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DIRETTA DA
DANIEL MONTIGIANI |
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In questo modo, la sua esistenza si sdoppia: da una parte la vita borghese e l’amore per il marito, e di giorno, dalle 14 alle 17, si prostituisce di nascosto presso la casa dell’elegante signora Anais. Bella di giorno è una “zona cinematografica” che per certi aspetti sembra essere lontana da altri film, celebri e di culto di Bunuel, come Un chien andalou, L’age d’oro, anche meno famosi, come Los olvidados. In fatti, in questi tre film, la dimensione onirica dell’immaginazione, ad esempio, emanata dalle menti dei protagonisti – caratteristica in qualche modo quasi sempre presente nel tortuoso percorso della filmografia bunueliana – si manifesta attraverso una sorta di eccesso visivo, di eccentricità stilistica e deformata della visione. |
Questo dunque, di conseguenza, significa che nei tre film sopra citati (ma, ripetiamolo, in molti film del regista spagnolo), può essere estremamente facile notare, capire se certe inquadrature e/o scene appartengono alla dimensione del sogno e/o probabilmente dell’immaginazione. Parte del carisma, del fascino di Bella di giorno, invece, risiede proprio nella capacità buneliana, fredda e distante, di riuscire a confondere la dimensione della realtà con quella falsa, “onirica” creata dall’immaginazione della protagonista Severine.
Difatti, quelle che poi scopriamo essere immaginazioni “liberate”, prodotte dalla mente di Severine vengono mostrate attraverso l’uso di uno stile assolutamente non vistoso, non eccentrico, asciutto, persino (almeno in apparenza) semplice. In questo film, insomma, la dimensione dell’immaginazione, della proiezione dei sogni/desideri viene mostrata, inquadrata come se fosse realtà vera e propria.
E, appunto, la bellezza di tale operazione risiede proprio nel fatto che soltanto al termine di queste specifiche scene ci è possibile comprendere (talvolta) se siamo stati spettatori di una porzione di realtà o di fantasia. La fondamentale sequenza di apertura rappresenta un esempio assolutamente emblematico in questo senso: girata in maniera assolutamente “semplice”, “classica”, “realistica” (aggettivi questi ultimi da usare probabilmente con severa cautela nei confronti di Bunuel), soltanto pochi minuti dopo dal suo inizio veniamo a scoprire che si tratta della proiezione visiva di una delle (tante) fantasie sadomasochistiche di Severine. Eppure, almeno inizialmente, quella sequenza sembrava davvero realtà.
Dunque, in Bella di giorno Bunuel prepara, attiva e lancia la “filosofia” della dimensione dell’“irrealtà”, del “sogno” come tranquillo inganno nei confronti dello spettatore: come accennato, infatti, quest’ultimo, non sempre – e, soprattutto, non subito – riesce a comprendere se certe scene siano realmente vissute dalla protagonista e dal resto dei personaggi. Il regista spagnolo è stato infatti più volte considerato un “genio dell’ambiguità”, tanto che alcuni critici sono addirittura arrivati a pensare che le scene della protagonista nelle casa di appuntamenti siano frutto della sua immaginazione.
Alla ambiguità larga, vasta della silenziosa e insospettabile mescolanza della dimensione della realtà con quella del sogno, dell’immaginazione corrispondono almeno altri due tipi di ambiguità, di “mistero”, ovvero quella del volto e dell’interpretazione di Catherine Deneuve e quella della “storia” narrata, in particolare le cause esatte che spingono Severine a ricoprirsi di comportamenti così “bizzarri”.
Difatti, quelle che poi scopriamo essere immaginazioni “liberate”, prodotte dalla mente di Severine vengono mostrate attraverso l’uso di uno stile assolutamente non vistoso, non eccentrico, asciutto, persino (almeno in apparenza) semplice. In questo film, insomma, la dimensione dell’immaginazione, della proiezione dei sogni/desideri viene mostrata, inquadrata come se fosse realtà vera e propria.
E, appunto, la bellezza di tale operazione risiede proprio nel fatto che soltanto al termine di queste specifiche scene ci è possibile comprendere (talvolta) se siamo stati spettatori di una porzione di realtà o di fantasia. La fondamentale sequenza di apertura rappresenta un esempio assolutamente emblematico in questo senso: girata in maniera assolutamente “semplice”, “classica”, “realistica” (aggettivi questi ultimi da usare probabilmente con severa cautela nei confronti di Bunuel), soltanto pochi minuti dopo dal suo inizio veniamo a scoprire che si tratta della proiezione visiva di una delle (tante) fantasie sadomasochistiche di Severine. Eppure, almeno inizialmente, quella sequenza sembrava davvero realtà.
Dunque, in Bella di giorno Bunuel prepara, attiva e lancia la “filosofia” della dimensione dell’“irrealtà”, del “sogno” come tranquillo inganno nei confronti dello spettatore: come accennato, infatti, quest’ultimo, non sempre – e, soprattutto, non subito – riesce a comprendere se certe scene siano realmente vissute dalla protagonista e dal resto dei personaggi. Il regista spagnolo è stato infatti più volte considerato un “genio dell’ambiguità”, tanto che alcuni critici sono addirittura arrivati a pensare che le scene della protagonista nelle casa di appuntamenti siano frutto della sua immaginazione.
Alla ambiguità larga, vasta della silenziosa e insospettabile mescolanza della dimensione della realtà con quella del sogno, dell’immaginazione corrispondono almeno altri due tipi di ambiguità, di “mistero”, ovvero quella del volto e dell’interpretazione di Catherine Deneuve e quella della “storia” narrata, in particolare le cause esatte che spingono Severine a ricoprirsi di comportamenti così “bizzarri”.
Il motore che conferisce fascino al volto della Deneuve, infatti, in particolar modo in questo film, sembra essere formato da opposti, da contrasti. Si tratta infatti di un viso certamente intenso, carismatico (non soltanto ovviamente per la sua bellezza), ma allo stesso tempo portatore di una tale freddezza (se non talvolta addirittura assenza) da risultare persino vuoto, sorta di parente umano di un foglio bianco silenziosamente pronto a ricevere grafie, scritture, azioni da parte degli altri.
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Un volto formato, scolpito dalla sua stessa bellezza e (ma…) contemporaneamente così distante e altero da sembrare ancora tutto da “costruire”.
Per quanto riguarda invece la terza ambiguità di questo film è possibile affermare che sono sicuramente varie le cause che siedono alla base delle fantasie sadomasochistiche della protagonista, della sua “necessità” di voler lavorare nella casa di Madame Anais pur (ovviamente) non avendone affatto bisogno da un punto di vista economico, del suo desiderio di essere trattata con modi sgarbati e di sentirsi (forse) appagata “facendosi frequentare” praticamente sempre da uomini/clienti tutt’altro che belli e raffinati: si fa usare da uomini eccessivi, uomini con maniere un po’ violente. Pur volendo, qui, immediatamente rimarcare la (affascinante) impossibilità di trovare delle soluzioni complete a questo terzo tipo di ambiguità, c’è una fondamentale inquadratura che può comunque rappresentare una sorta di “rapida chiave” per cercare di comprendere (forse), almeno in piccola parte, che cosa spinga Severine a comportarsi in questo modo. Improvvisamente, infatti, nel corso del film, quasi con la rapidità istantanea di un flash fotografico, viene mostrata la protagonista da bambina che, immobile e assolutamente cosciente, viene più che toccata, in casa, da un rozzo operaio.
Per quanto riguarda invece la terza ambiguità di questo film è possibile affermare che sono sicuramente varie le cause che siedono alla base delle fantasie sadomasochistiche della protagonista, della sua “necessità” di voler lavorare nella casa di Madame Anais pur (ovviamente) non avendone affatto bisogno da un punto di vista economico, del suo desiderio di essere trattata con modi sgarbati e di sentirsi (forse) appagata “facendosi frequentare” praticamente sempre da uomini/clienti tutt’altro che belli e raffinati: si fa usare da uomini eccessivi, uomini con maniere un po’ violente. Pur volendo, qui, immediatamente rimarcare la (affascinante) impossibilità di trovare delle soluzioni complete a questo terzo tipo di ambiguità, c’è una fondamentale inquadratura che può comunque rappresentare una sorta di “rapida chiave” per cercare di comprendere (forse), almeno in piccola parte, che cosa spinga Severine a comportarsi in questo modo. Improvvisamente, infatti, nel corso del film, quasi con la rapidità istantanea di un flash fotografico, viene mostrata la protagonista da bambina che, immobile e assolutamente cosciente, viene più che toccata, in casa, da un rozzo operaio.
Di conseguenza – considerando la sua appartenenza al contesto borghese e, dunque, freddo, conformista, se non addirittura “repressivo” –, nasce in lei un imponente senso di colpa per aver provato tale piacere che le faccia desiderare di essere “punita”, prima nella sua immaginazione, attraverso fantasie sadomasochistiche (si pensi a tal proposito, alla già accennata sequenza di apertura in cui, emblematicamente, la protagonista immagina di essere frustata per ordine del marito dai cocchieri – uno dei quali, tra l’altro, proprio quell’operaio) e poi, attraverso la frequentazione sessuale di uomini viscidi, “bassi” o comunque eccessivi, presso la casa di Madame Anais. Parallelamente, tale “puzzle” sfuggente, di bizzarri (e inquietanti) desideri della protagonista, può, forse in parte, essere spiegato più semplicemente attraverso l’opzione del “male della borghesia”.
Severine, infatti, viene quasi da subito mostrata come dolcemente incastrata in una vita, appunto, assolutamente borghese (e dunque anemica), sposata con un uomo bello e dolce ma comunque, forse, un po’ “noioso”, fin troppo diligentemente appeso alle convenzioni e agli impegni forzati, e che, soprattutto, la tratta (seppur con gentilezza) come se fosse una bambina. Una presenza questa del marito che, paradossalmente, nonostante desideri più volte possedere Severine, rappresenta comunque una sorta di incarnazione di un Super Io, poiché, appunto, fa parte della vita quotidiana assolutamente borghese della protagonista. Un uomo che, nonostante il desiderio espresso nei suoi confronti, non sembra davvero saperla valorizzare, soprattutto da un punto di vista sessuale.
Severine, infatti, viene quasi da subito mostrata come dolcemente incastrata in una vita, appunto, assolutamente borghese (e dunque anemica), sposata con un uomo bello e dolce ma comunque, forse, un po’ “noioso”, fin troppo diligentemente appeso alle convenzioni e agli impegni forzati, e che, soprattutto, la tratta (seppur con gentilezza) come se fosse una bambina. Una presenza questa del marito che, paradossalmente, nonostante desideri più volte possedere Severine, rappresenta comunque una sorta di incarnazione di un Super Io, poiché, appunto, fa parte della vita quotidiana assolutamente borghese della protagonista. Un uomo che, nonostante il desiderio espresso nei suoi confronti, non sembra davvero saperla valorizzare, soprattutto da un punto di vista sessuale.
Dunque, di conseguenza, la scelta quasi improvvisa (e inizialmente incerta) di Severine di lavorare, dalle 14.00 alle 17.00, in una casa di appuntamenti può essere vista, soprattutto da una certa prospettiva, metafora di come un desiderio (forse un po’ confuso) possa imporsi nel voler spezzare la routine borghese e soffocante della protagonista. |
Del resto, quello del “male della borghesia” è uno dei topoi bunueliani altamente rumorosi e invasivi, che da sempre ha nutrito gli stomaci surrealisti di molte delle sue pellicole; un topos che, soprattutto, raggiungerà l’apice della potenza (anche come bellezza del risultato artistico) pochi anni dopo nel Fascino discreto della borghesia.
Daniel Montigiani
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