In questo special, le recensioni di alcuni dei migliori film della 69. Mostra del cinema di Venezia
È stato il figlio
diretto da Daniele Ciprì
La coppia Ciprì e Maresco è stata sicuramente una delle più letali (nel senso delle più letalmente stimolanti) del cinema italiano. I due, da sempre conosciuti principalmente e sinteticamente per essere abili direttori e acconcia tori dello schifo, si sono sempre distinti per un talvolta insostenibile, senso del grottesco, usato come urticante strumento per mostrare e misurare i vari settori del degrado, soprattutto culturale e politico.
Daniele Ciprì, qui da solo, realizza un film complessivamente un po’ distante dalle asfissianti atmosfere squallidamente disperate e comiche allo stesso tempo che hanno nutrito la “pericolante” seppur breve catena di film della coppia. Tuttavia, quando si ha a che fare con un autore cinematografico dall’impronta stilistica e narrativa forte, è difficile che, nonostante vari parziali cambiamenti di stili e di temi, non rimangano sempre tracce della sua poetica anche a distanza di anni. Difatti, in questo È stato il figlio vi sono comunque elementi che riecheggiano, seppur a volte alla lontana, le opere create con Maresco; è una pellicola che, pur non contenendo nella maggior parte dei casi quel “carisma trash” dei film girati in coppia, presenta dei vistosi “suggerimenti di grottesco”. Un grottesco che viene sprigionato dal regista in primis a livello narrativo: Nicola (Toni Servillo), un operaio che mantiene e sfama una famiglia di ben sei persone nel povero quartiere Zen di Palermo, riceve una grossa somma di denaro come risarcimento a causa di un attacco mafioso durante il quale viene erroneamente uccisa la giovanissima figlia.
Approfittando cinicamente di questo fatto, Nicola, insieme alla famiglia, decide di acquistare… una Mercedes, che da subito parcheggerà platealmente nello spiazzo di fronte alla propria abitazione. Un “oggetto” il cui lusso, però, non farà altro che dare luogo nel finale a una tragedia, a causa della quale rimarrà “inguaiato” l’elemento più a parte e più indifeso della famiglia, il giovane Tancredi…
diretto da Daniele Ciprì
La coppia Ciprì e Maresco è stata sicuramente una delle più letali (nel senso delle più letalmente stimolanti) del cinema italiano. I due, da sempre conosciuti principalmente e sinteticamente per essere abili direttori e acconcia tori dello schifo, si sono sempre distinti per un talvolta insostenibile, senso del grottesco, usato come urticante strumento per mostrare e misurare i vari settori del degrado, soprattutto culturale e politico.
Daniele Ciprì, qui da solo, realizza un film complessivamente un po’ distante dalle asfissianti atmosfere squallidamente disperate e comiche allo stesso tempo che hanno nutrito la “pericolante” seppur breve catena di film della coppia. Tuttavia, quando si ha a che fare con un autore cinematografico dall’impronta stilistica e narrativa forte, è difficile che, nonostante vari parziali cambiamenti di stili e di temi, non rimangano sempre tracce della sua poetica anche a distanza di anni. Difatti, in questo È stato il figlio vi sono comunque elementi che riecheggiano, seppur a volte alla lontana, le opere create con Maresco; è una pellicola che, pur non contenendo nella maggior parte dei casi quel “carisma trash” dei film girati in coppia, presenta dei vistosi “suggerimenti di grottesco”. Un grottesco che viene sprigionato dal regista in primis a livello narrativo: Nicola (Toni Servillo), un operaio che mantiene e sfama una famiglia di ben sei persone nel povero quartiere Zen di Palermo, riceve una grossa somma di denaro come risarcimento a causa di un attacco mafioso durante il quale viene erroneamente uccisa la giovanissima figlia.
Approfittando cinicamente di questo fatto, Nicola, insieme alla famiglia, decide di acquistare… una Mercedes, che da subito parcheggerà platealmente nello spiazzo di fronte alla propria abitazione. Un “oggetto” il cui lusso, però, non farà altro che dare luogo nel finale a una tragedia, a causa della quale rimarrà “inguaiato” l’elemento più a parte e più indifeso della famiglia, il giovane Tancredi…
Una storia che, pur cambiando più volte tono nel corso del film (si passa ad esempio da momenti quasi comici, macchiettistici, ad altri altamente drammatici, per poi viaggiare nella castrante atmosfera finale da tragedia greca), è comunque formata alla base da una materia piuttosto eccentrica, che invade non soltanto le situazioni, ma i comportamenti dei personaggi stessi, tanto che, in alcuni momenti, sembra addirittura di abitare vagamente in alcune zone di alcuni film di Germi e di Ferreri.
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La punta più vistosa del grottesco è forse quella rappresentata dalla scena in cui il protagonista, estasiato dal lussuoso acquisto della macchina, se la fa benedire da un prete di fronte a una chiesa. Il grottesco dei comportamenti dei personaggi, insomma, genera principalmente uno schifo non tanto visivo, quanto piuttosto etico, morale (il “gioire” – seppur indirettamente – dei soldi ricavati dalla morte accidentale della figlia, la decisione di accusare nel finale il giovane e timido Tancredi dell’omicidio del padre per ragioni di comodità). Ma in questo film la (triste) potenza grottesca viene fatta emergere anche direttamente (seppur forse in maniera minore) a livello visivo, come ad esempio nel campo totale che riprende frontalmente dei corpi obesi, irrealisticamente seduti su delle sdraio in spiaggia, nella breve scena in cui l’avvocato della famiglia si scrolla letteralmente di dosso pezzetti non irrilevanti di forfora (probabilmente l’unico momento esplicitamente disgustoso della pellicola), e, soprattutto, nella sequenza così simile a un sogno demenziale à la Ken Russell in cui il padre di famiglia, imprigionato in un sorriso assolutamente ebete, si trova dentro l’automobile circondato da una claustrofobica scenografia di psichedelia infantile. A dispetto dei contenuti grotteschi (se non squallidi), tragici e a dispetto dei comportamenti non esattamente etici di quasi tutti i personaggi, lo stile è davvero non solo una “presenza” ben visibile in questo film, ma è soprattutto raffinato, talvolta persino maestoso nel suo avvolgere i personaggi e gli ambienti in alcune sequenze. Di grande fascino, ad esempio, la serie di movimenti di macchina scanditi da un montaggio morbido che avvolgono la sequenza dei bambini che giocano attorno al fuoco nello squallido piazzale di fronte alla casa della famiglia poco prima che la figlia venga raggiunta e uccisa per errore dai proiettili di due mafiosi: quasi come se con la cinepresa il regista volesse dedicare una carezza a quella che potremmo chiamare la “purezza” dei bambini ancora non contaminata dai problemi generati dal pericoloso squallore quotidiano.
Talvolta, infatti, in alcune inquadrature – come ad esempio nelle brevi riprese del volto della bambina che, di ritorno dalla gita al mare, si affaccia al finestrino della macchina in corsa per guardare il panorama – gli elementi, gli oggetti e i volti sono così evidenziati dalla macchina da presa, dalla “pittura” della profondità di campo che sembrano come avere consistenza, alzarsi in piedi per mostrarsi nelle loro forme pure allo spettatore. Ciprì, insomma, caratterizza questo film anche e soprattutto per un uso “movimentato” dello stile da più punti di vista, quasi come se con la macchina da presa volesse continuamente salutare lo spettatore, ricordandogli la propria presenza (e, di conseguenza, a causa di ciò, rammentandogli che si tratta di un film, di finzione), tanto che si potrebbe arrivare a sostenere che È stato il figlio è uno dei film più stilisticamente rilevanti del cinema italiano degli ultimi anni.
Un film che può spiazzare e stordire non soltanto per la vorticosa mescolanza di stile alto e situazioni, più volte, grottescamente basse, ma anche dal punto di vista narrativo, della costruzione narrativa, grazie soprattutto alla (amara) sorpresa che viene “resa pubblica” nelle ultime inquadrature dell’ultima sequenza…
Un film che può spiazzare e stordire non soltanto per la vorticosa mescolanza di stile alto e situazioni, più volte, grottescamente basse, ma anche dal punto di vista narrativo, della costruzione narrativa, grazie soprattutto alla (amara) sorpresa che viene “resa pubblica” nelle ultime inquadrature dell’ultima sequenza…
Daniel Montigiani
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