Terzo numero - 18/08/2012
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Il regista francese, infatti, da inquadrature, storie, eventi perlopiù semplici, essenziali, apparentemente “normali” riesce a ricavare elementi stilisticamente e tematicamente preziosi, richiami profondi. Il “raggio verde” sembra infatti essere in molti casi rappresentativo da questo punto di vista.
La storia di questo film, infatti, almeno generalmente, risulta essere piuttosto semplice: a luglio la protagonista Delphine è sola, senza un ragazzo, e, soprattutto, abbandonata dall’amica con cui doveva andare in vacanza in Grecia.
Ed ecco che proprio quest’ultimo evento scatena una serie di (ulteriori) inquietudini e spostamenti. Delphine non sa come trascorrere le vacanze (forse, in questo caso, sarebbe meglio dire che “non ci riesce”) e, soprattutto, con chi. Le amiche tentano di coinvolgerla in varie proposte e viaggi (in parte con “successo”), ma lei - dall’animo assolutamente “diverso” e idealista - non riesce ad ottenere nessuna reale distrazione, nessun reale beneficio da tutto questo. Per caso, un giorno, in un posto di mare, sente parlare del fenomeno del raggio verde (fenomeno che si manifesta all’ora del tramonto nelle giornate limpide, quando l’ultimo raggio di sole appare verde) e, da quel momento, progressivamente, la sua vita, grazie ad un incontro casuale (o apparecchiatole dal destino), sembra iniziare a cambiare...
La storia di questo film, infatti, almeno generalmente, risulta essere piuttosto semplice: a luglio la protagonista Delphine è sola, senza un ragazzo, e, soprattutto, abbandonata dall’amica con cui doveva andare in vacanza in Grecia.
Ed ecco che proprio quest’ultimo evento scatena una serie di (ulteriori) inquietudini e spostamenti. Delphine non sa come trascorrere le vacanze (forse, in questo caso, sarebbe meglio dire che “non ci riesce”) e, soprattutto, con chi. Le amiche tentano di coinvolgerla in varie proposte e viaggi (in parte con “successo”), ma lei - dall’animo assolutamente “diverso” e idealista - non riesce ad ottenere nessuna reale distrazione, nessun reale beneficio da tutto questo. Per caso, un giorno, in un posto di mare, sente parlare del fenomeno del raggio verde (fenomeno che si manifesta all’ora del tramonto nelle giornate limpide, quando l’ultimo raggio di sole appare verde) e, da quel momento, progressivamente, la sua vita, grazie ad un incontro casuale (o apparecchiatole dal destino), sembra iniziare a cambiare...
Uno dei maggiori meriti di Rohmer in questo caso sembra essere quello di riuscire a mostrare in maniera perfetta la (simpatica, anche) inquietudine e caratterizzazione della protagonista perlopiù attraverso riprese, inquadrature e scene affatto elaborate, persino apparentemente grezze, particolarmente spontanee, semplici, appunto.
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Ma risulta alto e spiazzante anche il personaggio stesso di Delphine, una trentenne per molti aspetti semplice, con un lavoro più che normale (fa l’impiegata) ma, allo stesso tempo, capace in maniera assolutamente naturale di una poesia che la rende estremamente diversa dalle altre persone, anche dalle sue amiche.
Il regista (con il contributo alla sceneggiatura da parte della stessa interprete Marie Rivière) “disegna”, con la macchina da presa, una protagonista capace di spargere negli spazi talvolta angusti, banali e grigi (se non deprimenti) del quotidiano parole di bellezza spontanea, quotidiana, pensieri e comportamenti nobili, poetici (si pensi a tal proposito alla scena in cui, attorniata da persone quasi incredule, spiega le motivazioni che stanno alla base del suo rifiuto di mangiare carne).
Gli elementi-base che emergono maggiormente. in questo film sono dunque una sorta di ricerca da parte della protagonista di un compagno e, parallelamente, la (buffa, talvolta) difficoltà nel trovarlo “a causa” in primis del suo essere diversa dagli altri e della mediocrità che spesso si trova attorno. Tale piccolo ma ingombrante “puzzle” di disagi della protagonista viene mostrato ed evidenziato dal punto di vista stilistico attraverso soluzioni visive semplici ma allo stesso tempo assolutamente efficaci.
L’inquietudine, l’instabilità emotiva e l’insofferenza verso la maggior parte delle persone che la protagonista si trova suo malgrado accanto vengono rese perfettamente infatti attraverso il peculiare rapporto fra Delphine e il contenuto dell’inquadratura. Difatti, l’inquadratura sembra il più delle volte davvero essere una casa che Delphine abita malvolentieri, con visibile disagio. Rohmer sembra fare in modo che non possa esistere un rapporto armonioso fra la protagonista e molte delle inquadrature che via via la ospitano. Tale “condizione stilistica” sembra essere evidente sia quando Delphine condivide lo spazio dell’inquadratura con una grande quantità di gente (come nelle scene in cui è “costretta” a condividere la spiaggia e il mare con molte altre persone urlanti che sembrano soffocare la sua presenza) sia quando si trova sola all’interno dell’immagine filmica (ovvero nelle brevi scene in cui passeggia da sola per alcune piccole e deserte vie di Parigi, spazi vagamente desolati che sembrano riflettere la sua solitudine).
Di grande fascino (e assolutamente rilevanti) sono quelle inquadrature-elementi che conferiscono al film un’atmosfera quasi “esoterica”, sicuramente misteriosa e dai tratti quasi magici.
Il regista (con il contributo alla sceneggiatura da parte della stessa interprete Marie Rivière) “disegna”, con la macchina da presa, una protagonista capace di spargere negli spazi talvolta angusti, banali e grigi (se non deprimenti) del quotidiano parole di bellezza spontanea, quotidiana, pensieri e comportamenti nobili, poetici (si pensi a tal proposito alla scena in cui, attorniata da persone quasi incredule, spiega le motivazioni che stanno alla base del suo rifiuto di mangiare carne).
Gli elementi-base che emergono maggiormente. in questo film sono dunque una sorta di ricerca da parte della protagonista di un compagno e, parallelamente, la (buffa, talvolta) difficoltà nel trovarlo “a causa” in primis del suo essere diversa dagli altri e della mediocrità che spesso si trova attorno. Tale piccolo ma ingombrante “puzzle” di disagi della protagonista viene mostrato ed evidenziato dal punto di vista stilistico attraverso soluzioni visive semplici ma allo stesso tempo assolutamente efficaci.
L’inquietudine, l’instabilità emotiva e l’insofferenza verso la maggior parte delle persone che la protagonista si trova suo malgrado accanto vengono rese perfettamente infatti attraverso il peculiare rapporto fra Delphine e il contenuto dell’inquadratura. Difatti, l’inquadratura sembra il più delle volte davvero essere una casa che Delphine abita malvolentieri, con visibile disagio. Rohmer sembra fare in modo che non possa esistere un rapporto armonioso fra la protagonista e molte delle inquadrature che via via la ospitano. Tale “condizione stilistica” sembra essere evidente sia quando Delphine condivide lo spazio dell’inquadratura con una grande quantità di gente (come nelle scene in cui è “costretta” a condividere la spiaggia e il mare con molte altre persone urlanti che sembrano soffocare la sua presenza) sia quando si trova sola all’interno dell’immagine filmica (ovvero nelle brevi scene in cui passeggia da sola per alcune piccole e deserte vie di Parigi, spazi vagamente desolati che sembrano riflettere la sua solitudine).
Di grande fascino (e assolutamente rilevanti) sono quelle inquadrature-elementi che conferiscono al film un’atmosfera quasi “esoterica”, sicuramente misteriosa e dai tratti quasi magici.
Ci si riferisce qui in particolare ad esempio ai momenti in cui la protagonista a Parigi nota a terra prima la carta da gioco raffigurante la donna di picche, poi un manifesto (verde, non a caso come il raggio verde...) che pubblicizza corsi di yoga per “ritrovare se stessi” e infine, al mare, fra gli scogli, un’altra carta da gioco, ma questa volta del fante di cuori.
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Un destino che, appunto, sembra andare in direzione positiva: si parte infatti con un riflesso della condizione iniziale della protagonista (rappresentata in questo caso dalla carta della donna di picche, un’immagine oscura che, nella simbologia delle carte da gioco, rappresenta anche la negatività, il lutto), per poi continuare con un segnale che può essere considerato un tentativo di aiuto, di soluzione (la pubblicità del corso di yoga per ritrovare se stessi) e, terzo elemento, la carta del fante di cuori, probabile segno di un amore che sta per arrivare (non a caso, poco dopo, incontrerà un ragazzo che – stranamente – le piacerà da subito e insieme al quale assisterà al fenomeno del raggio verde). L’importanza di questi elementi viene rimarcata anche e soprattutto dal punto di vista sonoro: tali momenti, infatti, vengono accompagnati da una musica extradiegetica vagamente inquietante, “riflessiva”, “interiore” a base principalmente di violini e violoncelli.
Il raggio verde, dunque, risulta essere uno dei migliori film di Rohmer non soltanto per la magistrale “pittura” di questo personaggio femminile, ma anche per la saggia mescolanza di semplicità e complessità, mistero e normalità, quotidiano e segni del destino e/o macchie del caso.
Il raggio verde, dunque, risulta essere uno dei migliori film di Rohmer non soltanto per la magistrale “pittura” di questo personaggio femminile, ma anche per la saggia mescolanza di semplicità e complessità, mistero e normalità, quotidiano e segni del destino e/o macchie del caso.
Daniel Montigiani
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