Sezione Filosofia Alphaville Sezione diretta da Viviana Vacca e Silverio Zanobetti
Rubrica Conferenze e tavole rotonde
. Per una Ecosofia del futuro
Il dodicesimo numero della rivista PASSPARnous
presenta la “Sezione Ecosofia”.
presenta la “Sezione Ecosofia”.
La bellezza del nero – la nerezza del bello: non recidere, forbice, quel volto, potremmo immaginare… Un conflitto lancinante immanente alla stessa genealogia cromopatica della forma, simulacro di presenza, memoria raccolta e gelosa di un “qui”. L’offrirsi del tratto delinea uno scorrimento. È il gesto archetipico della ripetizione ri-creativa, il cui indice di attrito è sempre variabile, misurabile nel diaframma di forsennamento, del soggettile come illustrato mira- bilmente da J. Derrida, nel suo straordinario lavoro sugli autoritratti di Artaud. Il movimento si conduce come un volo, solcando l’aria, in una prestazione preliminare di ricerca dello spazio di affondo – del colpo. E il peso leggero dell’aria quasi s’impasta allo slancio dell’artista; l’attrito non fa rumore, come un tuono che cade troppo più lontano della folgore che lo anticipa. L’atterraggio, invece, è il momento in cui stridono i grumi di cenere – e sangue – del segno. Il tratto si offre e fende nell’offesa inferta all’assenza, provocandone le virtualità. Un florilegio di vesciche si distribuisce su quel foglio (di supporto), ammalato e invecchiato, così, dall’at-traversamento sbiascicato di una presenza umbratile. Il tratto acciglia di nero il soggiacente, in una combustione il cui deposito, il resto, è una ruga d’espressione. Disfacendosi come tratto, dalla piega prodotta, è rovesciato l’intermezzo di una forma. Bellezza del nero: apollineo plastico, viscido su cui scivola lo sguardo per impigliarsi, poi, nell’asola della nerezza del bello – l’inverso dionisiaco da cui si sbottona. Disegnando di amore e di morte, attraversando le intensità di gradi dallo zero all’ennesima, sono rammendati appezzamenti di Terra, corpi di lenzuola da annodare, per sfuggire, inseguendo l’eco di infinito, fra cunicoli aperti delle dita – la mano che tratteggia e intreccia e libera, liberandosi e sgravandosi l’utero dell’incavo. Il labirinto è patchwork: molteplicità di scene nel cono srotolato degli Immaginabili. La tavola è pullulazione di in-tagli germinanti allucinazioni.
Grafemi come fonemi suonano musiche per organi ciechi e sordi: un di più di monco in produzione di mezzi. Il tratto trattiene e non rivela, magari già rilevando, un tutto tondo, non risolve neanche in termini di orma, cifra, con retaggi di dialettica. Il tratto, sulla tavola, monta. Graffiti schizzano in un montaggio continuo che tuttavia garantisce la discrezionalità delle diverse apparizioni.
La continuità fluidifica la profilazione. Un volto, non appena visibile nella chiarità della sua fronte, è connesso a lontananze sprofondate in prospettive altre. Perché tutto è sullo stesso piano: bellezza del nero – nerezza del bello.
L’estetica di questo tratto è desiderante su di una tavola onirica. L’organizzazione piana dello spazio, la contiguità senza sconti di spessore, delinea la sacralità assoluta di un senza tempo. Non si tratta dello spazio surreale, né dello spazio metafisico. Non sussiste alcun idealismo. Lo spazio non è un vuoto da riempire. Si dipana nella linea. È uno spazio senza prima né dopo. L’affollamento di profilazioni in rima costituisce spazio e tempo di un presente che, solo, dura. La tavola così prodotta e in produzione è ridondanza di forme delineantesi. Essa, la tavola: “Non appena la si era notata, continuava a occupare la mente. Continuava anche non so cosa, i casi suoi certamente… Ciò che colpiva era che, non essendo semplice, non era nemmeno veramente complessa, complessa d’acchito o d’intenzione o d’un piano complicato. Piuttosto desemplificata via via che veniva lavorata… Così com’era, era una tavola con aggiunte, come furon fatti certi disegni di schizofrenici detti inzeppati, ed era terminata solo in quanto non v’era più modo di aggiungere alcunché, tavola che era divenuta sempre più ammucchiamento, sempre meno tavola… Non era adatta ad alcun uso, a niente di ciò che ci si aspetta da una tavola. Pesante, ingombrante, era appena trasportabile.
La continuità fluidifica la profilazione. Un volto, non appena visibile nella chiarità della sua fronte, è connesso a lontananze sprofondate in prospettive altre. Perché tutto è sullo stesso piano: bellezza del nero – nerezza del bello.
L’estetica di questo tratto è desiderante su di una tavola onirica. L’organizzazione piana dello spazio, la contiguità senza sconti di spessore, delinea la sacralità assoluta di un senza tempo. Non si tratta dello spazio surreale, né dello spazio metafisico. Non sussiste alcun idealismo. Lo spazio non è un vuoto da riempire. Si dipana nella linea. È uno spazio senza prima né dopo. L’affollamento di profilazioni in rima costituisce spazio e tempo di un presente che, solo, dura. La tavola così prodotta e in produzione è ridondanza di forme delineantesi. Essa, la tavola: “Non appena la si era notata, continuava a occupare la mente. Continuava anche non so cosa, i casi suoi certamente… Ciò che colpiva era che, non essendo semplice, non era nemmeno veramente complessa, complessa d’acchito o d’intenzione o d’un piano complicato. Piuttosto desemplificata via via che veniva lavorata… Così com’era, era una tavola con aggiunte, come furon fatti certi disegni di schizofrenici detti inzeppati, ed era terminata solo in quanto non v’era più modo di aggiungere alcunché, tavola che era divenuta sempre più ammucchiamento, sempre meno tavola… Non era adatta ad alcun uso, a niente di ciò che ci si aspetta da una tavola. Pesante, ingombrante, era appena trasportabile.
Non si sapeva come prenderla (né mentalmente, né manualmente). Il piano, la parte utile della tavola, progressivamente ridotto, scompariva, essendo così poco in relazione con l’ingombrante intelaiatura, che non si pensava più all’insieme come a una tavola, ma come a un mobile a parte, uno strumento ignoto di cui non si fosse conosciuto l’uso. Tavola disumanizzata, senza alcuna comodità, che non era borghese, non rustica, non di campagna, non di cucina, non da lavoro. Che non si prestava a nulla, che si difendeva, che si sottraeva al servizio, alla comunicazione. In essa qualcosa di atterrato, di pietrificato. Avrebbe potuto far pensare a un motore fermo”. Causa immanente, il desiderio tra-passa e la tavola ne esprime il lavorìo. Fisiologia di una produzione macchinica, è una cineteca rappresa a rendersi visibile: la mente come collezione senza album, la mente nella anteriorità ultima della mente. Si di-segna come si muore, nella stessa vertigine – borderline.
Rosella Corda
Le Rubriche di Alphaville
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L’attenzione altrove.
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aprire il paesaggio Articolo di Natalia Anzalone Democrito, o
del filosofo che ride Articolo di Marco Bachini |
Al borderline
della profilazione Articolo di Rosella Corda |
Scrivono nella rivista: .
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