine creò Agni, il Divoratore. Emerse dalla bocca di Prajapati e subito desiderò mangiare ma, non essendoci altro che il padre, si avventò su di lui. Per difendersi, Prajapati sacrificò una parte di sé a quel figlio vorace. Al luogo seguì una generazione, un pericolo, un gesto e un sacrificio. Prajapati sentì che dentro di sé si agitava un altro essere. Aprì la bocca e ne emerse Vāc, Parola. Dopo averla emessa con essa si congiunse e creò tutti gli dei. La parola. Alla fine.
In principio fu il luogo. Questo per gli uomini vedici, che non persero tempo a costruire città, templi e monumenti, ma edificarono con un’accuratezza estrema l’edificio del rito attraverso cui si giungeva alla conoscenza e si emendava il male del mondo. Di loro restano solo edifici scritti, città di parole che con dovizia di particolari descrivono ciò che per loro era più importante: il rito, il luogo dove l’azione e la parola efficace portavano l’uomo a diventare come gli dei. Ma come doveva essere il luogo?
Ecce scaena.
Prajapati nella solitudine creò Agni, il Divoratore. Emerse dalla bocca di Prajapati e subito desiderò mangiare ma, non essendoci altro che il padre, si avventò su di lui. Per difendersi, Prajapati sacrificò una parte di sé a quel figlio vorace. Al luogo seguì una generazione, un pericolo, un gesto e un sacrificio. Prajapati sentì che dentro di sé si agitava un altro essere. Aprì la bocca e ne emerse Vāc, Parola. Dopo averla emessa con essa si congiunse e creò tutti gli dei. La parola. Alla fine.
In principio fu il luogo. Questo per gli uomini vedici, che non persero tempo a costruire città, templi e monumenti, ma edificarono con un’accuratezza estrema l’edificio del rito attraverso cui si giungeva alla conoscenza e si emendava il male del mondo. Di loro restano solo edifici scritti, città di parole che con dovizia di particolari descrivono ciò che per loro era più importante: il rito, il luogo dove l’azione e la parola efficace portavano l’uomo a diventare come gli dei. Ma come doveva essere il luogo?
Oltre a stare in alto, quel luogo dovrà essere piano; e, oltre a essere
piano, dovrà essere compatto; e, oltre a essere compatto, dovrà essere
inclinato verso est, perché est è la direzione degli dei; o altrimenti
dovrebbe essere inclinato verso nord, perché nord è la direzione degli
uomini. Dovrà essere lievemente rialzato verso sud, perché quella è la
direzione degli antenati. Se scendesse verso sud, il sacrificante presto
passerebbe nel mondo laggiù [...].[1]
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Risposta. Lo spazio fa spazio. “Fare spazio” significa sfoltire, render libero, liberare un che di libero, un che di aperto. Solo quan- do lo spazio fa spazio e rende libero un che di libero, lo spazio accorda, grazie a questo libero, la possibilità di contrade, di vici- nanze e di grandezze.[3]
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Ma avverte poco oltre: [...] lo spazio per fare spazio, necessita dell’uomo.[4] Una pagina bianca, scritta dall’uomo, su cui comporre la partitura di gesti e parole che avrebbero permesso il manifestarsi degli dei e delle loro potenze.[5] Tutti i possibili significati dovevano e potevano avere luogo in quello spazio neutro. Come una scacchiera, anch’essa un semplice quadrato, su cui è però possibile giocare un numero praticamente infinito di partite. D’altra parte anche la scacchiera è nata in India.
Per quanto neutro però il luogo nasconde dei pericoli. Il primo viene dagli dei. Gelosi delle loro prerogative non amano che gli uomini giungano al loro livello di conoscenza.[6] Vanno ammansiti. E poi ci sono i morti. In agguato.
Sempre. Basta un gesto sbagliato per scivolare nel loro mondo. Il luogo è come la zona dei fratelli Strugatzki, quella attraversata dagli Stalker: piena di pericoli invisibili, nascosti nell’ombra.[7] Un luogo di incertezza solida, dove ogni gesto e ogni parola assumono un’im-portanza vitale. Da qui l’affanno degli uomini vedici per delimitarlo.[8] E con esso codificare i gesti e le parole efficaci per il raggiungimento della conoscenza evitando ogni errore che portasse all’inevitabile fallimento. Quasi la stessa ossessione di Stanislavsky nel concepire ed eseguire la linea delle azioni fisiche che avrebbero portato l’attore a far emergere la verità in scena, ossessione che porterà Gordon Craig a teorizzare addirittura una supermarionetta al fine di ottenere un’esecuzione accurata senza sbavature emotive.
Nel luogo del sacrificio e del rito non è possibile alcuna faciloneria nell’esecuzione di un gesto. Ci vuole accortezza e attenzione. Come su in una partita a scacchi, ogni azione va ponderata e con esse le infinite varianti e conseguenze che si generano da essa, al fine di non perdere pezzi e partita. La posta in gioco è la vittoria. La posta in gioco è la vita stessa. Attraverso questo sconfinato codificare di gesti e parole, scorgiamo una sostanziale sfiducia degli uomini vedici verso un pensiero che solitario possa giungere a delle conclusioni accettabili. Questa sfiducia verso il logos, è la stessa di Artaud verso la parola, il dialogo. Non si può pensare e discutere del fondamento delle cose, bisogna viverlo, agirlo, invocarlo.[9] Per approdare alla conoscenza e alla salvezza che da essa scaturiva, più che un pensiero occorreva una procedura:
Per quanto neutro però il luogo nasconde dei pericoli. Il primo viene dagli dei. Gelosi delle loro prerogative non amano che gli uomini giungano al loro livello di conoscenza.[6] Vanno ammansiti. E poi ci sono i morti. In agguato.
Sempre. Basta un gesto sbagliato per scivolare nel loro mondo. Il luogo è come la zona dei fratelli Strugatzki, quella attraversata dagli Stalker: piena di pericoli invisibili, nascosti nell’ombra.[7] Un luogo di incertezza solida, dove ogni gesto e ogni parola assumono un’im-portanza vitale. Da qui l’affanno degli uomini vedici per delimitarlo.[8] E con esso codificare i gesti e le parole efficaci per il raggiungimento della conoscenza evitando ogni errore che portasse all’inevitabile fallimento. Quasi la stessa ossessione di Stanislavsky nel concepire ed eseguire la linea delle azioni fisiche che avrebbero portato l’attore a far emergere la verità in scena, ossessione che porterà Gordon Craig a teorizzare addirittura una supermarionetta al fine di ottenere un’esecuzione accurata senza sbavature emotive.
Nel luogo del sacrificio e del rito non è possibile alcuna faciloneria nell’esecuzione di un gesto. Ci vuole accortezza e attenzione. Come su in una partita a scacchi, ogni azione va ponderata e con esse le infinite varianti e conseguenze che si generano da essa, al fine di non perdere pezzi e partita. La posta in gioco è la vittoria. La posta in gioco è la vita stessa. Attraverso questo sconfinato codificare di gesti e parole, scorgiamo una sostanziale sfiducia degli uomini vedici verso un pensiero che solitario possa giungere a delle conclusioni accettabili. Questa sfiducia verso il logos, è la stessa di Artaud verso la parola, il dialogo. Non si può pensare e discutere del fondamento delle cose, bisogna viverlo, agirlo, invocarlo.[9] Per approdare alla conoscenza e alla salvezza che da essa scaturiva, più che un pensiero occorreva una procedura:
[...] una sensazione ininterrotta di pensare il gesto nel momento stesso in cui si compie, senza mai abbandonarlo o dimenticarlo, come se soltanto nel momento in cui un singolo essere muove il suo corpo obbedendo a un tracciato significante potesse scoccare la scintilla del pensiero. Difficilmente si troverebbero altri casi in cui la vita fisica e la vita mentale abbiano convissuto in una tale intimità, rifiutando di disgiungersi anche solo per un istante.[10]
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Quest’ansia di codifica del gesto/pensiero ricorda molto l’affanno di Cage nel prescrivere la disciplina al performer che eseguiva le sue partiture.[11] Anche il suo luogo era neutro[12], un luogo dove potessero apparire le cose nel loro semplice esistere, nell’essere se stesse in quanto tali, senza interpretazione[13] o intenzione comunicativa.
Semplicemente essenti per disvelare l’essere: unico compito dell’arte secondo Heidegger.[14] Libertà non vuol dire arbitrio o indisciplina. Tutt’altro! Il rigore di Cage nelle esecuzioni era indizio che durante la performance si giocasse una partita importante, fondamentale la cui posta in palio era una nuova consapevolezza del mondo in cui l’uomo vive. Ma il pericolo non risiede solo nella faciloneria nell’esecuzione del gesto, il pericolo risiede anche nell’intenzione, nel desiderio che la anima. Troppo o troppo poco bruciano l’efficacia del gesto stesso che diventa vuoto, inutile, fine a se stesso.[15] L’intenzione deve diventare giusta tensione nell’eseguire, senza rapacità di giungere a un risultato stabile, senza volontà di affermare tesi e concetti, deve essere pensiero in movimento, fuoco che trasforma, poesia in divenire.
Ma torniamo al luogo e al suo essere neutro. Poteva essere ovunque, poteva essere luogo in qualsiasi luogo purché rispettasse poche caratteristiche di base. Ma questo essere sempre possibile indicava anche una sua endemica precarietà. L’essere luogo in cui tutto avveniva, comportava che quell’essere luogo andasse ogni volta riaffermato da zero. Dopo che tutto era accaduto bisognava ricominciare da zero persino nella definizione stessa di luogo.
Semplicemente essenti per disvelare l’essere: unico compito dell’arte secondo Heidegger.[14] Libertà non vuol dire arbitrio o indisciplina. Tutt’altro! Il rigore di Cage nelle esecuzioni era indizio che durante la performance si giocasse una partita importante, fondamentale la cui posta in palio era una nuova consapevolezza del mondo in cui l’uomo vive. Ma il pericolo non risiede solo nella faciloneria nell’esecuzione del gesto, il pericolo risiede anche nell’intenzione, nel desiderio che la anima. Troppo o troppo poco bruciano l’efficacia del gesto stesso che diventa vuoto, inutile, fine a se stesso.[15] L’intenzione deve diventare giusta tensione nell’eseguire, senza rapacità di giungere a un risultato stabile, senza volontà di affermare tesi e concetti, deve essere pensiero in movimento, fuoco che trasforma, poesia in divenire.
Ma torniamo al luogo e al suo essere neutro. Poteva essere ovunque, poteva essere luogo in qualsiasi luogo purché rispettasse poche caratteristiche di base. Ma questo essere sempre possibile indicava anche una sua endemica precarietà. L’essere luogo in cui tutto avveniva, comportava che quell’essere luogo andasse ogni volta riaffermato da zero. Dopo che tutto era accaduto bisognava ricominciare da zero persino nella definizione stessa di luogo.
Per i liturgisti vedici QUALSIASI LUOGO,
in linea di principio, può diventare SCENA RITUALE. Basta che l’acqua
non sia lontana e ci sia spazio sufficiente per tracciare le linee tra i
fuochi. Questo equivale ad ammettere che l’opus rituale può - anzi deve
– COMINCIARE OGNI VOLTA DA ZERO. IL PRIMO GESTO è quello di predisporre
una SUPERFICIE NEUTRA, IMPREGIUDICATA.[16]
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Partire ogni volta da zero. Impermanenza del rito e della scena che imita l’impermanenza del mondo e dell’essere.
Tutto deve ripartire sempre da capo perché quello della conoscenza non è un’attività che progredisce da un minimo ad un massimo, ma è una conquista che va riaffermata ogni volta data l’estrema precarietà dell’essere stesso.[17] Non va dimenticato comunque che il rito è anche sacrificio.[18] Il rito è soprattutto l’atto attraverso il quale si sana la ferita del mondo.[19] I ritualisti vedici non dimenticavano che all’origine c’era il tentativo di Agni di divorare il padre, e che Prajapati per allontanarlo da lui ha dovuto dargli un boccone da divorare. All’origine dell’essere c’è un fatto di sangue, l’inestinguibile brama dell’essere di divorare altro essere. Il rito nasce come tentativo di emendare con :«una sequenza di gesti, un’inclinazione costante per non essere perduti. E la salvezza per risultare tale, doveva estendersi a tutto, doveva trascinare tutto dietro di sé. Non c‘è salvezza nel singolo».[20] La terribile violenza del mondo che esige il suo tributo di sangue all’origine del rito e del teatro, perché anche i Greci, furono ossessionati da questo debito continuamente esatto dalla vita. Divorare e divorante, la vita che si perpetua nel sangue. Gli uomini vedici cercavano attraverso il rito di emendare questa ferita, paradossalmente infliggendone altra agli animali sacrificati durante il rito stesso. All’origine la violenza e il sangue: il fondo oscuro dell’essere, il teatro della crudeltà.[21] E tornano gli scacchi, che nascono dall’esigenza del re di riesaminare accuratamente la battaglia da lui vinta ma che è costata la morte del figlio. Il brahmano nell’insegnargli il gioco degli scacchi gli ricorda l’ineluttabilità del sacrificio. Non si può giocare la partita della vita senza affrontare il sacrificio. Non è superfluo ricordare che l’insegnamento impartito costò la vita al brahmano. All’origine il sangue.
E infine la parola. Che non è mai asserzione, non è mai spiegazione. Piuttosto evocativa e invocativa di forze, stati d’animo, movimenti della mente. Una catena di sillabe e suoni che compongono e scompongono il mondo ed elevano al di là del mondo come ali d’aquila. Parola che non è significato ma suono prima di tutto.[22] È canto. A volte sussurro, perché la parola laddove incomprensibile prende contatto con l’imponderabile.[23] Gli uomini vedici hanno lasciato miriadi di inni in metri complicatissimi. Imbrigliavano la parola nella forma per renderla potente. Come le redini il cavallo, i metri costringevano la parola a correre verso il cielo aiutando gli uomini a diventare dei[24] e sfuggire l’impero della morte. Come il gesto purificato del suo superfluo, così la parola diventa essenziale, costretta dalla metrica a essere poetica e non asseverativa.
Ma la parola è anche indissolubilmente legata al gesto senza il quale, da sola, non sarebbe efficace. Parola e gesto insieme sono i motori che innalzano il sacrificante al livello degli dei: il far accedere qualcosa e il farlo risuonare, cantandolo, nominandolo, invocandolo, benedicendolo persino maledicendolo. Questa forma di pensiero, di meditazione in movimento non è discorso, non è dialogo, è canto. L’indissolubilità di gesto e parola era anche dei greci.
La tragedia era Koreia una e trina, musica, danza e poesia. L’Occidente però si è distaccato presto da questa tradizione tagliando per sempre i ponti tra gesto e parola.[25] Artaud nel lamentare la degenerazione del teatro individuerà una delle cause nello strapotere del dialogo e della parola sulla gestualità la causa di questo decadere.[26] Il Teatro della Crudeltà sarà proprio un tentativo di ricostruire l’alleanza tra gesto e parola nell’unità di linguaggio della scena.[27] La parola per gli uomini vedici, non solo veniva per ultima, ma per essere generativa doveva congiungersi con ciò che non poteva essere ridotto ad essa. Vāc deve congiungersi con Prajapati, il creatore che non era neanche sicuro della propria esistenza e che non sapeva quasi nulla di se stesso. L’alba. In questo breve scritto si è voluto gettare un breve sguardo nel roseo sorgere delle origini della scena per scorgere, seppur fugacemente, le fondamenta di un’arte oggi in crisi per molte ragioni. Marcel Duchamp diceva:
Tutto deve ripartire sempre da capo perché quello della conoscenza non è un’attività che progredisce da un minimo ad un massimo, ma è una conquista che va riaffermata ogni volta data l’estrema precarietà dell’essere stesso.[17] Non va dimenticato comunque che il rito è anche sacrificio.[18] Il rito è soprattutto l’atto attraverso il quale si sana la ferita del mondo.[19] I ritualisti vedici non dimenticavano che all’origine c’era il tentativo di Agni di divorare il padre, e che Prajapati per allontanarlo da lui ha dovuto dargli un boccone da divorare. All’origine dell’essere c’è un fatto di sangue, l’inestinguibile brama dell’essere di divorare altro essere. Il rito nasce come tentativo di emendare con :«una sequenza di gesti, un’inclinazione costante per non essere perduti. E la salvezza per risultare tale, doveva estendersi a tutto, doveva trascinare tutto dietro di sé. Non c‘è salvezza nel singolo».[20] La terribile violenza del mondo che esige il suo tributo di sangue all’origine del rito e del teatro, perché anche i Greci, furono ossessionati da questo debito continuamente esatto dalla vita. Divorare e divorante, la vita che si perpetua nel sangue. Gli uomini vedici cercavano attraverso il rito di emendare questa ferita, paradossalmente infliggendone altra agli animali sacrificati durante il rito stesso. All’origine la violenza e il sangue: il fondo oscuro dell’essere, il teatro della crudeltà.[21] E tornano gli scacchi, che nascono dall’esigenza del re di riesaminare accuratamente la battaglia da lui vinta ma che è costata la morte del figlio. Il brahmano nell’insegnargli il gioco degli scacchi gli ricorda l’ineluttabilità del sacrificio. Non si può giocare la partita della vita senza affrontare il sacrificio. Non è superfluo ricordare che l’insegnamento impartito costò la vita al brahmano. All’origine il sangue.
E infine la parola. Che non è mai asserzione, non è mai spiegazione. Piuttosto evocativa e invocativa di forze, stati d’animo, movimenti della mente. Una catena di sillabe e suoni che compongono e scompongono il mondo ed elevano al di là del mondo come ali d’aquila. Parola che non è significato ma suono prima di tutto.[22] È canto. A volte sussurro, perché la parola laddove incomprensibile prende contatto con l’imponderabile.[23] Gli uomini vedici hanno lasciato miriadi di inni in metri complicatissimi. Imbrigliavano la parola nella forma per renderla potente. Come le redini il cavallo, i metri costringevano la parola a correre verso il cielo aiutando gli uomini a diventare dei[24] e sfuggire l’impero della morte. Come il gesto purificato del suo superfluo, così la parola diventa essenziale, costretta dalla metrica a essere poetica e non asseverativa.
Ma la parola è anche indissolubilmente legata al gesto senza il quale, da sola, non sarebbe efficace. Parola e gesto insieme sono i motori che innalzano il sacrificante al livello degli dei: il far accedere qualcosa e il farlo risuonare, cantandolo, nominandolo, invocandolo, benedicendolo persino maledicendolo. Questa forma di pensiero, di meditazione in movimento non è discorso, non è dialogo, è canto. L’indissolubilità di gesto e parola era anche dei greci.
La tragedia era Koreia una e trina, musica, danza e poesia. L’Occidente però si è distaccato presto da questa tradizione tagliando per sempre i ponti tra gesto e parola.[25] Artaud nel lamentare la degenerazione del teatro individuerà una delle cause nello strapotere del dialogo e della parola sulla gestualità la causa di questo decadere.[26] Il Teatro della Crudeltà sarà proprio un tentativo di ricostruire l’alleanza tra gesto e parola nell’unità di linguaggio della scena.[27] La parola per gli uomini vedici, non solo veniva per ultima, ma per essere generativa doveva congiungersi con ciò che non poteva essere ridotto ad essa. Vāc deve congiungersi con Prajapati, il creatore che non era neanche sicuro della propria esistenza e che non sapeva quasi nulla di se stesso. L’alba. In questo breve scritto si è voluto gettare un breve sguardo nel roseo sorgere delle origini della scena per scorgere, seppur fugacemente, le fondamenta di un’arte oggi in crisi per molte ragioni. Marcel Duchamp diceva:
L’artista
oggi gioca nella società moderna un ruolo molto più importante di un artigiano
o di un buffone. Si trova faccia a faccia con un mondo fondato su un
materialismo brutale in cui tutto è valutato in funzione del BENESSERE MATERIALE
e in cui la religione, dopo aver perso molto terreno, non è più la grande
dispensatrice di valori spirituali. Oggi l’Artista è uno strano serbatoio di
valori paraspirituali in opposizione assoluta al FUNZIONALISMO quotidiano per
il quale la scienza riceve l’omaggio di una cieca ammirazione. […] Credo che
oggi più che mai l’Artista abbia questa missione parareligiosa da riempire:
mantenere accesa la fiamma di una visione interiore di cui l’opera d’arte
sembra essere la traduzione più fedele per il profano. Inutile dire che per
compiere questa missione è indispensabile il più alto grado di istruzione.[28]
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E Artaud diceva:
Prima di riparlare di cultura, voglio rilevare che il mondo ha fame, e
che non si preoccupa della cultura; solo artificialmente si tende a
stornare verso la cultura dei pensieri che si rivolgono verso la fame.
La cosa più urgente oggi non mi sembra dunque difendere una cultura, la
cui esistenza non ha mai salvato nessuno dall’ansia di vivere meglio e
di avere fame, ma estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la
cui forza di vita sia pari a quella della fame.[29]
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In quelle radure della valle dell’Indo all’alba della civiltà gli uomini vedici hanno gettato le basi non solo di una ritologia, ma anche dell’arte scenica. Studiare quelle origini potrebbe non essere inessenziale al fine di una ricostruzione di un teatro efficace nella società contemporanea. Il teatro delle origini ha indagato con rigore il fondamento dell’essere davanti a un pubblico che tramite il teatro prendeva contatto con quel fondo oscuro che si agita nell’animo di ogni uomo. Recuperare questa funzione, in un periodo storico di disordine culturale e sociale, in cui il mondo ha fame, credo sia compito di chi si occupa di teatro oggi, pur nelle sconcertanti difficoltà materiali in cui versa ogni operatore teatrale italiano. Riscoprire l’origine per ritrovare il contatto con la linfa vitale che ha reso indispensabile l’arte scenica, quella sorta di metafisica in atto tanto agognata da Artaud. L’artista di teatro oggi ha la responsabilità di riscoprire i fondamenti che giacciono sepolti e un po’ impolverati, ma tutt’ora potentissimi, nelle radure degli uomini vedici, nelle pietre dei teatri greci, nelle fessure delle assi delle O di legno elisabettiane per rivitalizzare quella fiamma di una visione interiore di cui parla Duchamp. Nel fondo dell’alba è sepolto l’avvenire.
Note:
[1] Satapatha Brahmana cit. in Roberto Calasso, l’Ardore, Adelphi, Milano 2010, pag. 22. [2] «La spazialità dell’essere umano. Il fare spazio = Spazio solo a partire dal nostro insistere e persistere nella radura, estaticamente». In Martin. Heidegger, Corpo e Spazio. Osservazioni su arte – scultura – spazio, Melangolo, Genova 2000, pag. 43. [3] Martin. Heidegger, op. cit., pag. 31. [4] Martin Heidegger, op. cit,, pag. 37. [5] «Con pochi tocchi, recingendo con lo sguardo un luogo qualsiasi, fra sterpi e sassi, è stato evocato il fondo impregiudicato di ogni azione, il primo luogo geometrico – e al tempo stesso si allude a come è fatto il mondo, si dice dove sono passati gli dei, dove sta la morte. Che altro occorre sapere, prima di compiere qualsiasi gesto?» in Roberto Calasso, l’Ardore, Adelphi, Milano 2010, pag. 22. [6] «Ma come si può conoscere ciò che non si lascia conoscere? Diventando in qualche misura quella cosa stessa». Roberto Calasso, op. cit., pag. 57, e più oltre: «Ciò che il sacrificante imita è lo stesso farsi dio del dio» pag. 291 (corsivo dell’autore). [7] Artaud avrebbe certamente amato gli uomini vedici lui che lamentava la decadenza del teatro contemporaneo perché: «ha rotto con la gravità, con l’efficacia immediata e mortale – in una parola con il PERICOLO». Cft. Antonin Artaud, il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 1968, pag. 159. [8] «Lo spazio rituale va precisamente delimitato, perché i suoi confini sono quelli di un mondo intermedio, che si può definire come il mondo dell’azione efficace. Dove si scontrano una irrefrenabile pretesa di dominio e di controllo su tutto da una parte; e dall’altra un angoscioso, acutissimo senso di precarietà». In Roberto Calasso, op. cit., pag. 289. [9] «Sostengo che questo linguaggio concreto, destinato ai sensi e indipendente dalla parola, deve innanzitutto soddisfare i sensi, che esiste una poesia per i sensi come ne esiste una per il linguaggio, e che questo linguaggio fisico a cui alludo non è veramente teatrale se non nella misura in cui i pensieri che esprime sfuggono al linguaggio articolato». In Antonin Artaud, op. cit., pag. 155. [10] Roberto Calasso, op. cit., pag. 193. In altro luogo si precisa: «I Brahmana sono continuamente gravati dal peso del gesto. Il presupposto è che somma importanza venga attribuita al gesto liturgico. E che il rito sia concessa preminenza su ogni altra forma di pensiero, come se il rito fosse il modo immediato di manifestarsi del pensiero stesso. Ma appunto questo - a partire dai Greci e poi attraverso tutta la tradizione cristiana – era ciò di cui l’Occidente mirava a sbarazzarsi come di una superstiziosa zavorra». Op. cit., pag 190. [11] «la maggior parte delle esecuzioni di Theatre Piece non sono buone, perché la gente non comprende la necessità di una disciplina» John Cage, lettera a uno sconosciuto. A cura di Richard Kostellanetz, Edizioni Socrates, Roma, 1987, pag. 300. [12] Ricordiamo che l’atto di nascita dell’Happening avviene al Black Mountain College in una semplice sala rettangolare, dove il pubblico era seduto in quattro aree triangolari al centro della sala, completamente circondato dall’accedere delle cose. Luogo neutro dunque, ma desunto, per stessa ammissione di Cage, dalla lettura di un testo importante e allora praticamente unico e sconosciuto in America: Il teatro e il suo doppio di Artaud dove nel primo manifesto sul teatro della crudeltà alla voce luogo afferma: «Noi sopprimiamo la scena e la sala, sostituendole con una sorta di luogo unico, senza divisioni né barriere di alcun genere, che diventerà il luogo stesso dell’azione» In Antonin Artaud, op. cit., pag. 211. [13] «L’happening scaturisce da una situazione in cui […] ci auguriamo che accada qualcosa che non avevamo nelle nostre menti, e che aumenti la nostra consapevolezza e stimoli la nostra curiosità. Un happening dovrebbe essere come una rete per catturare pesci che non conosciamo» in John Cage op. cit., pag 177. È evidente come per Cage l’agire performativo debba prima di tutto condurre a una maggiore presa di coscienza del mondo. La performance è parte di una pratica disciplinata per venire a capo del mondo prendendo visione del suo semplice esistere. [14] «Arte non significa un fare, bensì un modo del conoscere. Questo però, ha per i Greci, il tratto fondamentale del dis-occultare, del manifestare disoccultante quel che sta di fronte». Martin Heidegger, op. cit., pag. 31. Corsivo mio. [15] Roberto Calasso riporta nel suo libro l’Ardore, l’incidente accorso a Bhāllaveya che per troppa ingordigia di ottenere più benefici da un solo rito, cadde dal carro e si ruppe il braccio. Bhāllaveya meditando sull’incidente comprende che: “come il mondo esterno è pronto a offrire il frutto del desiderio, così è pronto a castigare la forma che nasce da un desiderio viziato”. op. cit., 294. Calasso prosegue commentando: “nell’incidente occorso a Bhāllaveya si mostra con chiarezza la disposizione dell’uomo vedico verso il mondo. Si danno tre passaggi, simultanei e inclusi uno nell’altro: ogni fatto che avviene è significativo, il suo significato è connesso a un atto compiuto dal soggetto; la zona in cui, per eccellenza, ogni fatto avviene è la scena del sacrificio. Lì è l’azione da cui dipendono le azioni successive”. op. cit., pag. 294-295. Inoltre ricordiamo la perenne indicazione di Cage affinché in ogni fase della creazione/esecuzione dell’opera si operasse un continuo svuotamento dell’intenzione. L’agire doveva essere scevro di intenzione se si voleva permettere ai suoni di essere se stessi. [16] Roberto Calasso, op. cit., pag. 290. Più oltre viene precisato «Prima di qualsiasi inizio occorre un gesto che spazi via ogni gesto precedente, ogni silenziosa occupazione dei significati da parte del passato». Op. cit., pag 291. [17] «Il rito serve innanzi tutto a risolvere con il gesto ciò che il pensiero non riesce a risolvere. È un tentativo – cauto, timoroso, consapevole della propria fragilità – di rispondere a dilemmi che si pongono ogni giorno, che ci assediano, che ci beffano». Roberto Calasso, op. cit., pag. 292 ma anche: «Non siamo così ingenui da pensare che la nostra costruzione sia salda. Non c’è nulla di più fragile del sacrificio e del suo luogo. Perché sussista, occorre sia avvolto dalla nube dell’incommensurabile e lo ospiti in sé» in Roberto Calasso, Ka, op. cit., pag. 52. [18] «La scena permette di assistere alla nascita dell’offerta come misura ultima di autodifesa». Roberto Calasso, L’ardore, op. cit., pag. 105. [19] «Il mondo è un vaso spezzato. Il sacrificio tenta di ricomporlo, lentamente, pezzo per pezzo. Ma certe parti sono sbriciolate. E anche quando il vaso è ricomposto, lo solcano molte ferite. C’è chi dice che lo rendano più bello» in Roberto Calasso, Ka, Adelphi, Milano 1996, pag. 293. [20] in Roberto Calasso, l’Ardore, Adelphi, Milano 2010, pag. 28. [21] Cfr. su questo aspetto dell’apparire di forze oscure sulla scena la descrizione del quadro Le figlie di Lot di Luca di Leida fatto da Artaud nel capitolo la messa in scena e la metafisica. In Antonin Artaud, op. cit., pag 151 e seg. Ma si confronti quanto detto da Artaud su Van Gogh in questo passo: «Una candela su una sedia, una poltrona di paglia verde intrecciata, un libro sulla poltrona, ed ecco illuminato il dramma» Antonin Artaud, Van Gogh il suicidato dalla società, Adelphi, Milano 1988, pag. 29. Ma anche: «Van Gogh […] che è più pittore più degli altri pittori […] e che fa venire incontro a noi, sporgente dalla tela fissa, l’enigma puro, il puro enigma del fiore torturato, del paesaggio sciabolato, lacerato e strizzato da ogni lato dal suo pennello ubriaco» Antonin Artaud, Van Gogh il suicidato dalla società, op. cit., pag. 50. [22] Ricordiamo gli esperimenti in tal senso di John Cage sugli scritti di Joyce e Thoreau come ad esempio Empty words miranti a svicolare la parola dal suo mero utilizzo significante per riportarle alla nozione di puro suono. O anche le glossolalie artaudiane. [23] «Per cogliere la differenza tra Prajapati e gli altri dei, basta pronunciare una formula rituale a voce bassa. La voce bassa e indistinta – e già quell’indistinto ci mette in comunicazione con la natura di Prajapati, che tale è.». Roberto Calasso, L’ardore, op. cit., pag. 97. [24] «Giocando con i metri, con i nomi, con le formule, con il mormorio, con il silenzio, il sacrificante riesce a muoversi tra le varie forme del divino», Roberto Calasso, L’ardore, op. cit., pag. 97. [25] «Quando il funzionario degli Undici si rifiutò di esaudire la richiesta di Socrate (che era quella di poter versare, come di costume, parte della cicuta a terra in segno di offerta agli dei), che era poi l’ultimo desiderio di un condannato a morte, venne reciso il nesso tra gesto e parola, per i Greci. Da allora la parola è sola, raccolta in se stessa, orfana e sovrana ». Roberto Calasso, L’ardore, op. cit., pag. 255. [26] «Come è possibile che a teatro, almeno come lo conosciamo in Europa, o meglio in Occidente, tutto ciò che è specificamente teatrale, ossia tutto ciò che non è discorso o parola, […] debba rimanere in secondo piano? […] Come è possibile dunque che l’Occidente non sappia vedere il teatro sotto una prospettiva diversa da quella del teatro dialogato?». Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio op. cit., pp. 154/155. Cfr., inoltre, nota 9 del presente scritto. [27] «Si può sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio, che si svilupperà appunto nel campo che non appartiene rigorosamente alle parole». Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio op. cit., pag. 156. [28] Marcel Duchamp in L’artista deve andare all’università? In Marcel Duchamp a cura di Elio Grazioli, numero monografico della rivista Riga n.5 di Marcos y Marcos, Milano 1993, pp. 27/28. [29] Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio op. cit., pag. 127. |
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