Psychodream Review Rubrica diretta da Viviana Vacca e Francesco Panizzo
|
Rivista d'arte
diretta da F. Panizzo |
Caro Claudio ti va di fare una breve introduzione sul vostro approdo a S. Salvi?
La storia della compagnia è una storia molto lunga e molto complessa .. Dal 1998 è nato un progetto molto particolare sia come creazione e produzione artistica sia come ospitalità. È diventato un luogo che vive dividendosi tra quello che produce e ciò che ospita, anche avendo una grossa componente di formazione sia dell’attore sia dello spettatore, quindi lavorando su tutti e due i piani. Per questo motivo partiremo da quest’anno per un evento che chiameremo la “Libera repubblica delle arti”. Presenteremo un libro che si chiama L’arte dello spettatore, perché una componente, per noi non secondaria, è quella di formare spettatori, far sì cioè, che si ricomponga una figura di spettatore che sta scomparendo.
Ecco hai toccato due tasti molto interessanti, la formazione e l’ospitalità; vorrei chiederti se gli attori provengono da culture diverse o dalla sola realtà di Firenze?
Questo è un luogo che serve molto a coagulare le persone attorno a un’idea .. noi non creiamo un filtro all’inizio, il filtro si genera automaticamente col progetto, determinando delle linee progettuali molto precise si può essere molto aperti nell’accoglienza, poiché è il progetto che crea le discriminanti. Non discrimina in quanto soggetto ma in quanto comportamento: quindi qui arrivano persone di formazione di linguaggi più variegati. Dal teatro alla danza, dalla musica alla pittura dalla scultura al video, alla fotografia. Cerchiamo di confondere i linguaggi tentando di prendere l’un dall’altro in un processo continuo. Un’attività che apparentemente sembra un caos, – usando termini un po’ nietzschiani, un po’ artaudiani, – è invece un caos molto ordinato. Per quanto riguarda la provenienza, la gente viene un po’ dappertutto; dalla terra toscana e da fuori... ricordo un pittore curdo, il musicista indiano... una ricchezza di linguaggi e di letture, un carattere distintivo che a Firenze non è così presente. Tutto ciò appartiene a un mondo antico: noi siamo nati negli anni Settanta in una realtà ricca di linguaggi, che oggi si presentano come una realtà piuttosto disattesa. È anche per questo che ora proponiamo questo lavoro su Pasolini, sui linguaggi dell’arte come mondo che più ci appartiene.
Pasolini cade a pennello perché, il poeta, migrando da Casarsa a Roma, ha potuto risolvere dei problemi legati alla sua omosessualità cristallizzata e al suo linguaggio poetico. Credi che anche gli attori che si formano presso la tua compagnia abbiano affrontato dei problemi legati alle loro culture d’origine?
Questo è molto complesso e richiede più sottodomande, tra cui una implicita è se sia meglio avere una ferita data da un distacco o meno, – più che altro perché se Pasolini non fosse stato espulso dal PCI, cacciato da Casarsa e allontanato dalla scuola, secondo me, non avremo avuto il Pasolini che abbiamo avuto. Oppure, se Pavese o Campana non avessero avuto i genitori che avevano non sarebbero esistiti... è indubbio che in una scissione vi sia un azzeramento e una rinascita. Silvana Mauri diceva: «Pasolini appariva azzerato, ma in fondo si stava aprendo».
Poiché ogni azzeramento ha in sé questa riapertura... quindi io invito molto gli attori con cui lavoro a raggiungere degli azzeramenti. Un percorso complesso, dal punto di vista della formazione dell’attore: perché si azzeri deve trovare un’accettazione piena. Deve sentirsi anche molto amato, perché quest’azzeramento lo scarica piano piano... È un processo che avviene un po’ in tutti coloro che fanno Arte, un mettersi in continuo in una condizione in cui non si ha nulla da perdere e quindi buttare via tutto. Una sorta di dispendio, di spreco nella creazione. Non va raggiunto il risultato più congruo o il più vantaggioso, ma il più tendente alla bellezza; un dispendio in cui si spreca cento per avere uno. In questo senso lo sradicamento, la ferita, probabilmente, è quasi un male necessario; infatti, chi fa questo lavoro si considera in una instabilità permanente. Non deve trovarsi in una situazione di comodità, ma ambientarsi dove è necessario stare non male, ma inquieti. Non sedersi mai! Un bisogno delle proprie origini, ma allo stesso tempo il bisogno di ucciderle; un po’ come avviene con i genitori: ne hai bisogno, ma li devi recidere con la disciplina del lavorare su questo doppio. Un percorso che spero abbiano tutti coloro che fanno teatro. «Il no va detto subito, non quando non se ne può più fare a meno», diceva Pasolini… Va detto, anzi, quando è un po’ prematuro. Rompere prima che la cosa decada, nulla deve decadere!
La storia della compagnia è una storia molto lunga e molto complessa .. Dal 1998 è nato un progetto molto particolare sia come creazione e produzione artistica sia come ospitalità. È diventato un luogo che vive dividendosi tra quello che produce e ciò che ospita, anche avendo una grossa componente di formazione sia dell’attore sia dello spettatore, quindi lavorando su tutti e due i piani. Per questo motivo partiremo da quest’anno per un evento che chiameremo la “Libera repubblica delle arti”. Presenteremo un libro che si chiama L’arte dello spettatore, perché una componente, per noi non secondaria, è quella di formare spettatori, far sì cioè, che si ricomponga una figura di spettatore che sta scomparendo.
Ecco hai toccato due tasti molto interessanti, la formazione e l’ospitalità; vorrei chiederti se gli attori provengono da culture diverse o dalla sola realtà di Firenze?
Questo è un luogo che serve molto a coagulare le persone attorno a un’idea .. noi non creiamo un filtro all’inizio, il filtro si genera automaticamente col progetto, determinando delle linee progettuali molto precise si può essere molto aperti nell’accoglienza, poiché è il progetto che crea le discriminanti. Non discrimina in quanto soggetto ma in quanto comportamento: quindi qui arrivano persone di formazione di linguaggi più variegati. Dal teatro alla danza, dalla musica alla pittura dalla scultura al video, alla fotografia. Cerchiamo di confondere i linguaggi tentando di prendere l’un dall’altro in un processo continuo. Un’attività che apparentemente sembra un caos, – usando termini un po’ nietzschiani, un po’ artaudiani, – è invece un caos molto ordinato. Per quanto riguarda la provenienza, la gente viene un po’ dappertutto; dalla terra toscana e da fuori... ricordo un pittore curdo, il musicista indiano... una ricchezza di linguaggi e di letture, un carattere distintivo che a Firenze non è così presente. Tutto ciò appartiene a un mondo antico: noi siamo nati negli anni Settanta in una realtà ricca di linguaggi, che oggi si presentano come una realtà piuttosto disattesa. È anche per questo che ora proponiamo questo lavoro su Pasolini, sui linguaggi dell’arte come mondo che più ci appartiene.
Pasolini cade a pennello perché, il poeta, migrando da Casarsa a Roma, ha potuto risolvere dei problemi legati alla sua omosessualità cristallizzata e al suo linguaggio poetico. Credi che anche gli attori che si formano presso la tua compagnia abbiano affrontato dei problemi legati alle loro culture d’origine?
Questo è molto complesso e richiede più sottodomande, tra cui una implicita è se sia meglio avere una ferita data da un distacco o meno, – più che altro perché se Pasolini non fosse stato espulso dal PCI, cacciato da Casarsa e allontanato dalla scuola, secondo me, non avremo avuto il Pasolini che abbiamo avuto. Oppure, se Pavese o Campana non avessero avuto i genitori che avevano non sarebbero esistiti... è indubbio che in una scissione vi sia un azzeramento e una rinascita. Silvana Mauri diceva: «Pasolini appariva azzerato, ma in fondo si stava aprendo».
Poiché ogni azzeramento ha in sé questa riapertura... quindi io invito molto gli attori con cui lavoro a raggiungere degli azzeramenti. Un percorso complesso, dal punto di vista della formazione dell’attore: perché si azzeri deve trovare un’accettazione piena. Deve sentirsi anche molto amato, perché quest’azzeramento lo scarica piano piano... È un processo che avviene un po’ in tutti coloro che fanno Arte, un mettersi in continuo in una condizione in cui non si ha nulla da perdere e quindi buttare via tutto. Una sorta di dispendio, di spreco nella creazione. Non va raggiunto il risultato più congruo o il più vantaggioso, ma il più tendente alla bellezza; un dispendio in cui si spreca cento per avere uno. In questo senso lo sradicamento, la ferita, probabilmente, è quasi un male necessario; infatti, chi fa questo lavoro si considera in una instabilità permanente. Non deve trovarsi in una situazione di comodità, ma ambientarsi dove è necessario stare non male, ma inquieti. Non sedersi mai! Un bisogno delle proprie origini, ma allo stesso tempo il bisogno di ucciderle; un po’ come avviene con i genitori: ne hai bisogno, ma li devi recidere con la disciplina del lavorare su questo doppio. Un percorso che spero abbiano tutti coloro che fanno teatro. «Il no va detto subito, non quando non se ne può più fare a meno», diceva Pasolini… Va detto, anzi, quando è un po’ prematuro. Rompere prima che la cosa decada, nulla deve decadere!
Più che di rifiuti espliciti, quando si fa un lavoro a teatro, si teme di più il rifiuto implicito, Grotowski diceva: «il nostro lavoro consiste nella rimozione degli ostacoli». Compito di chi segue la regia è di rimuovere quegli ostacoli che impediscono la libera espressione dell’attore; libera espressione dell’attore; cosa molto più facile a dirsi che a farsi... Nulla è mai acquisito, tutto si modifica. Un amore un tradimento una morte – che accade entro la quotidianità dell’attore, – gli cambiano l’esistenza. Ecco, allora che quegli ostacoli per la cui rimozione avevi lavorato per mesi, ti si ripresentano in forma diversa: degli ultracorpi che si manifestano in altra forma.
Direi che il lavoro più complesso è proprio quello della rimozione degli ostacoli. Bisognerebbe che non ci fossero rifiuti non manifesti, che sono i più duri da liberare... Ovvero, il regista dovrebbe domandare all’attore qualcosa in più di ciò che l’attore è in quel momento, ma qualcosa di non troppo lontano da ciò che l’attore può essere in sé. Per questo uno spettacolo funziona in modo abbastanza interessante se ognuno è un attimo più avanti dell’oggi ma non è in un domani troppo lontano; quindi, l’attore non deve sentirsi troppo al di là, ma deve capire che ha fatto un passo in avanti. Un equilibrio davvero complesso da raggiungere. Per questo, quando qualcuno mi chiede un copione della scrittura scenica, io lo do molto volentieri, poiché non potrei mai pensare che si possa copiare un rapporto tra coloro che creano lo spettacolo – essendo questo composto di una tale alchimia che diviene irripetibile. Oserei dire che è già irripetibile per lo stesso gruppo il giorno dopo. Non si può copiare un rapporto reticolare con gli attori... quei giochi di sguardi, di azioni che sono irripetibili.
Diciamo che un manuale didattico o una bibbia della performance non può funzionare molto?
Soprattutto in un teatro che lavora su attori e non personaggi, su «gente che agisce», citando Artaud. La cosa è molto più intima e rientra in una determinata sfera psicologica. Soprattutto, entra il lavoro che tu fai rispetto agli attori come persone, esseri umani. Barba lo chiamava «una sorta di rapporto amoroso», una continua fase dell’innamoramento, il mantenere il clima del momento che precedere l’unione. Uno sviluppo della pre-mani-festazione.
La manifestazione rischia di diventare una sorta di appagamento e di chiusura; allora, tu devi lavorare nella situazione che precede il manifesto, nella tensione «del». Tutto ciò è una fatica mostruosa.
Per quanto riguarda la persona in scena, potresti raccontarci un aneddoto di un superamento di blocchi dati dalla cultura di origine?
Sono tutti casi unici e interessanti. Posso più che altro raccontarti le sensazioni che hanno le persone che vengono a vedere un lavoro sui generis, in particolare quello di una ragazza che venne a vedere un percorso su Kafka e il suo Il processo. È rimasta sorpresa dal fatto che, diceva: «Sembrava assolutamente che tutte le persone che svolgevano le vicende all’interno dell’opera, mentre rivestivano personaggi altri da sé, fossero allo stesso tempo proprio loro (attori in quanto persone) lì a svolgere le loro azioni». La ragazza era sorpresa di questo rapporto attore-energia-personaggio. Un rapporto che può nascere solo con un sentimento di innamoramento tra attori e regista.
Mi pare di capire che il tuo processo d’innamoramento con gli attuanti, esuli dal dover analizzare l’origine dei motivi del blocco che risiede nell’attore?
Non è un fatto molto mentale, è un fatto più fisico, come avviene nell’innamoramento in generale, se non specioso e ricercato per ottenere i propri fini d’interesse. Questo significa che si deve entrare in un rapporto fisico con le persone, un rapporto amoroso non sessuale, dove il fine è l’ottenimento di un appagamento che finisce. Qui, invece, non dovresti mai capire quando cazzo finisce! Dovresti stare sempre sul punto di..., senza mai arrivare. Questo, se vogliamo, è il segreto per togliere quei blocchi di cui tu mi accennavi.
Per questo si crea uno stato di indipendenza nelle persone che ritornano a lavorare con me, dopo anni: un ritorno da una partenza che sembra sia stata fatta il giorno prima. Questo è l’innamoramento.
Direi che il lavoro più complesso è proprio quello della rimozione degli ostacoli. Bisognerebbe che non ci fossero rifiuti non manifesti, che sono i più duri da liberare... Ovvero, il regista dovrebbe domandare all’attore qualcosa in più di ciò che l’attore è in quel momento, ma qualcosa di non troppo lontano da ciò che l’attore può essere in sé. Per questo uno spettacolo funziona in modo abbastanza interessante se ognuno è un attimo più avanti dell’oggi ma non è in un domani troppo lontano; quindi, l’attore non deve sentirsi troppo al di là, ma deve capire che ha fatto un passo in avanti. Un equilibrio davvero complesso da raggiungere. Per questo, quando qualcuno mi chiede un copione della scrittura scenica, io lo do molto volentieri, poiché non potrei mai pensare che si possa copiare un rapporto tra coloro che creano lo spettacolo – essendo questo composto di una tale alchimia che diviene irripetibile. Oserei dire che è già irripetibile per lo stesso gruppo il giorno dopo. Non si può copiare un rapporto reticolare con gli attori... quei giochi di sguardi, di azioni che sono irripetibili.
Diciamo che un manuale didattico o una bibbia della performance non può funzionare molto?
Soprattutto in un teatro che lavora su attori e non personaggi, su «gente che agisce», citando Artaud. La cosa è molto più intima e rientra in una determinata sfera psicologica. Soprattutto, entra il lavoro che tu fai rispetto agli attori come persone, esseri umani. Barba lo chiamava «una sorta di rapporto amoroso», una continua fase dell’innamoramento, il mantenere il clima del momento che precedere l’unione. Uno sviluppo della pre-mani-festazione.
La manifestazione rischia di diventare una sorta di appagamento e di chiusura; allora, tu devi lavorare nella situazione che precede il manifesto, nella tensione «del». Tutto ciò è una fatica mostruosa.
Per quanto riguarda la persona in scena, potresti raccontarci un aneddoto di un superamento di blocchi dati dalla cultura di origine?
Sono tutti casi unici e interessanti. Posso più che altro raccontarti le sensazioni che hanno le persone che vengono a vedere un lavoro sui generis, in particolare quello di una ragazza che venne a vedere un percorso su Kafka e il suo Il processo. È rimasta sorpresa dal fatto che, diceva: «Sembrava assolutamente che tutte le persone che svolgevano le vicende all’interno dell’opera, mentre rivestivano personaggi altri da sé, fossero allo stesso tempo proprio loro (attori in quanto persone) lì a svolgere le loro azioni». La ragazza era sorpresa di questo rapporto attore-energia-personaggio. Un rapporto che può nascere solo con un sentimento di innamoramento tra attori e regista.
Mi pare di capire che il tuo processo d’innamoramento con gli attuanti, esuli dal dover analizzare l’origine dei motivi del blocco che risiede nell’attore?
Non è un fatto molto mentale, è un fatto più fisico, come avviene nell’innamoramento in generale, se non specioso e ricercato per ottenere i propri fini d’interesse. Questo significa che si deve entrare in un rapporto fisico con le persone, un rapporto amoroso non sessuale, dove il fine è l’ottenimento di un appagamento che finisce. Qui, invece, non dovresti mai capire quando cazzo finisce! Dovresti stare sempre sul punto di..., senza mai arrivare. Questo, se vogliamo, è il segreto per togliere quei blocchi di cui tu mi accennavi.
Per questo si crea uno stato di indipendenza nelle persone che ritornano a lavorare con me, dopo anni: un ritorno da una partenza che sembra sia stata fatta il giorno prima. Questo è l’innamoramento.
Mi ritornano in mente allora i Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini, in cui il poeta pareva dire a chiunque intervistasse, da Nord a Sud d’Italia, che l’unica forza per risolvere blocchi interiori di qualsiasi specie, fosse proprio l’innamoramento. Per te è sufficiente la forza dell’amore per il tuo lavoro? Questo è il mio percorso, il fatto di riuscirci è un’altra cosa. È davvero difficile cen- trarli questi obbiettivi. Certo, è l’unica componente che superi le differenze di genere, di età, di culture e di tecniche. |
Bisogna riuscire a trovare una sorta di sintesi, complicatissima. Essendo uomo nel mio caso trovo ovvie corrispondenze con il genere femminile e dovrei riuscire a mettere dei paletti anche con il genere maschile. È tutto molto labile e soprattutto dinamico. Non devi stare tranquillo mai; quello che sembra risolto ha bisogno di sterzate improvvise: motivo per il quale quello che facciamo qui è un lavoro bellissimo. Noi lasciamo il nostro operato nei corpi delle generazioni che ci seguono. Se il pittore, lo scultore, il musicista... Lasciano un quadro, una scultura, una musica... Un attore cosa lascia? Lascia alle generazioni future dei corpi futuri. È negli uomini che mi seguiranno che c’è il mio lavoro... noi siamo venditori di vuoto.. un vuoto importante.
Che differenza c’è tra l’abominevole utilizzo odierno dell’informazione e il vostro tipo di proposta informativa al pubblico?
Io credo che la differenza sia tra informazione e formazione. Un nostro spettacolo è molto più pedagogico, in questo senso è spettacolo formativo. Cerchiamo di stimolare l’intelligenza, in qualche modo partendo dall’assunto che ci sia un’intelligenza di base e che se stimolata si possa evolvere... Il teatro non muore proprio per questa esigenza del pubblico, l’interazione ... Tu dirai, «ma si può interagire anche con un computer...» credo che questi siano palliativi, rispetto alla nostra proposta. Lo spettatore il nostro lavoro lui lo comincia ad assorbire in modo attivo quando finisce la performance. Una specie di riverbero, a differenza di quello televisivo che ,normalmente, si chiude in sé. Tant’è vero che dopo uno spettacolo teatrale hai bisogno di andare a farti una passeggiata, una chiacchierata, qualcosa che ti permetta di vivere quello che hai esperito attraverso lo spettacolo. Dopo il cinema o la televisione serale ti viene voglia di andare a letto. Noi mettiamo in relazione le differenze e invitiamo a trovare una via d’uscita sul come collegare il tutto della vita, per trovare una tua risposta. Oggi il teatro è in crisi, non muore ma vive una grossa crisi. Questa che vedi qui (S. Salvi) è una nicchia; Orson Wells diceva che l’uomo medio è veramente il peggio che possa capitare. Oggi viviamo in un mondo di uomini medi, dove tutti si fanno i cazzi propri, il mondo del non porsi il problema... Il problema che mi pongo io, per quanto concerne l’informazione, non riguarda l’emissione di notizie in sé, ma quello che è davvero il finto reality – «Il grande fratello», «X-factor»…, – un mondo che tende a nasconderti il percorso più intimo: quindi, non mettendoti in crisi e semplificandoti la vita te la fa divenire in realtà un gran casino.
Finita l’intervista, Ascoli si assenta per qualche minuto; il tempo giusto per prepararmi un caffè e farmi collegare alcune informazioni, capire quali sono i punti di forza del suo lavoro e quali quelli deboli. Il giorno dopo aver visto il suo spettacolo ho una buona quantità di materiale da collegare.
I punti forti sono: un riscontrato credito sull’adoprata messa in crisi degli attuanti – che non sempre nasce dalla relazione performativa tra gli attori, ma almeno, la si è vista tra gli attori e il pubblico. Un apporto altresì importante è giunto dalla commistione, riuscita, tra la tecnica dei due attori professionisti e la vitalità degli attuanti non professionisti in scena. I lavori scenografici sono stati apprezzati dai più – cui ho rivolto particolare interesse –, quasi con maggior enfasi rispetto alla proposta teatrica in genere. Questo apre ai punti deboli che si sono rivelati: a) la mancanza di esperienza degli attori non professionisti, non concede, a chi siede agli ultimi posti della platea (io), di sentire le rare parti recitate; b) la sceneggiatura sovrasta l’apporto emotivo emanato dagli attori, i quali non assecondano i propri bisogni ma quelli dello spettacolo. Come dice Ascoli: «Questo è il mio percorso, il fatto di riuscirci è un’altra cosa. È davvero difficile centrarli questi obbiettivi». Oppure, come dice Pia Simeone, attrice della sua compagnia: «Le prove sono molto più importanti dello spettacolo offerto al pubblico».
Che differenza c’è tra l’abominevole utilizzo odierno dell’informazione e il vostro tipo di proposta informativa al pubblico?
Io credo che la differenza sia tra informazione e formazione. Un nostro spettacolo è molto più pedagogico, in questo senso è spettacolo formativo. Cerchiamo di stimolare l’intelligenza, in qualche modo partendo dall’assunto che ci sia un’intelligenza di base e che se stimolata si possa evolvere... Il teatro non muore proprio per questa esigenza del pubblico, l’interazione ... Tu dirai, «ma si può interagire anche con un computer...» credo che questi siano palliativi, rispetto alla nostra proposta. Lo spettatore il nostro lavoro lui lo comincia ad assorbire in modo attivo quando finisce la performance. Una specie di riverbero, a differenza di quello televisivo che ,normalmente, si chiude in sé. Tant’è vero che dopo uno spettacolo teatrale hai bisogno di andare a farti una passeggiata, una chiacchierata, qualcosa che ti permetta di vivere quello che hai esperito attraverso lo spettacolo. Dopo il cinema o la televisione serale ti viene voglia di andare a letto. Noi mettiamo in relazione le differenze e invitiamo a trovare una via d’uscita sul come collegare il tutto della vita, per trovare una tua risposta. Oggi il teatro è in crisi, non muore ma vive una grossa crisi. Questa che vedi qui (S. Salvi) è una nicchia; Orson Wells diceva che l’uomo medio è veramente il peggio che possa capitare. Oggi viviamo in un mondo di uomini medi, dove tutti si fanno i cazzi propri, il mondo del non porsi il problema... Il problema che mi pongo io, per quanto concerne l’informazione, non riguarda l’emissione di notizie in sé, ma quello che è davvero il finto reality – «Il grande fratello», «X-factor»…, – un mondo che tende a nasconderti il percorso più intimo: quindi, non mettendoti in crisi e semplificandoti la vita te la fa divenire in realtà un gran casino.
Finita l’intervista, Ascoli si assenta per qualche minuto; il tempo giusto per prepararmi un caffè e farmi collegare alcune informazioni, capire quali sono i punti di forza del suo lavoro e quali quelli deboli. Il giorno dopo aver visto il suo spettacolo ho una buona quantità di materiale da collegare.
I punti forti sono: un riscontrato credito sull’adoprata messa in crisi degli attuanti – che non sempre nasce dalla relazione performativa tra gli attori, ma almeno, la si è vista tra gli attori e il pubblico. Un apporto altresì importante è giunto dalla commistione, riuscita, tra la tecnica dei due attori professionisti e la vitalità degli attuanti non professionisti in scena. I lavori scenografici sono stati apprezzati dai più – cui ho rivolto particolare interesse –, quasi con maggior enfasi rispetto alla proposta teatrica in genere. Questo apre ai punti deboli che si sono rivelati: a) la mancanza di esperienza degli attori non professionisti, non concede, a chi siede agli ultimi posti della platea (io), di sentire le rare parti recitate; b) la sceneggiatura sovrasta l’apporto emotivo emanato dagli attori, i quali non assecondano i propri bisogni ma quelli dello spettacolo. Come dice Ascoli: «Questo è il mio percorso, il fatto di riuscirci è un’altra cosa. È davvero difficile centrarli questi obbiettivi». Oppure, come dice Pia Simeone, attrice della sua compagnia: «Le prove sono molto più importanti dello spettacolo offerto al pubblico».
Francesco Panizzo
|
Vuoi diventare pubblicista presso la nostra rivista?
sottoscrivi il bando. Accedi al link dall'immagine sottostante.
sottoscrivi il bando. Accedi al link dall'immagine sottostante.
Click here to edit.
Vuoi entrare nella redazione di Edizioni Psychodream,
o collaborare con Psychodream Theater?
Direttore: Francesco Luigi Panizzo | [email protected]
Responsabili di redazione: Viviana Vacca | Fabio Treppiedi | Massimo Acciai | Anna Novello | Gaia Grassi | Alessandro Rizzo | Daniel Montigiani
Per affiliazioni pubblicitarie | [email protected]
Per collaborazioni e progetti | [email protected]
Tutti i contenuti di questo sito possono essere utilizzati da altri media e siti internet, giornali o televisioni con la clausola
di esporre a citazione, tramite il seguente link, la Edizioni Psychodream oppure la pagina di riferimento.
Per info: ooooooooooooooooooooooooo
[email protected]
[email protected]
Psychodream Theater - © 2012 Tutti i
diritti riservati