In questo special, le recensioni di alcuni dei migliori film della 69. Mostra del cinema di Venezia
Pietà
diretto da Kim Ki-Duk.
Kim Ki-Duk, considerato uno dei registi asiatici più importanti degli ultimi dieci/quindici anni, torna al cinema di finzione dopo una forte depressione (ben mostrata ed espressa in Arirang, suo documentario dell’anno precedente). Si tratta sicuramente di un ritorno a dir poco prepotente, aggettivo che in questo caso può essere utilizzato da almeno tre punti di vista: (pre)potente per il forte successo di critica riscosso all’ultimo Festival di Venezia ancora prima di vincere il premio che sta sull’invidiabile punta della piramide della mostra cinematografica; (pre)potente perché testimonia la capacità del regista di fare un robusto ritorno nel campo della creazione senza che la crisi che lo ha catturato negli ultimi anni abbia reso più fragile la sua ispirazione, ma, soprattutto, si tratta di un ritorno prepotente soprattutto per il carattere estremo dei temi trattati in questo film, sia, come primo impatto, da un punto di vista drammaturgico, sia per le modalità attraverso le quali questi vengono messi in campo.
Difatti, l’“occupazione” del protagonista, Kang-do, è violentemente sui generis: lavora per uno strozzino. Il “fine” del ragazzo è quello di recuperare i soldi da gente che si è indebitata, e lo fa con metodi a dir poco violenti, che davvero non sanno cosa significhi il senso del vocabolo “pietà”. La vita di quest’uomo, caratterizzata da una vistosa, vasta solitudine, viene improvvisamente raggiunta da una misteriosa donna che, con umiltà, dispiacere e commozione allo stesso tempo, gli dice di essere sua madre, dichiarando più volte di sentirsi in colpa per averlo abbandonato, fino ad arrivare a sostenere che la sua mancanza lunga trenta anni è stata ed è responsabile della devastante “occupazione” che mantiene in vita il figlio… |
Se, come già accennato, questo Pietà ha avuto l’onore di ricevere il Leone d’oro all’ultimo Festival di Venezia, si potrebbe allo stesso tempo sostenere (in parte con amara ironia) che, se esistesse, potrebbe meritarsi anche il Leone d’Oro per la migliore tristezza, il migliore senso di devastazione e violenza (sia fisiche che psicologiche).
La violenza e, soprattutto, il senso della violenza che il contenuto delle inquadrature e le atmosfere del film gettano verso lo spettatore sembrano essere i protagonisti, “divi” assoluti di quest’opera. L’inizio del film, ad esempio, con l’inquietante ripresa ravvicinata del ragazzo avvolto in una pesante catena, può costituire una breve premessa a tali atmosfere dai contorni estremi. Addirittura, pochi secondi dopo, alla comparsa del titolo del film a tutto schermo - una scritta centrale bianca che si staglia su uno sfondo nero – viene fatto corrispondere un forte grido di donna, dando così allo spettatore la vaga impressione di stare per assistere a un film horror. Del resto, in effetti, sono diversi i momenti e gli elementi che potrebbero perfettamente far parte di una pellicola esplicitamente thriller o, appunto, horror (a partire dagli inquietanti, densi volti dei due protagonisti, in particolar modo di quello maschile, specialmente all’inizio simile a una sorta di maschera scura e spietata, assolutamente contraria a qualsiasi mutamento): la violenza qui sprigionata da Kim Ki-Duk infatti risulta talvolta così sgradevole che, oltre a infiltrarsi negli occhi, nella visione, sembra quasi allo spettatore di assaggiarla con la bocca, nella bocca, sul viso intero. Proprio a causa della presenza di questi eccessi, con questo film Kim Ki-Duk sembra voler fare in buona parte ritorno alle proprie origini di creatore cinematografico. Quella di Pietà, infatti, sembra una violenza secca, diretta, senza ornamenti, come già era accaduto per L’isola, uno dei suoi primi, sconvolgenti lungometraggi. La violenza è stata comunque sempre una colonna portante del cinema di Kim Ki-Duk: tuttavia, almeno da Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera (2003), la brutalità di certi personaggi, delle situazioni e delle atmosfere si intersecava mirabilmente con un senso di poesia, della poesia, sia per quanto riguarda la narrazione che il denso e raffinato uso dello stile. In Ferro 3 – La casa vuota (2004), quello che forse può essere considerato il momento più luminoso della sua carriera, la mescolanza di eccessi fisici e psicologici con momenti di alta poesia è assolutamente visibile. In esso, infatti, addirittura, gli elementi poetici e violenti sembravano integrarsi quasi perfettamente, tanto che, in alcuni momenti, vedendo quel film, si poteva persino avere l’impressione che la bellezza poetica e la violenza potessero essere gli opposti di uno stesso corpo.
La violenza e, soprattutto, il senso della violenza che il contenuto delle inquadrature e le atmosfere del film gettano verso lo spettatore sembrano essere i protagonisti, “divi” assoluti di quest’opera. L’inizio del film, ad esempio, con l’inquietante ripresa ravvicinata del ragazzo avvolto in una pesante catena, può costituire una breve premessa a tali atmosfere dai contorni estremi. Addirittura, pochi secondi dopo, alla comparsa del titolo del film a tutto schermo - una scritta centrale bianca che si staglia su uno sfondo nero – viene fatto corrispondere un forte grido di donna, dando così allo spettatore la vaga impressione di stare per assistere a un film horror. Del resto, in effetti, sono diversi i momenti e gli elementi che potrebbero perfettamente far parte di una pellicola esplicitamente thriller o, appunto, horror (a partire dagli inquietanti, densi volti dei due protagonisti, in particolar modo di quello maschile, specialmente all’inizio simile a una sorta di maschera scura e spietata, assolutamente contraria a qualsiasi mutamento): la violenza qui sprigionata da Kim Ki-Duk infatti risulta talvolta così sgradevole che, oltre a infiltrarsi negli occhi, nella visione, sembra quasi allo spettatore di assaggiarla con la bocca, nella bocca, sul viso intero. Proprio a causa della presenza di questi eccessi, con questo film Kim Ki-Duk sembra voler fare in buona parte ritorno alle proprie origini di creatore cinematografico. Quella di Pietà, infatti, sembra una violenza secca, diretta, senza ornamenti, come già era accaduto per L’isola, uno dei suoi primi, sconvolgenti lungometraggi. La violenza è stata comunque sempre una colonna portante del cinema di Kim Ki-Duk: tuttavia, almeno da Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera (2003), la brutalità di certi personaggi, delle situazioni e delle atmosfere si intersecava mirabilmente con un senso di poesia, della poesia, sia per quanto riguarda la narrazione che il denso e raffinato uso dello stile. In Ferro 3 – La casa vuota (2004), quello che forse può essere considerato il momento più luminoso della sua carriera, la mescolanza di eccessi fisici e psicologici con momenti di alta poesia è assolutamente visibile. In esso, infatti, addirittura, gli elementi poetici e violenti sembravano integrarsi quasi perfettamente, tanto che, in alcuni momenti, vedendo quel film, si poteva persino avere l’impressione che la bellezza poetica e la violenza potessero essere gli opposti di uno stesso corpo.
In Pietà, invece, gli ambienti in genere sono bassi, squallidi, diretti nella loro svogliata bruttezza, presi e scelti come una sorta di ready made: qui il rapporto fra ambienti/architettura degli interni, delle case e personaggi viene riposto in un minuscolo angolo per dare ivece risalto quasi esclusivamente all’ingombrante e fastidiosa presenza dei corpi dei due protagonisti, i cui gesti, movimenti e azioni, imprevedibili e molte volte sgradevoli, sembrano prendere quasi completamente il rigido spazio dell’inquadratura facendo dimenticare il luogo reale in cui si trovano. Come se, essenzialmente, da un punto di vista visivo i due corpi fossero il film intero.
Oltre alla violenza viene messa in campo anche la rappresentazione viva di quella che può essere considerata la progressiva perdita di potenza e “autorità” (negativa, ovviamente) del protagonista, la rappresentazione del male che perde se stesso e il proprio potere distruttivo, qui, appunto, glacialmente incarnato da Kang-do. Il giovane infatti, sembra subire passo dopo passo un processo di perdita di potere: ripreso inizialmente immerso con attenzione nel proprio burrascoso ma freddo lavoro di strozzino - con un volto e una presenza così fissi, totali da sembrare più una metafora visiva del male, dell’ingiustizia, della spietatezza che una vera e propria persona – a causa di varie situazioni (a cominciare dall’improvvisa e inaspettata “conoscenza” della donna che sostiene di essere sua madre) sembra venir mostrato scena dopo scena sempre più come un essere umano capace di subire e non solo di far subire, un essere umano che ha sofferto per la mancanza della figura materna.
Parallelamente sembra venirsi a creare una specie di amara, spietata, involontaria ironia, di ironia della sorte sempre nei confronti del protagonista. Egli, che inizialmente, sia a causa della sua presenza scura che del suo “compito” di usuraio, sembra essere il padrone del film, il detentore fisico del male, finisce già a poco più di metà della pellicola per essere persino inferiore allo spettatore. Difatti, a un certo punto, lo spettatore assiste ad alcune, inaspettate azioni che la coprotagonista (colei che sostiene di essere la madre) compie nella casa del figlio in assenza di quest’ultimo, azioni che fanno così improvvisamente comprendere ciò che può celarsi dietro quell’ inaspettato e sentito ritorno. Così, fino a poche gocce prima della fine, il regista e gli spettatori assistono all’abile raggiro attuato nei confronti dello strozzino che, tra l’altro, nel mostrare finalmente la propria tenerezza almeno nei confronti della madre, non farà altro che ferirsi.
Oltre alla violenza viene messa in campo anche la rappresentazione viva di quella che può essere considerata la progressiva perdita di potenza e “autorità” (negativa, ovviamente) del protagonista, la rappresentazione del male che perde se stesso e il proprio potere distruttivo, qui, appunto, glacialmente incarnato da Kang-do. Il giovane infatti, sembra subire passo dopo passo un processo di perdita di potere: ripreso inizialmente immerso con attenzione nel proprio burrascoso ma freddo lavoro di strozzino - con un volto e una presenza così fissi, totali da sembrare più una metafora visiva del male, dell’ingiustizia, della spietatezza che una vera e propria persona – a causa di varie situazioni (a cominciare dall’improvvisa e inaspettata “conoscenza” della donna che sostiene di essere sua madre) sembra venir mostrato scena dopo scena sempre più come un essere umano capace di subire e non solo di far subire, un essere umano che ha sofferto per la mancanza della figura materna.
Parallelamente sembra venirsi a creare una specie di amara, spietata, involontaria ironia, di ironia della sorte sempre nei confronti del protagonista. Egli, che inizialmente, sia a causa della sua presenza scura che del suo “compito” di usuraio, sembra essere il padrone del film, il detentore fisico del male, finisce già a poco più di metà della pellicola per essere persino inferiore allo spettatore. Difatti, a un certo punto, lo spettatore assiste ad alcune, inaspettate azioni che la coprotagonista (colei che sostiene di essere la madre) compie nella casa del figlio in assenza di quest’ultimo, azioni che fanno così improvvisamente comprendere ciò che può celarsi dietro quell’ inaspettato e sentito ritorno. Così, fino a poche gocce prima della fine, il regista e gli spettatori assistono all’abile raggiro attuato nei confronti dello strozzino che, tra l’altro, nel mostrare finalmente la propria tenerezza almeno nei confronti della madre, non farà altro che ferirsi.
Un pesante effetto-sorpresa che se da una parte può appunto far sentire lo spettatore “narrativamente superiore” al protagonista che infligge mutilazioni, allo stesso tempo, dal punto di vista del racconto, può risultare agli occhi persino più pesante della violenza che si agita all’interno della pellicola.
Daniel Montigiani
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