diretta da Daniel Montigiani
|
Attraverso una sintesi severa, potremmo affermare che alla base del Il Servo vi è non solo e non tanto la messa in campo delle dinamiche del rapporto servo-padrone (working class-upper class, una dicotomia piuttosto maiuscola, viva nel mondo anglosassone), ma anche e soprattutto lo “spettacolare”, progressivo e tragico rovesciamento di questo.
|
In questo film, infatti, il protagonista Tony (interpretato da James Fox) – un giovane e ricco esponente dell’alta borghesia di Londra – decide di assumere un nuovo domestico, il riservato Hugo Barett; tuttavia, quasi dal primo momento, la presenza del domestico provoca la diffidenza di Susan, la fidanzata di Tony. La situazione si fa ancora più tesa e torbida con l’arrivo di Vera, la sorella di Barrett (in realtà fidanzata e complice di quest’ultimo), che, proprio su suo suggerimento, viene assunta da Tony come cameriera. |
Progressivamente, attraverso azioni sempre più esplicite, il domestico rende schiavo, succube e visibilmente passivo Tony, grazie anche all’aiuto della sorella, la quale riesce a conquistarlo sessualmente, facendolo così cadere in una dimensione di totale degrado e debolezza. Il servo (Barrett), dunque, “sale ad essere” padrone e il padrone (Tony) “scende ad essere” servo.
Si tratta indubbiamente di uno dei film più alti di Losey, dove lo stile e il contenuto fondano un continuo dialogo di una perfezione discretamente spietata. Questa pellicola, tratta da un romanzo di Maugham, è certamente notevole per la sceneggiatura di Harold Pinter (qui capace, come del resto in molte delle sue opere teatrali, di liberare nell’aria della comunicazione parole cavalcate da un grottesco ironico e velenoso), ma è soprattutto attraverso l’arma discreta e silenziosa dello stile, del filmico che Losey rende questo The servant un… film-padrone in quanto a perfezione. Sono generalmente proprio le scene più memorabili dal punto di vista del filmico, dello stile a tradurre visivamente le azioni e le condizioni dei due personaggi principali.
Difatti, già la prima scena, anche e soprattutto attraverso il rapporto di alcuni semplici elementi interni all’inquadratura, riassume metaforicamente l’essenza della storia narrata: con un sinuoso movimento della macchina da presa (inizialmente verso sinistra e in seguito circolare, quasi vorticoso) vengono mostrate delle facciate di eleganti palazzine georgiane parzialmente coperte da degli alberi dai rami spogli (una delle quali, come avremo presto modo di vedere, è proprio l’abitazione di Tony). Proprio questi due semplici elementi – i rami degli alberi, i palazzi –, sembrano costituire una sorta di sintetica metafora visiva della storia del rapporto fra i due protagonisti: le lussuose abitazioni (forse qui viste – almeno inizialmente – come icona di sicurezza e lontananza dal caos) possono rappresentare proprio il borghese Tony, mentre gli alberi – che, indomabili, con i loro rami secchi e tentacolari sembrano “molestare” e coprire le facciate – l’elemento esterno minaccioso e inquinante del maggiordomo Barrett.
La seconda scena anticipa e riassume in maniera ancora più evidente il “destino” del rapporto fra i due: vediamo infatti il maggiordomo (interpretato da Dirk Bogarde) – elegantemente vestito di nero, con un ombrello in mano – attraversare la strada e recarsi verso la casa di quello che sta per diventare il suo nuovo padrone, Tony. Barrett, trovando stranamente la porta della casa di Tony socchiusa, entra e comincia a camminare lentamente al pianterreno dell’abitazione vuota e perlopiù da ristrutturare (scopriremo infatti, poco dopo, che Tony l’ha appena acquistata). Nel giro di qualche secondo Barrett nota in una stanza a pochi metri da lui un corpo disteso, per poi avvicinarsi silenziosamente: è quello di Tony. La macchina da presa, adesso quasi frontale, riprende i due protagonisti all’interno della stessa inquadratura: il servo, in piedi a sinistra, che osserva freddamente Tony e quest’ultimo, sulla destra, ripreso solo in parte, addormentato goffamente su due sedie (sarà proprio Barrett, pochi secondi dopo, a svegliarlo con la voce e a ricordargli che, proprio a quell’ora, aveva un appuntamento con lui per l’assunzione). Questa inquadratura non può che anticipare e riassumere come praticamente da subito sia in realtà il domestico Barrett il più forte, il vero padrone e Tony quello debole, il vero servo: in questa immagine, infatti, è impossibile non registrare visivamente la condizione di passività di Tony, soprattutto rispetto a Barrett: è goffamente sdraiato, è addormentato, è racchiuso in una casa da lui appena comprata ma la cui porta ha sbadatamente lasciato aperta in balia degli eventi esterni.
Si tratta indubbiamente di uno dei film più alti di Losey, dove lo stile e il contenuto fondano un continuo dialogo di una perfezione discretamente spietata. Questa pellicola, tratta da un romanzo di Maugham, è certamente notevole per la sceneggiatura di Harold Pinter (qui capace, come del resto in molte delle sue opere teatrali, di liberare nell’aria della comunicazione parole cavalcate da un grottesco ironico e velenoso), ma è soprattutto attraverso l’arma discreta e silenziosa dello stile, del filmico che Losey rende questo The servant un… film-padrone in quanto a perfezione. Sono generalmente proprio le scene più memorabili dal punto di vista del filmico, dello stile a tradurre visivamente le azioni e le condizioni dei due personaggi principali.
Difatti, già la prima scena, anche e soprattutto attraverso il rapporto di alcuni semplici elementi interni all’inquadratura, riassume metaforicamente l’essenza della storia narrata: con un sinuoso movimento della macchina da presa (inizialmente verso sinistra e in seguito circolare, quasi vorticoso) vengono mostrate delle facciate di eleganti palazzine georgiane parzialmente coperte da degli alberi dai rami spogli (una delle quali, come avremo presto modo di vedere, è proprio l’abitazione di Tony). Proprio questi due semplici elementi – i rami degli alberi, i palazzi –, sembrano costituire una sorta di sintetica metafora visiva della storia del rapporto fra i due protagonisti: le lussuose abitazioni (forse qui viste – almeno inizialmente – come icona di sicurezza e lontananza dal caos) possono rappresentare proprio il borghese Tony, mentre gli alberi – che, indomabili, con i loro rami secchi e tentacolari sembrano “molestare” e coprire le facciate – l’elemento esterno minaccioso e inquinante del maggiordomo Barrett.
La seconda scena anticipa e riassume in maniera ancora più evidente il “destino” del rapporto fra i due: vediamo infatti il maggiordomo (interpretato da Dirk Bogarde) – elegantemente vestito di nero, con un ombrello in mano – attraversare la strada e recarsi verso la casa di quello che sta per diventare il suo nuovo padrone, Tony. Barrett, trovando stranamente la porta della casa di Tony socchiusa, entra e comincia a camminare lentamente al pianterreno dell’abitazione vuota e perlopiù da ristrutturare (scopriremo infatti, poco dopo, che Tony l’ha appena acquistata). Nel giro di qualche secondo Barrett nota in una stanza a pochi metri da lui un corpo disteso, per poi avvicinarsi silenziosamente: è quello di Tony. La macchina da presa, adesso quasi frontale, riprende i due protagonisti all’interno della stessa inquadratura: il servo, in piedi a sinistra, che osserva freddamente Tony e quest’ultimo, sulla destra, ripreso solo in parte, addormentato goffamente su due sedie (sarà proprio Barrett, pochi secondi dopo, a svegliarlo con la voce e a ricordargli che, proprio a quell’ora, aveva un appuntamento con lui per l’assunzione). Questa inquadratura non può che anticipare e riassumere come praticamente da subito sia in realtà il domestico Barrett il più forte, il vero padrone e Tony quello debole, il vero servo: in questa immagine, infatti, è impossibile non registrare visivamente la condizione di passività di Tony, soprattutto rispetto a Barrett: è goffamente sdraiato, è addormentato, è racchiuso in una casa da lui appena comprata ma la cui porta ha sbadatamente lasciato aperta in balia degli eventi esterni.
A differenza del coprotagonista, invece, Barrett è in piedi, dritto, ricettivo, attivo. Stilisticamente rilevanti, inoltre, risultano essere le inquadrature in cui sono presenti specchi o, più generalmente, semplici superfici riflettenti; Losey sembra azionare un potente meccanismo visivo-metaforico della condizione di Tony ogni volta che questo è riflesso in una di queste superfici: difatti, la borghesia di cui Tony fa parte è decadente e soprattutto fragile quanto la sua immagine debolmente riflessa in quegli specchi.
|
Una condizione, quella del borghese Tony, pericolosamente delicata e frangibile quanto l’anoressica consistenza delle superfici che freddamente gli restituiscono la sua immagine in maniera emblematicamente grottesca (si noti a tal proposito il “trattamento” deformante, vagamente da cinema espressionista tedesco, che il piccolo, rotondo ed elegante specchio situato vicino all’ingresso dedica a lui e alla sua fidanzata Vera in almeno due occasioni).
Del resto, il momento in cui il sempre più vacillante Tony si lascia definitivamente catturare sessualmente dalla falsa sorella-cameriera di Barrett viene mostrato attraverso il riflesso di un’anta di vetro di un piccolo armadietto in cucina: di nuovo, dunque, alla precarietà e fragilità della consistenza di una superficie riflettente corrisponde la condizione ormai vertiginosamente fragile e sempre più debole di Tony.
Del resto, il momento in cui il sempre più vacillante Tony si lascia definitivamente catturare sessualmente dalla falsa sorella-cameriera di Barrett viene mostrato attraverso il riflesso di un’anta di vetro di un piccolo armadietto in cucina: di nuovo, dunque, alla precarietà e fragilità della consistenza di una superficie riflettente corrisponde la condizione ormai vertiginosamente fragile e sempre più debole di Tony.
La recitazione è un altro punto assolutamente luminoso (pur nella sua oscurità) di questo film, a partire da quella spudoratamente perfetta di Dirk Bogarde, una delle carismatiche e vorticose colonne portanti del cinema britannico.
Al doppio e ambiguo comportamento che il suo personaggio mette in atto nel corso del film (inizialmente ubbidiente, diligente se non addirittura remissivo nei confronti di Tony, e, in seguito, a passi sempre più grandi, pronto a prendere il posto del padrone con prepotenza e, di conseguenza, a trasformare questo in servo) corrisponde la sua capacità attoriale di trasformare il proprio volto attraverso degli elementari quanto sorprendenti cambiamenti di espressione: il volto di Bogarde è capace di apparire come una sorta di icona di eleganza per poi, nel giro vorticoso di un istante, assomigliare all’incarnazione della bassezza, se non addirittura della volgarità, della mostruosità.
Al doppio e ambiguo comportamento che il suo personaggio mette in atto nel corso del film (inizialmente ubbidiente, diligente se non addirittura remissivo nei confronti di Tony, e, in seguito, a passi sempre più grandi, pronto a prendere il posto del padrone con prepotenza e, di conseguenza, a trasformare questo in servo) corrisponde la sua capacità attoriale di trasformare il proprio volto attraverso degli elementari quanto sorprendenti cambiamenti di espressione: il volto di Bogarde è capace di apparire come una sorta di icona di eleganza per poi, nel giro vorticoso di un istante, assomigliare all’incarnazione della bassezza, se non addirittura della volgarità, della mostruosità.
|
Dunque, le parole di Deleuze dedicate ai film di Losey possono essere applicate anche e soprattutto all’“atmosfera” emanata dal personaggio del maggiordomo Barrett, all’interpretazione messa diligentemente in atto da Dirk Bogarde. Difatti, sembra essere in particolare l’ultima frase della riflessione del filosofo francese a descrivere con perfezione l’“essenza” della presenza e del comportamento del maggiordomo: |
“[…] la straordinaria violenza che può esserci in una mano immobile a riposo”: l’abilità di Bogarde nel “guidare” tramite la recitazione il proprio volto è tale da riuscire a trasmettere un’alta forza di violenza e tensione anche attraverso un viso, uno sguardo perfettamente immobile e (apparentemente) calmo.
Quello messo in atto dal maggiordomo è, insomma, in molte occasioni, un male pacato, discreto, un inquinamento (fisico e psicologico) di classe nei confronti di Tony.
Il servo, inoltre, può essere considerato fondamentale non soltanto da un punto di vista prettamente cinematografico, ma anche da quello sociologico, di costume, poiché, insieme ad altre pellicole britanniche dei primi anni Sessanta come Sapore di miele (T. Richardson, 1961) e Victim (B. Dearden, 1961), mette in campo tematiche (e modalità di trattamento di queste) nuove, inedite e soprattutto talvolta sconvolgenti per una società che, per più di un aspetto, si trovava ancora seduta e bloccata in un eccessivo rigidismo morale ed etico, che però, nel giro di poco tempo, avrebbe cominciato clamorosamente a rompersi.
Quello messo in atto dal maggiordomo è, insomma, in molte occasioni, un male pacato, discreto, un inquinamento (fisico e psicologico) di classe nei confronti di Tony.
Il servo, inoltre, può essere considerato fondamentale non soltanto da un punto di vista prettamente cinematografico, ma anche da quello sociologico, di costume, poiché, insieme ad altre pellicole britanniche dei primi anni Sessanta come Sapore di miele (T. Richardson, 1961) e Victim (B. Dearden, 1961), mette in campo tematiche (e modalità di trattamento di queste) nuove, inedite e soprattutto talvolta sconvolgenti per una società che, per più di un aspetto, si trovava ancora seduta e bloccata in un eccessivo rigidismo morale ed etico, che però, nel giro di poco tempo, avrebbe cominciato clamorosamente a rompersi.
Daniel Montigiani
Chi ha visitato questa pagina ha letto anche:
Sezione Storici
Teorema,
diretto da P. P. Pasolini
Il raggio verde,
diretto da Eric Rohmer
Bella di giorno,
diretto da Louis Bunuel
Rashōmon,
diretto da Akira Kurosawa
Teorema,
diretto da P. P. Pasolini
Il raggio verde,
diretto da Eric Rohmer
Bella di giorno,
diretto da Louis Bunuel
Rashōmon,
diretto da Akira Kurosawa
Psychodream Theater - © 2011 Tutti i
diritti riservati