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Inoltre, nel corso del film (soprattutto verso il finale) l’intrecciarsi dei vari punti di vista si fa sempre più ingombrante e carico e, così, risulta impossibile rimuovere il pesante punto interrogativo da questa vicenda: qual è la verità? Chi ha ucciso il samurai?
Cosa è successo durante e dopo? Rashomon è dunque una storia sull’inconoscibilità di questa storia, sull’impossibilità di “pulire” la realtà. In questo film emerge non soltanto il mistero rischioso della verità, ma viene allo stesso tempo messo in campo il senso dell’illusione dell’immagine, dello spiazzamento nei confronti dello spettatore e, di conseguenza, una sorta di sfuggente filosofia di una serie di scatole cinesi narrative. Si tratta appunto di una storia che parla... di diverse storie. |
Una storia che osserva e ingloba più punti di vista provenienti dai principali personaggi, tutti con la capacità di poter essere così veri ma allo stesso tempo, forse, così falsi.
Ogni volta che ciascuno dei personaggi nel corso del film fornisce la propria versione del- l’accaduto viene fatto “scattare” un flashback che (ci) mostra, appunto, il racconto della sua testimonianza. Ogni flashback incarna di volta in volta il punto di vista del personaggio che sta fornendo la propria versione dei fatti. Assistiamo, così visivamente, alle diverse “verità” (supposte verità) dei protagonisti, vediamo le versioni dell’accaduto, che ognuno di essi fornisce.
Tramite flashback dunque Kurosawa (ci) mostra scene che incarnano di volta in volta il punto di vista dei protagonisti sul drammatico evento, scene, momenti che però, probabilmente, non sono ac- caduti mai ma sono stati inventati da coloro (i protagonisti) che le stanno narrando. Dunque, in maniera spiazzante, lo spettatore sta osservando probabilmente qualcosa (le scene dei flashback) che in realtà è una menzogna o deformazione della realtà.
Una delle novità di questo film, infatti, non è solo o tanto l’uso del flashback in sé (cosa già ben attiva, ad esempio, nel cinema noir americano), ma il modo che Kurosawa ha di utilizzarlo: in Rashomon, infatti, i flashback vengono mostrati in maniera particolarmente insistita da risultare labirintici e, soprattutto, la loro natura non è affatto chiarificatrice ma, al contrario, mostra ulteriormente per immagini l’impossibilità di conoscere la verità dei fatti. Una caratteristica narrativa e stilistica questa che fa di questo film una sorta di anticipatore del cinema moderno vero e proprio. La modernità di questa storia, insomma, sembra (anche) risiedere nella bellezza dell’impossibilità di conoscerla veramente.
Sempre dal punto di vista stilistico, il film si distingue a momenti per un certo e singolare senso di strattezza capace di costruire una sorta di atmosfera irrealistica. Tale senso di astrattezza può essere facilmente rintracciato nelle secche inquadrature durante le quali i protagonisti, a turno, forniscono le (diverse) testimonianze sull’accaduto di fronte alle autorità (che però né vediamo né sentiamo).
In questi momenti, infatti, i protagonisti, a turno, si trovano quasi al centro esatto dell’inquadra- tura, con lo sguardo rivolto fuoricampo verso le autorità. Il senso di astrattezza viene qui fornito in primis dall’ambiente in cui i protagonisti si trovano a testimoniare (una scenografia di una semplicità quasi zen, essenziale, chiara e geometrica, evanescente), in secondo luogo dal fatto che non vengano né mostrate né udite le autorità alle quali i testimoni stanno parlando, quasi come se questi ultimi si rivol-gessero a dei fantasmi o addirittura allo spettatore stesso. Il film si mostra abbastanza sovversivo e scandaloso (in particolar modo, probabilmente, per il Giappo e di quel periodo) nel tratteggiare il rapporto fra la donna e il bandito, anche e soprattutto da un punto di vista stilistico-metaforico.
Kurosawa infatti sembra “approfittarsi” di alcuni elementi interni all’inquadratura utilizzandoli con poesia spietata come significativi simboli sessuali, sia maschili che femminili. Almeno due sono gli esempi in questo senso, il primo dei quali è rappresentato dal raffinato cappello bianco della donna con tanto di sottilissimo velo bianco che rende praticamente quasi invisibile il suo volto.
Ogni volta che ciascuno dei personaggi nel corso del film fornisce la propria versione del- l’accaduto viene fatto “scattare” un flashback che (ci) mostra, appunto, il racconto della sua testimonianza. Ogni flashback incarna di volta in volta il punto di vista del personaggio che sta fornendo la propria versione dei fatti. Assistiamo, così visivamente, alle diverse “verità” (supposte verità) dei protagonisti, vediamo le versioni dell’accaduto, che ognuno di essi fornisce.
Tramite flashback dunque Kurosawa (ci) mostra scene che incarnano di volta in volta il punto di vista dei protagonisti sul drammatico evento, scene, momenti che però, probabilmente, non sono ac- caduti mai ma sono stati inventati da coloro (i protagonisti) che le stanno narrando. Dunque, in maniera spiazzante, lo spettatore sta osservando probabilmente qualcosa (le scene dei flashback) che in realtà è una menzogna o deformazione della realtà.
Una delle novità di questo film, infatti, non è solo o tanto l’uso del flashback in sé (cosa già ben attiva, ad esempio, nel cinema noir americano), ma il modo che Kurosawa ha di utilizzarlo: in Rashomon, infatti, i flashback vengono mostrati in maniera particolarmente insistita da risultare labirintici e, soprattutto, la loro natura non è affatto chiarificatrice ma, al contrario, mostra ulteriormente per immagini l’impossibilità di conoscere la verità dei fatti. Una caratteristica narrativa e stilistica questa che fa di questo film una sorta di anticipatore del cinema moderno vero e proprio. La modernità di questa storia, insomma, sembra (anche) risiedere nella bellezza dell’impossibilità di conoscerla veramente.
Sempre dal punto di vista stilistico, il film si distingue a momenti per un certo e singolare senso di strattezza capace di costruire una sorta di atmosfera irrealistica. Tale senso di astrattezza può essere facilmente rintracciato nelle secche inquadrature durante le quali i protagonisti, a turno, forniscono le (diverse) testimonianze sull’accaduto di fronte alle autorità (che però né vediamo né sentiamo).
In questi momenti, infatti, i protagonisti, a turno, si trovano quasi al centro esatto dell’inquadra- tura, con lo sguardo rivolto fuoricampo verso le autorità. Il senso di astrattezza viene qui fornito in primis dall’ambiente in cui i protagonisti si trovano a testimoniare (una scenografia di una semplicità quasi zen, essenziale, chiara e geometrica, evanescente), in secondo luogo dal fatto che non vengano né mostrate né udite le autorità alle quali i testimoni stanno parlando, quasi come se questi ultimi si rivol-gessero a dei fantasmi o addirittura allo spettatore stesso. Il film si mostra abbastanza sovversivo e scandaloso (in particolar modo, probabilmente, per il Giappo e di quel periodo) nel tratteggiare il rapporto fra la donna e il bandito, anche e soprattutto da un punto di vista stilistico-metaforico.
Kurosawa infatti sembra “approfittarsi” di alcuni elementi interni all’inquadratura utilizzandoli con poesia spietata come significativi simboli sessuali, sia maschili che femminili. Almeno due sono gli esempi in questo senso, il primo dei quali è rappresentato dal raffinato cappello bianco della donna con tanto di sottilissimo velo bianco che rende praticamente quasi invisibile il suo volto.
Quando, infatti, nel corso di uno dei flashback, la donna, in mezzo al silenzio isolato del bosco, viene inaspettatamente raggiunta dal bandito che la desidera con forza, questa si mostra per la prima volta con il velo del cappello alzato e, poco dopo, rimane a testa scoperta, probabile metafora di una deflorazione (poco dopo, infatti, il bandito possederà la donna).
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Il pugnale del bandito rappresenta il secondo e più esplicito esempio di “indicazione sessuale”: esso infatti sembra rappresentare una densa metafora del desiderio dell'uomo nei confronti della donna.
Quando infatti il bandito bacia e stringe per la prima volta con prepotenze forza la donna, vediamo il pugnale cadere dalla sua mano e, emblematicamente, penetrare la terra.
Rashomon può dunque essere considerato un film importante e di rottura da più punti di vista, principalmente sia da quello stilistico (per il suo labirintico e spiazzante uso del flashback, ad esempio) che da quello narrativo (per la presentazione delle varie “angolazioni” della realtà, della supposta verità da parte dei protagonisti). Da ricordare inoltre che fra i vari meriti di questo film vi è quello di aver aperto le ricche porte del cinema giapponese nel mondo occidentale.
Quando infatti il bandito bacia e stringe per la prima volta con prepotenze forza la donna, vediamo il pugnale cadere dalla sua mano e, emblematicamente, penetrare la terra.
Rashomon può dunque essere considerato un film importante e di rottura da più punti di vista, principalmente sia da quello stilistico (per il suo labirintico e spiazzante uso del flashback, ad esempio) che da quello narrativo (per la presentazione delle varie “angolazioni” della realtà, della supposta verità da parte dei protagonisti). Da ricordare inoltre che fra i vari meriti di questo film vi è quello di aver aperto le ricche porte del cinema giapponese nel mondo occidentale.
Daniel Montigiani
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