In questo special, le recensioni di alcuni dei migliori film della 69. Mostra del cinema di Venezia
Gebo e l’ombra
diretto da Manoel De Oliveira
In un imprecisato paesino del Portogallo, alla fine del diciannovesimo secolo, Gebo (Michael Lonsdale, caratterista ad esempio di Buñuel e protagonista dell’ultimo film di Olmi), anche se vecchio e stanco, prosegue con il suo lavoro di contabile per mantenere la propria famiglia composta dalla moglie (Claudia Cardinale) e dalla nuora Sofia (Leonor Silveira, habituée del cinema di De Oliveira). Tutti però sono uniti soprattutto dal pensiero fisso su un’ombra, ovvero l’assenza di João, figlio di Gebo e marito di Sofia. Ma soprattutto, dal punto di vista narrativo conta sapere che Gebo continua a nascondere alla moglie che il figlio si guadagna da vivere facendo il ladro. Ma un giorno Joao ritorna, portando sorprese e caos nella vita già problematica della famiglia.
Come nella maggior parte delle sue pellicole, De Oliveira utilizza anche qui una macchina da presa fissa, immobile.
In maniera così insistita che è come se il regista si fosse dimenticato del proprio film, se ne fosse andato dal proprio film, dalla macchina da presa, lasciandola lì a registrare le statiche disavventure dei personaggi, perlopiù intenti a parlare e a lamentarsi del proprio destino seduti nel loro umile e tetro soggiorno. Ma mentre in altri suoi film l’immobilità della macchina da presa può essere uno strumento fermo per sottolineare la riflessività dei dialoghi (spesso filosofici) dei personaggi, in questo caso, tale vistosa mancanza di movimento, data l’ambientazione del film, sembra invece riflettere soprattutto il ristagnamento della condizione della famiglia che vive in un luogo così modesto. Inoltre, mentre in altre opere di De Oliveira la visione e la rappresentazione dell’oscurità era fonte di fascino, eleganza, magnetismo (I misteri del convento, Il principio dell’incertezza), la “nerezza” di questa ambientazione esprime invece un’idea di pozzo profondo, di irreversibilità della condizione di queste persone. Una mancanza di luce, insomma, che non sa di bella tenebra, ma di ineluttabilità del destino, di soffocamento, di prigione.
Non a caso, infatti, il film è ambientato quasi esclusivamente in interni, anzi, addirittura, pressoché in un unico, povero, interno in cui i personaggi vengono ripresi quasi come fossero oggetti. Una fissità che, inoltre, traduce ed esprime la noia, la pesantezza che i personaggi principali provano (in particolare la madre di João, la quale ripete mesta ma anche risentita: «Tutti i giorni gli stessi gesti, tutti i giorni le stesse parole».
Le modalità di rappresentazione dell’arrivo del figlio risultano da una parte una conferma dello “stile immobile” della macchina da presa di De Oliveira, dall’altra risultano significative per comprendere l’anima” dell’improvviso ritorno di João. Pochi secondi prima dell’arrivo del figlio, infatti, la cinepresa è, come quasi sempre, immobile, fissa (un campo totale) sul vecchio padre, dimessamente seduto al solito tavolo dove, come ogni giorno, svolge il proprio ripetitivo lavoro di contabile. Improvvisamente, si ode un rumore simile a una porta sbattuta. Subito dopo, il padre, sorpreso, si volta verso destra e, stupito, guarda fuori campo. Una voce maschile – che presto scopriremo appartenere a João – saluta e si rivolge all’uomo, presentandosi come João. |
Dunque da questa inquadratura, come accennato, è possibile prima di tutto notare la parziale non aderenza di De Oliveira ai rigidi canoni del cinema classico. In questo caso, infatti, uno spettatore medio si sarebbe aspettato che la presentazione/ritorno del figlio avvenisse attraverso un’inquadratura di quest’ultimo. Invece, appunto, la macchina rimane fissa sul padre, mentre di João udiamo soltanto la voce. Vi è insomma, in questo caso, una ben visibile assenza dell’alquanto abusato controcampo.
Inoltre, il fatto che João venga presentato e si presenti soltanto attraverso il suono sembra accrescere la sua autorità, la sua potenza, evidenzia la sua “professione” (il ladro) non esattamente stimabile. Come se l’udire inizialmente soltanto la sua voce lo facesse somigliare a un fantasma potente, a una presenza, o, addirittura, a una visione del vecchio padre.
Difatti, nel finale, sarà proprio il ladro João ad avere la meglio sugli altri personaggi, sul resto del film. E’ proprio qui che emerge nella sua potenza tutta la sua capacità di sfuggire: il giovane infatti ruba il denaro che il padre custodisce per la propria ditta, scappa, e torna ad essere ombra. Parallelamente, la sfortuna si prende ormai completamente la sorte del padre il quale, raggiunto improvvisamente dalla polizia, si autoaccusa del furto per difendere il figlio. E, stilisticamente, ecco arrivare forse l’inquadratura più spietata e senza speranza di tutto il film, già di per sé ben lontano da ogni ottimismo. Attraverso un campo medio, il padre e la madre, seduti al solito tavolo, vengono ripresi frontalmente. I due, con gli sguardi preoccupati fuori campo, sentono e vedono arrivare i poliziotti i quali, prepotentemente, spalancano la porta della casa facendovi di conseguenza entrare l’accecante luce del sole.
Dunque, in questo caso, De Oliveira attribuisce al sole una valenza ancora peggiore dell’oscurità dimessa e negativa che finora aveva scandito la triste povertà di questa famiglia. Qui il sole, infatti, non porta affatto calore positivo, gioia, ma, come una luce da spietato interrogatorio, sottolinea la tragedia, puntando i “riflettori” contro un uomo che si sacrifica pur non avendo nessuna colpa.
Inoltre, il fatto che João venga presentato e si presenti soltanto attraverso il suono sembra accrescere la sua autorità, la sua potenza, evidenzia la sua “professione” (il ladro) non esattamente stimabile. Come se l’udire inizialmente soltanto la sua voce lo facesse somigliare a un fantasma potente, a una presenza, o, addirittura, a una visione del vecchio padre.
Difatti, nel finale, sarà proprio il ladro João ad avere la meglio sugli altri personaggi, sul resto del film. E’ proprio qui che emerge nella sua potenza tutta la sua capacità di sfuggire: il giovane infatti ruba il denaro che il padre custodisce per la propria ditta, scappa, e torna ad essere ombra. Parallelamente, la sfortuna si prende ormai completamente la sorte del padre il quale, raggiunto improvvisamente dalla polizia, si autoaccusa del furto per difendere il figlio. E, stilisticamente, ecco arrivare forse l’inquadratura più spietata e senza speranza di tutto il film, già di per sé ben lontano da ogni ottimismo. Attraverso un campo medio, il padre e la madre, seduti al solito tavolo, vengono ripresi frontalmente. I due, con gli sguardi preoccupati fuori campo, sentono e vedono arrivare i poliziotti i quali, prepotentemente, spalancano la porta della casa facendovi di conseguenza entrare l’accecante luce del sole.
Dunque, in questo caso, De Oliveira attribuisce al sole una valenza ancora peggiore dell’oscurità dimessa e negativa che finora aveva scandito la triste povertà di questa famiglia. Qui il sole, infatti, non porta affatto calore positivo, gioia, ma, come una luce da spietato interrogatorio, sottolinea la tragedia, puntando i “riflettori” contro un uomo che si sacrifica pur non avendo nessuna colpa.
Dunque, in questo caso, De Oliveira attribuisce al sole una valenza ancora peggiore dell’oscurità dimessa e negativa che finora aveva scandito la triste povertà di questa famiglia. Qui il sole, infatti, non porta affatto calore positivo, gioia, ma, come una luce da spietato interrogatorio, sottolinea la tragedia, puntando i “riflettori” contro un uomo che si sacrifica pur non avendo nessuna colpa.
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Daniel Montigiani
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