Il Workcenter di Jerzy Grotowski è stato fondato nel 1986 a Pontedera, su invito del Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera, (attualmente: Fondazione Pontedera Teatro).
È qui che, negli ultimi tredici anni della sua vita, Grotowski ha sviluppato una linea di ricerca di prestazioni nota come «Art as vehicle», ricerca continuata fino alla sua morte nel 1999. Nell’ambito di questa indagine creativa, ha lavorato a stretto contatto con Thomas Richards che Jerzy Grotowski chiamava il suo «collaboratore essenziale», dunque, modificò il nome – Workcenter of Jerzy Grotowski – in Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, con la finalità di dare maggiore rilievo al leader successore. Nel corso di questi tredici anni d’intenso lavoro pratico, Grotowski ha trasmesso a Richards il frutto delle ricerche di una vita, quello che lui chiamava «l’aspetto interiore del lavoro». Grotowski ha nominato Richards e Biagini, membri chiave della squadra del Workcenter già dai suoi inizi, come gli unici eredi delle sue scoperte, includendovi l’intero corpo del suo lavoro scritto. Grotowski ha specificato che questa denominazione costituiva una conferma della sua «famiglia di lavoro». In qualità di direttore artistico, Richards e Biagini, in veste di direttore associato del Workcenter, continuano a sviluppare la linea di ricerca del gruppo dal 1999. Oggi il Workcenter è composto da diciotto artisti provenienti da nove paesi. Jerzy Grotowski è considerato uno dei professionisti più influenti del teatro del XX sec., la sua ricerca ha attraversato diverse fasi nel corso della sua vita. Da giovane regista si immerse nelle indagini pionieristiche su Konstantin Sergeevič Stanislavskij; spesso si dice che il suo lavoro teatrale inizia dove Stanislavskij l’ha lasciato.
È qui che, negli ultimi tredici anni della sua vita, Grotowski ha sviluppato una linea di ricerca di prestazioni nota come «Art as vehicle», ricerca continuata fino alla sua morte nel 1999. Nell’ambito di questa indagine creativa, ha lavorato a stretto contatto con Thomas Richards che Jerzy Grotowski chiamava il suo «collaboratore essenziale», dunque, modificò il nome – Workcenter of Jerzy Grotowski – in Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, con la finalità di dare maggiore rilievo al leader successore. Nel corso di questi tredici anni d’intenso lavoro pratico, Grotowski ha trasmesso a Richards il frutto delle ricerche di una vita, quello che lui chiamava «l’aspetto interiore del lavoro». Grotowski ha nominato Richards e Biagini, membri chiave della squadra del Workcenter già dai suoi inizi, come gli unici eredi delle sue scoperte, includendovi l’intero corpo del suo lavoro scritto. Grotowski ha specificato che questa denominazione costituiva una conferma della sua «famiglia di lavoro». In qualità di direttore artistico, Richards e Biagini, in veste di direttore associato del Workcenter, continuano a sviluppare la linea di ricerca del gruppo dal 1999. Oggi il Workcenter è composto da diciotto artisti provenienti da nove paesi. Jerzy Grotowski è considerato uno dei professionisti più influenti del teatro del XX sec., la sua ricerca ha attraversato diverse fasi nel corso della sua vita. Da giovane regista si immerse nelle indagini pionieristiche su Konstantin Sergeevič Stanislavskij; spesso si dice che il suo lavoro teatrale inizia dove Stanislavskij l’ha lasciato.
Nelle prime fasi del suo lavoro, a partire dal 1959 a Opole e continuando con il suo Teatro Laboratorio di Wroclaw, Grotowski ha rivoluzinato e rivoluzionato la concezione di relazione tra pubblico-attore, cambiato messa in scena teatrale e trasformato il mestiere della recitazione nel teatro occidentale contemporaneo. Più tardi, egli ha lasciato il «teatro delle produzioni», oltrepassando i confini del teatro degli anni Sessanta, prima con il suo lavoro parateatrale e più tardi con il suo teatro di ricerca delle fonti, che lo ha portato in India, Messico, Haiti e altrove, alla ricerca di pratiche tradizionali di varie culture (1976-82). A seguito di questa ricerca, Grotowski ha iniziato un lavoro d’identificazione di elementi particolari, rispettosi delle tradizioni rituali (Obiettivo Drammatico, 1983-86).
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Infine, ha esaltato il suo percorso presso il Workcenter, con l’ultima fase della ricerca della sua vita (Arte come veicolo),
dove, come in certe vecchie tradizioni, l’attenzione per l’arte va
di pari passo con l’approccio all’interiorità dell’essere umano. Attualmente il Workcenter porta avanti la medesima ricerca dell’Arte come veicolo e allo stesso tempo esplora come gli iaspetti essenziali di questa ricerca possano verificarsi all’interno di creazioni destinate a vari tipi di situazioni nel contatto con osservatori, spettatori e testimoni. Gli eventi del Workcenter si svolgono oggi in teatri, edifici industriali, chiese, sale da concerto, pub, bar, caffè, così come in alcune case o appartamenti. Nel corso dei suoi 25 anni d’esistenza, molti artisti provenienti da tutto il mondo si sono uniti al team per variabili periodi, alcuni più brevi, altri anche per dieci anni.
Il Workcenter si è dedicato alla crescita professionale dei suoi artisti, e gli sforzi si sono concentrati in modo che i membri del teamexcursus si arricchisce di un legame vivente tra le generazioni, che è sostenuto dal bisogno di crescita e dalla distillazione di conoscenze pratiche. Il Workcenter, guidato oggi da Richards e Biagini, decreta una solida continuità, dedicandosi all’innovazione della vita e del suo significato.
Il Workcenter si è dedicato alla crescita professionale dei suoi artisti, e gli sforzi si sono concentrati in modo che i membri del teamexcursus si arricchisce di un legame vivente tra le generazioni, che è sostenuto dal bisogno di crescita e dalla distillazione di conoscenze pratiche. Il Workcenter, guidato oggi da Richards e Biagini, decreta una solida continuità, dedicandosi all’innovazione della vita e del suo significato.
La ricerca, attualmente condotta presso il Workcenter, coinvolge le
due estremità di quello che Grotowski ha descritto come «la catena»
delle arti dello spettacolo: l’Arte come veicolo a una estremità e all’altra l’Arte come presentazione. La distinzione principale tra questi due poli sta in parte nel fatto che nell’Arte come veicolo il lavoro sulle strutture performative ha come scopo il lavoro dell’artista su se stesso, mentre nell’Arte come presentazione – come si verifica più comunemente in teatro –, l’opuses precise (azioni) delle performance sono orientate verso la percezione dello spettatore in primis
per mezzo del modo in cui sono strutturate. L’attuale ricerca al
Workcenter, nella sua totalità, esplora i modi di vita in cui alcune
influenze possano intercorrere tra le due estremità della «catena»
delle arti dello spettacolo; alla scoperta di nuovi significati e
contenuti del suo sviluppo. Dal 2007 il Workcenter ospita due team creativi: Focus Team che è ricerca dell’Arte come veicolo,
diretto da Richards e l’Open program, diretto da Biagini. In
quest’ambito, come in certe vecchie tradizioni, l’opera d’arte va di
pari passo all’approccio con l’interiorità dell’essere umano.
Nel caso del Focus Team le opuses precise, effettuate fino a oggi in questo settore, sono state principalmente strutturate con e attorno antichi canti vibratori. La maggior parte di questi canti sono di origine afro-caraibica (lingua creola e yoruba) e vengono cantati in lingua originale. Al tentativo di capire quanto il famigerato lavoro sugli impulsi possa modificarsi, grazie all’utilizzo di una lingua sconosciuta agli attuanti presso i canti, il qui presente-assente (per ridirla con Carmelo Bene) si è posto il quesito eterno: eterno poiché dal Workcenter non è giunta risposta. Non giunge, diversamente da quanto succede, se le domande sono altre. Si presuppone che non si siano ancora date risposte allo sviluppo dell’Arte come veicolo o che queste vi siano ma non si possano divulgare, render note?
Quando ci si riferisce al centro di Pontedera, sembra che esso sia ammantato da un’aura anacoretica. In realtà, tutto il Workcenter teme, per prima cosa, questa nomea di stampo esotico e, nello specifico, sospetta che si possa sminuire il proprio lavoro attraverso una codificazione o, ancor peggio, attraverso un metodo scritto, che racchiuda quello che vengono a praticare tutti i giorni.
Un lavoro elastico sulle situazioni di scena e sulle svolte estetiche del suo percorso – non da molto passato alla ennesima svolta, – che porta come costituente del suo principio di nascita il processo vitale. Attraverso i canti, lo yanvalou e il lavoro sugli impulsi, al Workcenter si stimano le fiamme del risveglio della vita e di quello che Grotowski chiamò il «montaggio yogico».
Biagini farà una onorevole disquisizione sugli interrogativi del suo essere attuante ma anche dell’Umanità intera:
Nel caso del Focus Team le opuses precise, effettuate fino a oggi in questo settore, sono state principalmente strutturate con e attorno antichi canti vibratori. La maggior parte di questi canti sono di origine afro-caraibica (lingua creola e yoruba) e vengono cantati in lingua originale. Al tentativo di capire quanto il famigerato lavoro sugli impulsi possa modificarsi, grazie all’utilizzo di una lingua sconosciuta agli attuanti presso i canti, il qui presente-assente (per ridirla con Carmelo Bene) si è posto il quesito eterno: eterno poiché dal Workcenter non è giunta risposta. Non giunge, diversamente da quanto succede, se le domande sono altre. Si presuppone che non si siano ancora date risposte allo sviluppo dell’Arte come veicolo o che queste vi siano ma non si possano divulgare, render note?
Quando ci si riferisce al centro di Pontedera, sembra che esso sia ammantato da un’aura anacoretica. In realtà, tutto il Workcenter teme, per prima cosa, questa nomea di stampo esotico e, nello specifico, sospetta che si possa sminuire il proprio lavoro attraverso una codificazione o, ancor peggio, attraverso un metodo scritto, che racchiuda quello che vengono a praticare tutti i giorni.
Un lavoro elastico sulle situazioni di scena e sulle svolte estetiche del suo percorso – non da molto passato alla ennesima svolta, – che porta come costituente del suo principio di nascita il processo vitale. Attraverso i canti, lo yanvalou e il lavoro sugli impulsi, al Workcenter si stimano le fiamme del risveglio della vita e di quello che Grotowski chiamò il «montaggio yogico».
Biagini farà una onorevole disquisizione sugli interrogativi del suo essere attuante ma anche dell’Umanità intera:
Dentro di me c’è una cavità; ci dovrebbe essere qualcosa, ci dovrei
essere io, ma non c’è niente. Riempio il buco con un vago sentire senza
sostanza. […] Forse siamo incidenti nella corrente di tutte le cose. Ma
mi permetto di pensare che in ogni momento si nasconda una possibilità,
un atto che può aprirci come si apre una porta, in ogni campo di
attività umana, di relazione, dove di sfuggita appare la cavità, la
mancanza. Che cosa rimane quando percepisco quest’assenza? Se riesco a
sopportare questa impossibile scoperta, l’attimo di lucidità si
trasforma in desiderio – di essere? Senza pietà possiamo dirci che gli
esseri umani sono incidentali, d’accordo. Ma anche in questo caso, come
appartenere l’uno all’altro, appartenere alla vita? Malgrado la
cavità. Al di là della cavità[1].
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Nella primavera del 2005 ricevetti una e-mail da parte del Workcenter. In essa vi era la richiesta di partecipare a una sessione di due settimane che il gruppo preparava presso Novi Cad, in Serbia. La sessione era rivolta ad attori e registi provenienti da tutto il mondo. Altresì, mi sollecitavano a rispondere a breve. Evidentemente non sapeva, colui che mi scrisse, che, mosso da un sentimento di felicità, avrei rimpinzato di gran carriera qualche bagaglio, nondimeno con quella fretta che si addice all’opportunista che sa della rarità di certe occasioni. Giunto in Serbia, franai su di una realtà composta da una settantina di persone, tra cui attori e registi, confluita nel castello di Petrovaradin per un setting di due settimane, in cui si alternavano, un giorno dopo l’altro, le consuete otto ore di lavoro con le successive serali, snocciolate a discuter di politica, di arte quando non a memorizzare copioni, odorare rimasugli di balcanica guerra come di vita, di morte. Ogni mattina, dalla finestra, si palesava un ponte, per metà interdetto allo sguardo, risalire dall’acqua verso i fumi dello smog.
Mi piaceva considerarlo così, più che immerso da un abbattimento, qualcosa che cercasse di riemergere, rinascere come fosse lo scettro di una popolazione che volesse rinsavire dall’immane imbecillità della guerra, dalle torbide acque di un Danubio che di blu più non si permetteva il riflesso d’un qualche cielo. Metaforico ma per niente fuorviante questo scorcio. Non l’avremmo condiviso solo guardando fuori dalla finestra ma anche guardando dentro di noi. Successero molte cose importanti in quelle due settimane, tanto che a tutti parve d’aver vissuto più in quell’occasione che in molti anni passati a gravitarci attorno. Personalmente, mi colpì la frase di un ragazzo lì conosciuto, Riccardo Brunetti, il quale, una mattina dopo colazione, mi disse: «Bene, io la colazione l’ho bel che finita, mi sento abbastanza pronto! Tu sei pronto per morire?». Se stendo queste pagine, credo che sia anche merito di questa sua uscita mattiniera. In effetti la sensazione funesta era sempre latente ma percepibile. Si verificò a tempo debito ciò che era una condizione propositiva, purtroppo non necessaria per molte performing arts; uno stato di annullamento nel lavoro, che mise in gioco decostruendo tutto, ma proprio tutto, ciò che con ardore la realtà (e il suo simbolico) in nostra cooperazione, tende sempre a costruire addosso e dentro una persona. È difficile poter spiegare a parole ciò che accade quando si cerca di decostruire, ma è possibile dire cosa, per esempio, Bene ha cercato di donarci:
L’attore dell’atto, rigettato in campo lungo come
un’appendice critica della sua stessa ‹‹macchina››, cerca invano di
agganciare i suoi gesti all’invisibile e inarrestabile scala dei suoni
che lo domina al centro della scena invece, l’attore della parola, fulcro della «macchina attoriale», con o senza la sovraimpressione del play-back,
assiste al suo «essere detto» mentre scorre con gli occhi e la voce un
testo aperto su leggio: un testo che deve restare alieno, ma al quale
ci si deve avvicinare tanto da non vedere più le lettere, e però
ascoltare, ciechi, la visione del suono[2].
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Note:
1 A. Attisani, M. Biagini, Sentieri e opere. Il Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, cit., p. 402. 2 P. Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, cit., p.164. |
Francesco Panizzo
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Scrivono nella rivista o
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Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Alessandro Rizzo, Fabio Treppiedi, Silverio Zanobetti, Sara Maddalena, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Alessia Messina, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico
Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faron, Martina Tempestini, Fabio
Milazzo, Rosella Corda, Marco Fioramanti, Francesco Panizzo.
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