Un piccolo palcoscenico in legno somigliante a una zattera arenata sul quale sono sparsi una cassettiera a due piani sul fondo, una sorta di anoressica fontana sulla destra, lunghi pezzi di legno sulla sinistra che tendono verso un cartello con su scritto “Ende”, una sgangherata sedia in prossimità del centro, vicino a una botola chiusa. Su questo spazio simile a un vuoto pollaio nella sua migliore spietatezza o a uno scarto di trasandato, secco presepe si aggira Ella – allucinata creatura “uomo-donna” interpretata dall’ottimo Marco Sgrosso con una improbabile parrucca bionda, una sciatta vestaglia bianca, tacchi a spillo neri e con ali d’angelo sporche, pigre nella loro debolezza, inefficaci – che racconta vocalmente sanguinante gli abusi da lei subiti nel corso della sua vita. Ella, devastante quanto indifeso terremoto, capace di far sbraitare della lurida e autentica ironia dal mezzo della propria tragedia, parla, grida, ricorda e si confessa talvolta persino attraverso rapidi schizzi di inquietante tenerezza con il rigurgito espressivo dell’eccesso, la cui apparente potenza catartica viene attaccata da interruzioni, balbettii e vaste debolezze del suo atteggiarsi con quel paio di ali slabbrate, metafora affaticata del suo essere più volte violato.
Altrettanto eccessivo e inquietante è il rumore-grugnito che si ode nel buio all’inizio, il quale, precedendo e introducendo Ella insieme a un suadente canto femminile quasi orientaleggiante, esprime la bizzarra disgrazia della sua presenza, fa da iniziale, momentanea e animalesca colonna sonora della comparsa della sua figura, inizialmente sopra la cassettiera, accovacciata e in agitato movimento come una gallina affaticata eppure desiderosa di covare, di espellere, una visione che dà l’impressione dello spettacolare orrore di una nascita, di un arrivo umano o non umano da una disgraziata zona dell’universo. Ma il suo corpo, già inghiottito dal respingente palcoscenico che agisce nei suoi confronti come una mostruosità annoiata e sciatta, è disturbato, torturato anche dall’illuminazione: prima una luce di un blu freddo proveniente dall’alto che agisce verso di lei come una muta presenza letalmente glaciale nella sua indifferenza, poi una luce di un giallo chiarissimo, ospedaliero che, nella sua esattezza e chiarezza quasi accecanti, la mortifica; giungono in seguito variazioni quasi caravaggesche, che sembrano apaticamente esprimere la pesantezza della malinconia di Ella e, infine, una luce rossa, che la fanno apparire come la sgangherata protagonista di una porzione di rischioso postribolo. Sgrosso, dunque, crea uno spettacolo di una visionarietà secca e disumana, con al centro un personaggio che emette senza interruzione un ampio grottesco platealmente ingombrante, sparpaglia sulla scena una creatura dalla visibilissima, consumata passività.
Altrettanto eccessivo e inquietante è il rumore-grugnito che si ode nel buio all’inizio, il quale, precedendo e introducendo Ella insieme a un suadente canto femminile quasi orientaleggiante, esprime la bizzarra disgrazia della sua presenza, fa da iniziale, momentanea e animalesca colonna sonora della comparsa della sua figura, inizialmente sopra la cassettiera, accovacciata e in agitato movimento come una gallina affaticata eppure desiderosa di covare, di espellere, una visione che dà l’impressione dello spettacolare orrore di una nascita, di un arrivo umano o non umano da una disgraziata zona dell’universo. Ma il suo corpo, già inghiottito dal respingente palcoscenico che agisce nei suoi confronti come una mostruosità annoiata e sciatta, è disturbato, torturato anche dall’illuminazione: prima una luce di un blu freddo proveniente dall’alto che agisce verso di lei come una muta presenza letalmente glaciale nella sua indifferenza, poi una luce di un giallo chiarissimo, ospedaliero che, nella sua esattezza e chiarezza quasi accecanti, la mortifica; giungono in seguito variazioni quasi caravaggesche, che sembrano apaticamente esprimere la pesantezza della malinconia di Ella e, infine, una luce rossa, che la fanno apparire come la sgangherata protagonista di una porzione di rischioso postribolo. Sgrosso, dunque, crea uno spettacolo di una visionarietà secca e disumana, con al centro un personaggio che emette senza interruzione un ampio grottesco platealmente ingombrante, sparpaglia sulla scena una creatura dalla visibilissima, consumata passività.
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