Il 10 ottobre 1941 l’Ufficio Centrale per l’Emigrazione Ebraica (Zentralstelle für Jüdische Auswanderung) diretto da Eichmann tenne una riunione che ebbe all’ordine del giorno “la soluzione del problema ebraico”. Durante questa riunione fu chiesto al Dott. Edelstein, capo della Comunità Ebraica di Praga, di indicare il nome di una piccola città in cui stabilire un ghetto e di preparare un piano di insediamento.
Agli Ebrei fu formalmente promesso che il ghetto sarebbe stato gestito da un autorità ebraica, benché sotto la tutela dei tedeschi, e che l’insediamento sarebbe stato definitivo. Da Terezín non vi sarebbero state ulteriori deportazioni. Tutto questo era una menzogna. Nella mente dei nazisti la creazione di un ghetto era solo un passaggio nel processo di eliminazione degli Ebrei d’Europa. Il ghetto non era nella loro mente nient’altro che un campo di passaggio e di smistamento, un luogo dove riunire tutti gli Ebrei di Boemia e Moravia prima di spedirli a Est.
Furono creati due gruppi di Ebrei che avevano il compito di preparare la città per il popolamento denominati Aufbaukommando. Il primo AK formato da ingegneri, architetti e costruttori giunse a Terezín il 24 novembre 1941, il secondo il 4 dicembre ed era formato in buona parte da artisti e musicisti. Gli AK non fanno a tempo a completare il loro lavoro che nella mente dei nazisti, Terezín è già diventata qualcos’altro. Durante la conferenza di Am Grosse Wansee, nei pressi di Berlino, del 20 gennaio 1942, venne pianificata l’intera macchina dello sterminio e Terezín mutò destinazione d’uso. Se in un primo momento doveva diventare un campo di transito e raccolta degli Ebrei di Boemia e Moravia, ora diventa una sorta di ghetto modello in cui rinchiudere tutti gli Ebrei prominenti e famosi che sarebbe stato difficile far sparire senza suscitare clamori e proteste.
Furono creati due gruppi di Ebrei che avevano il compito di preparare la città per il popolamento denominati Aufbaukommando. Il primo AK formato da ingegneri, architetti e costruttori giunse a Terezín il 24 novembre 1941, il secondo il 4 dicembre ed era formato in buona parte da artisti e musicisti. Gli AK non fanno a tempo a completare il loro lavoro che nella mente dei nazisti, Terezín è già diventata qualcos’altro. Durante la conferenza di Am Grosse Wansee, nei pressi di Berlino, del 20 gennaio 1942, venne pianificata l’intera macchina dello sterminio e Terezín mutò destinazione d’uso. Se in un primo momento doveva diventare un campo di transito e raccolta degli Ebrei di Boemia e Moravia, ora diventa una sorta di ghetto modello in cui rinchiudere tutti gli Ebrei prominenti e famosi che sarebbe stato difficile far sparire senza suscitare clamori e proteste.
La Comunità ebraica credette alla menzogna, o forse collaborò sperando di guadagnare tempo prezioso con la convinzione che i nazisti sarebbero stati sconfitti, e creò un Dipartimento G con lo scopo di studiare una forma di amministrazione e un luogo dove insediarsi. Ai tedeschi furono fatti una decina di nomi di città diverse che furono tutte rifiutate con la motivazione: “troppo buone per gli Ebrei”. Alla fine fu scelta Terezín, la città-fortezza a circa 40 Km da Praga. |
Terezín era scarsamente abitata (poco più di 1000 abitanti che potevano facilmente essere reinsediati altrove), le sue abitazioni erano per lo più caserme, possedeva uno scalo ferroviario ed era interamente circondata da mura: poteva facilmente essere trasformata in una città-prigione.
Furono creati due gruppi di Ebrei che avevano il compito di preparare la città per il popolamento denominati Aufbaukommando. Il primo AK formato da ingegneri, architetti e costruttori giunse a Terezín il 24 novembre 1941, il secondo il 4 dicembre ed era formato in buona parte da artisti e musicisti. Gli AK non fanno a tempo a completare il loro lavoro che nella mente dei nazisti, Terezín è già diventata qualcos’altro. Durante la conferenza di Am Grosse Wansee, nei pressi di Berlino, del 20 gennaio 1942, venne pianificata l’intera macchina dello sterminio e Terezín mutò destinazione d’uso. Se in un primo momento doveva diventare un campo di transito e raccolta degli Ebrei di Boemia e Moravia, ora diventa una sorta di ghetto modello in cui rinchiudere tutti gli Ebrei prominenti e famosi che sarebbe stato difficile far sparire senza suscitare clamori e proteste. Inoltre c’era il problema degli ebrei sposati con ariani a cui era venuta meno l’esenzione. Insomma Terezín deve diventare un ghetto modello in cui far convergere tutte le categorie in qualche modo privilegiate: artisti, intellettuali, ex-combattenti decorati, ufficiali, magnati, anziani. E per farli cadere nella trappola fu inventata Therensienbad, le Terme di Terezín, un luogo termale e protetto per cui era conveniente pagarsi viaggio e permanenza pur di aver salva la vita. Gli Ebrei tedeschi versarono tutti i loro averi all’amministrazione del ghetto pensando di essersela cavata ma all’arrivo nella “città termale” signore impellicciate e signori ben vestiti anziché trovare facchini e lacchè pronti a portare i loro bagagli, trovarono SS e cani inferociti a scortarli in una città di 7000 abitanti che ne arrivò a contenere fino a 80.000 e di cui solo il 60% aveva un giaciglio per dormire. Mai risveglio da un sogno fu tanto traumatico. E non era tutto. Presto scoprirono che Terezín non garantiva nessuna esenzione da ulteriori deportazioni anzi, per far posto a nuovi venuti, spesso si procedeva a massicci trasporti verso Est. Agli Ebrei provenienti dal Reich tedesco si aggiunsero presto anche altre comunità nazionali: Slovacchi, Olandesi. Ungheresi, Danesi. Questi ultimi benché pochi di numero (erano solo qualche centinaio) incisero in maniera determinante sul destino e la storia di Terezín. Gli ebrei danesi, contrariamente a quelli di tutto il resto d’Europa, furono strenuamente difesi dal loro governo. La corona danese pretese la visita della Croce Rossa, l’invio di vettovaglie, un servizio postale costante. Questa eroica difesa fece mutare nuovamente la funzione del campo: ora doveva diventare uno specchietto per le allodole nei confronti degli organismi internazionali e far tacere le voci e le proteste su quanto avveniva nei campi di sterminio.
I nazisti nei primi mesi del 1943 lanciarono una campagna di “abbellimento della città” lo Stadtverschonerung, che doveva portare alla costruzione di un vero e proprio villaggio Potemkin da mostrare al mondo. Così furono creati finti negozi, una banca che batteva moneta fasulla, costruito un parco gioco per bambini nella piazza centrale, furono ridipinte le case dove sarebbe passata la delegazione, furono addirittura aumentate le razioni di cibo in modo da far sembrare la popolazione segregata in buona forma e in salute. Inoltre furono sfruttate alcune istituzioni che, data l’alta concentrazione di artisti e musicisti nel ghetto, si erano spontaneamente formate: una biblioteca che arrivò a contenere 200.000 volumi tutti rubati agli Ebrei, e soprattutto l’ufficio che si occupava della vita culturale del ghetto denominata Freizeitgestaltung, Organizzazione del tempo libero, diretta dal rabbino Erich Weiner e che per molto tempo organizzò spettacoli e concerti semi-clandestini nei vari edifici per rendere più tollerabile la vita ai prigionieri. La Croce Rossa visitò il campo per tre volte: in nessun caso certificò le pessime condizioni di vita nel ghetto. L’inganno funzionava così bene che i nazisti decisero di produrre un film di propaganda Il Fuhrer dona una città agli ebrei, girato da ebrei e il cui regista, Kurt Gerron era stato un famoso cabarettista di Berlino. Finito il film e finite le visite i nazisti cercarono di cancellare le tracce. Massicce deportazioni iniziarono a partire dall’autunno del 1944 e che si interruppero solo con la liberazione di Auschwitz nel gennaio 1945.
Furono creati due gruppi di Ebrei che avevano il compito di preparare la città per il popolamento denominati Aufbaukommando. Il primo AK formato da ingegneri, architetti e costruttori giunse a Terezín il 24 novembre 1941, il secondo il 4 dicembre ed era formato in buona parte da artisti e musicisti. Gli AK non fanno a tempo a completare il loro lavoro che nella mente dei nazisti, Terezín è già diventata qualcos’altro. Durante la conferenza di Am Grosse Wansee, nei pressi di Berlino, del 20 gennaio 1942, venne pianificata l’intera macchina dello sterminio e Terezín mutò destinazione d’uso. Se in un primo momento doveva diventare un campo di transito e raccolta degli Ebrei di Boemia e Moravia, ora diventa una sorta di ghetto modello in cui rinchiudere tutti gli Ebrei prominenti e famosi che sarebbe stato difficile far sparire senza suscitare clamori e proteste. Inoltre c’era il problema degli ebrei sposati con ariani a cui era venuta meno l’esenzione. Insomma Terezín deve diventare un ghetto modello in cui far convergere tutte le categorie in qualche modo privilegiate: artisti, intellettuali, ex-combattenti decorati, ufficiali, magnati, anziani. E per farli cadere nella trappola fu inventata Therensienbad, le Terme di Terezín, un luogo termale e protetto per cui era conveniente pagarsi viaggio e permanenza pur di aver salva la vita. Gli Ebrei tedeschi versarono tutti i loro averi all’amministrazione del ghetto pensando di essersela cavata ma all’arrivo nella “città termale” signore impellicciate e signori ben vestiti anziché trovare facchini e lacchè pronti a portare i loro bagagli, trovarono SS e cani inferociti a scortarli in una città di 7000 abitanti che ne arrivò a contenere fino a 80.000 e di cui solo il 60% aveva un giaciglio per dormire. Mai risveglio da un sogno fu tanto traumatico. E non era tutto. Presto scoprirono che Terezín non garantiva nessuna esenzione da ulteriori deportazioni anzi, per far posto a nuovi venuti, spesso si procedeva a massicci trasporti verso Est. Agli Ebrei provenienti dal Reich tedesco si aggiunsero presto anche altre comunità nazionali: Slovacchi, Olandesi. Ungheresi, Danesi. Questi ultimi benché pochi di numero (erano solo qualche centinaio) incisero in maniera determinante sul destino e la storia di Terezín. Gli ebrei danesi, contrariamente a quelli di tutto il resto d’Europa, furono strenuamente difesi dal loro governo. La corona danese pretese la visita della Croce Rossa, l’invio di vettovaglie, un servizio postale costante. Questa eroica difesa fece mutare nuovamente la funzione del campo: ora doveva diventare uno specchietto per le allodole nei confronti degli organismi internazionali e far tacere le voci e le proteste su quanto avveniva nei campi di sterminio.
I nazisti nei primi mesi del 1943 lanciarono una campagna di “abbellimento della città” lo Stadtverschonerung, che doveva portare alla costruzione di un vero e proprio villaggio Potemkin da mostrare al mondo. Così furono creati finti negozi, una banca che batteva moneta fasulla, costruito un parco gioco per bambini nella piazza centrale, furono ridipinte le case dove sarebbe passata la delegazione, furono addirittura aumentate le razioni di cibo in modo da far sembrare la popolazione segregata in buona forma e in salute. Inoltre furono sfruttate alcune istituzioni che, data l’alta concentrazione di artisti e musicisti nel ghetto, si erano spontaneamente formate: una biblioteca che arrivò a contenere 200.000 volumi tutti rubati agli Ebrei, e soprattutto l’ufficio che si occupava della vita culturale del ghetto denominata Freizeitgestaltung, Organizzazione del tempo libero, diretta dal rabbino Erich Weiner e che per molto tempo organizzò spettacoli e concerti semi-clandestini nei vari edifici per rendere più tollerabile la vita ai prigionieri. La Croce Rossa visitò il campo per tre volte: in nessun caso certificò le pessime condizioni di vita nel ghetto. L’inganno funzionava così bene che i nazisti decisero di produrre un film di propaganda Il Fuhrer dona una città agli ebrei, girato da ebrei e il cui regista, Kurt Gerron era stato un famoso cabarettista di Berlino. Finito il film e finite le visite i nazisti cercarono di cancellare le tracce. Massicce deportazioni iniziarono a partire dall’autunno del 1944 e che si interruppero solo con la liberazione di Auschwitz nel gennaio 1945.
Il Ghetto Modello di Terezín nei suoi quasi tre anni di vita ospitò 14.0000 ebrei di cui 35.000 morirono a Terezín per fame, malattia, violenze o semplice vecchiaia; 87.000 furono deportati nei campi a Est, per la maggior parte uccisi nelle camere a gas di Auschwitz, e di questi ne sopravvissero 3.097; solo 18.000 videro il giorno della liberazione entro le mura di Terezín.
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In questo scritto ci occuperemo di esaminare la fervente attività culturale che animò il ghetto di Terezín, seppur in maniera sommaria data la brevità della forma articolo, e di determinarne, se possibile, natura e funzioni.
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Attività culturale nel ghetto di Terezín
Il rabbino Erich Weiner che diresse il Freizeitgestaltung, l’Organizzazione del tempo libero [da ora FZG], e ci ha lasciato una dettagliatissima relazione sul primo anno di attività del suo ufficio, afferma che la prima serata in cui si fece un evento culturale nel ghetto di Terezín fu il 5 dicembre 1941, all’indomani dell’arrivo del secondo AK, quello in buona parte formato da artisti e intellettuali. La serata si svolse in clandestinità e fu una sorta di varietà improvvisato: poesie, sketch, canzoni che si susseguivano senza un ordine preciso. Questo semplice programma comportava uno sforzo immenso. Non c’erano libri per cui le poesie recitate erano quelle che gli esecutori si ricordavano a memoria; gli strumenti erano proibiti quindi un catino divenne un tamburo e furono suonate due armoniche che qualcuno riuscì a nascondere alle perquisizioni, non c’era un palco né delle luci, il pubblico semplicemente circondava gli esecutori. A partire da questa semplice serata destinata a rincuorare gli uomini, si sviluppò un’intensa attività culturale che dopo un primo periodo di clandestinità, divenne tacitamente permessa fino a essere supportata e sfruttata dal comando tedesco per fini di propaganda. Terezín non fu l’unico campo in cui si manifestarono attività culturali. Tutt’altro. Le testimonianze abbondano sia dai ghetti (per esempio Varsavia), sia dai campi di transito, (es. Malines o Westerbork), sia nei campi di concentramento, (es. Dachau e fin dal 1933!), sia nei campi di sterminio (es. Auschwitz e Treblinka). Quello che distingue Terezín da tutti gli altri campi è la diffusione, la qualità e il destino di questi fenomeni. Il rabbino Weiner ci dice che durante il solo primo anno di attività in clandestinità o semiclandestinità, e nonostante i continui trasporti verso Est (37.000 ca. solo nel ‘42) gli spettatori che parteciparono alle varie attività del FZG furono circa 250.000 in una città di poche decine di migliaia di abitanti. Dati che fanno impressione se confrontati con quelli odierni in una cittadina italiana di pari abitanti in tempo di pace! Rabbi Weiner lascia un resoconto delle attività mese per mese interessante per comprendere l’offerta, i flussi di pubblico e le modalità via via più complesse delle attività. Nel mese di maggio del 1942, per esempio, quando le attività erano tutte pressoché clandestine e avvenivano nei singoli blocchi abitativi o nelle caserme, dopo il coprifuoco e in condizioni di pericolo costante, furono organizzati 16 spettacoli di varia natura che spaziavano dal cabaret, ai reading di poesia alla produzione e commissione di opere prime (fenomeno dovuto alla mancanza di testi) a cui parteciparono 2.900 spettatori, e 36 conferenze di argomenti sia scientifici che letterari per 2.160 spettatori.
Il rabbino Erich Weiner che diresse il Freizeitgestaltung, l’Organizzazione del tempo libero [da ora FZG], e ci ha lasciato una dettagliatissima relazione sul primo anno di attività del suo ufficio, afferma che la prima serata in cui si fece un evento culturale nel ghetto di Terezín fu il 5 dicembre 1941, all’indomani dell’arrivo del secondo AK, quello in buona parte formato da artisti e intellettuali. La serata si svolse in clandestinità e fu una sorta di varietà improvvisato: poesie, sketch, canzoni che si susseguivano senza un ordine preciso. Questo semplice programma comportava uno sforzo immenso. Non c’erano libri per cui le poesie recitate erano quelle che gli esecutori si ricordavano a memoria; gli strumenti erano proibiti quindi un catino divenne un tamburo e furono suonate due armoniche che qualcuno riuscì a nascondere alle perquisizioni, non c’era un palco né delle luci, il pubblico semplicemente circondava gli esecutori. A partire da questa semplice serata destinata a rincuorare gli uomini, si sviluppò un’intensa attività culturale che dopo un primo periodo di clandestinità, divenne tacitamente permessa fino a essere supportata e sfruttata dal comando tedesco per fini di propaganda. Terezín non fu l’unico campo in cui si manifestarono attività culturali. Tutt’altro. Le testimonianze abbondano sia dai ghetti (per esempio Varsavia), sia dai campi di transito, (es. Malines o Westerbork), sia nei campi di concentramento, (es. Dachau e fin dal 1933!), sia nei campi di sterminio (es. Auschwitz e Treblinka). Quello che distingue Terezín da tutti gli altri campi è la diffusione, la qualità e il destino di questi fenomeni. Il rabbino Weiner ci dice che durante il solo primo anno di attività in clandestinità o semiclandestinità, e nonostante i continui trasporti verso Est (37.000 ca. solo nel ‘42) gli spettatori che parteciparono alle varie attività del FZG furono circa 250.000 in una città di poche decine di migliaia di abitanti. Dati che fanno impressione se confrontati con quelli odierni in una cittadina italiana di pari abitanti in tempo di pace! Rabbi Weiner lascia un resoconto delle attività mese per mese interessante per comprendere l’offerta, i flussi di pubblico e le modalità via via più complesse delle attività. Nel mese di maggio del 1942, per esempio, quando le attività erano tutte pressoché clandestine e avvenivano nei singoli blocchi abitativi o nelle caserme, dopo il coprifuoco e in condizioni di pericolo costante, furono organizzati 16 spettacoli di varia natura che spaziavano dal cabaret, ai reading di poesia alla produzione e commissione di opere prime (fenomeno dovuto alla mancanza di testi) a cui parteciparono 2.900 spettatori, e 36 conferenze di argomenti sia scientifici che letterari per 2.160 spettatori.
Nel mese di dicembre dello stesso anno quando le attività sono venute a conoscenza del comando SS (il rabbino Weiner testimonia che ad alcune serate di cabaret di Karel Svenk partecipava anche l’ufficiale Poljak famoso per le sue crudeltà gratuite ed efferate) ed è venuto meno il divieto al possesso e all’utilizzo di strumenti musicali (dopo il definitivo sgombero delle popolazioni ariane fu ritrovato addirittura un vecchio pianoforte a coda senza gambe e molto disastrato) il totale degli spettatori sale a 53.200!
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L’offerta si è inoltre notevolmente diversificata, così da avere: 9 opere teatrali replicate per un totale di 46 performances, 1 recital di poesie, 2 concerti, 1 opera (seppur in forma piano e canto) replicata 5 volte (la sposa rubata di Janacek), 92 serate di cabaret e rivista, 50 conferenze, 50 letture di testi di vari argomenti per anziani e disabili all’ospedale, 350 performance di varia natura nelle varie caserme e blocchi! Da segnalare che questa grande affluenza e la crescente domanda di eventi fece nascere la necessità di regolamentare i flussi costituendo un vero e proprio ufficio biglietteria, l’istituzione delle serate a invito e un vero e proprio servizio d’ordine. Questi numeri, esclusi i mesi in cui avvenivano massicci trasporti verso Est, si mantennero costanti fino all’autunno del ‘44 quando, dopo le visite delle Croce Rossa Internazionale e dopo l’esecuzione del film di Gerron, le SS impegnarono tutti i loro sforzi per cercare di cancellare le tracce del loro operato.
I numeri per quanto indicativi e stupefacenti non ci dicono nulla sulla natura, sulla qualità e sulle condizioni in cui si svilupparono i fenomeni in analisi. Fare teatro, musica o addirittura un opera a Terezín presentava delle difficoltà materiali quasi insormontabili, tanto che Mirko Tuma, sopravvissuto al ghetto, afferma in questo solo voler fare arte in quell’inferno si concentra l’atto eroico degli artisti, professionisti o dilettanti che fossero. Innanzitutto lo spazio. Il ghetto era sovrappopolato, molti non avevano neanche un giaciglio dove dormire, e trovare dei luoghi atti a ospitare sia gli eventi che il pubblico era arduo. Si utilizzarono soffitte, cantine, scantinati, la stanza della pelatura delle patate (dove agiva il cabaret di Svenk), i dormitori e, in estate, le corti interne degli edifici. A partire dal dicembre del ‘42 fu creato anche un Kaffeehaus, dove si serviva nient’altro che acqua e brodaglie infami, ma venne usato per quotidiani concerti e cabaret. Inoltre è da considerare che queste attività avvenivano dopo aver svolto il normale lavoro nel campo, di otto ore circa, e in condizioni di generale malnutrizione (benché a Terezin non mancasse mai un pasto grazie all’efficienza dell’amministrazione del ghetto, l’apporto calorico era in generale più basso che ad Auschwitz). Mancavano anche i materiali, testi, spartiti, carta da musica, strumenti. Mano a mano che le attività culturali emergevano dalla clandestinità questi cominciarono ad arrivare ma sempre in condizioni pessime o insufficienti. Gideon Klein, uno dei pianisti e compositori più valenti del ghetto, lamenta nelle sue memorie alcuni effetti dell’isolamento: la perdita dell’orecchio sulle accordature soprattutto per quanto riguarda il pianoforte e l’armonium che furono trovati in pessime condizioni e furono aggiustati così come si poteva; l’inadeguatezza degli esecutori, spesso dilettanti, che superavano con l’ardore e l’entusiasmo le deficienze tecniche della loro formazione; da ultimo la mancanza di confronto con l’esterno che faceva del ghetto un ambiente chiuso e impermeabile a ciò che avveniva altrove. Anche Viktor Ullmann, forse il compositore più talentuoso presente a Terezin, già allievo si Schönberg a Vienna, lamenta la mancanza di carta da musica. Il suo Kaiser von Atlantis, l’opera più fulgida scritta nel ghetto e a cui dedicheremo nel prossimo numero uno studio monografico, ad esempio, fu composto utilizzando il retro dei fogli dei trasporti con i pentagrammi disegnati a mano con riga e matita. Ullmann inoltre rimprovera alcuni di voler implementare progetti che non tenevano conto delle condizioni generali del ghetto e della qualità e abilità degli esecutori. Così le varie esecuzioni delle Nozze di Figaro, del Flauto Magico o della Tosca che, a suo avviso erano inadeguate alla condizioni di esecuzione, non potevano che dimostrasi scadenti. La perdita di contatto con la realtà quindi era uno dei pericoli che costellava l’attività artistica nel ghetto.
Una delle malattie che intaccava la pratica artistica fu proprio la nascita di una forma perversa di divismo. Dato il grande afflusso di pubblico, essere attore, cantante e musicista forniva grande popolarità che spesso veniva gestita e sfruttata nel peggiore dei modi. Se i musicisti segnalano la mancanza dei materiali propri alla loro arte, i teatranti supplirono con l’ingegno alle deficienze di materiali di scena. Quando non si poteva accedere ai testi della tradizione, si scrissero testi ad hoc e non solo nel cabaret, che per sua natura si nutriva di quotidiano e di presente, ma anche nel teatro drammatico o comico. Per i costumi si sfruttò l’aberrante istituzione di una finta boutique in cui si vendevano i vestiti rubati agli ebrei per riadattarli come costumi di scena. Per il trucco si utilizzava polvere di mattone, carbone, addirittura il proprio sangue per i rossetti. I palcoscenici si costruirono con tavoli affiancati, i sipari con rotoli di carta o stoffe improvvisate. Quando le SS lanciarono la campagna di abbellimento delle città, lo Stadtverschonerung che preludeva alle visite della Croce Rossa, fornirono un armamentario, seppur rudimentale di luci. Un altro problema era la convivenza di artisti professionisti e di dilettanti sia nelle orchestre e negli ensemble musicali (ricordiamo il cosiddetto “quartetto dei dottori”, l’ensemble Grab-Kernmayer, l’orchestra di Karel Ancerl oltre al coro di Rafael Schachter), sia nelle compagnie teatrali (se ne formarono molte tra cui ricordiamo la compagnia Trude Popper di sole donne, il varietà di Dolfi Reich, etc), convivenza che spesso conduceva a performance notevolmente sbilanciate in quanto a qualità. Per farsi un quadro chiaro della situazione in cui questi artisti si trovarono ad agire, non è secondario infine ricordare che tutte queste attività si preparavano e si svolgevano in un’atmosfera gravata costantemente dall’incubo dei trasporti. Menzioniamo in qualità di esempio in questa sede solo l’infaticabile lavoro del direttore d’orchestra Rafael Schachter nel cercare di mettere in scena il Requiem di Verdi, tentativi spesso frustrati dai continui trasporti che decimavano il coro che lui ogni volta riformava superando immani difficoltà.
I numeri per quanto indicativi e stupefacenti non ci dicono nulla sulla natura, sulla qualità e sulle condizioni in cui si svilupparono i fenomeni in analisi. Fare teatro, musica o addirittura un opera a Terezín presentava delle difficoltà materiali quasi insormontabili, tanto che Mirko Tuma, sopravvissuto al ghetto, afferma in questo solo voler fare arte in quell’inferno si concentra l’atto eroico degli artisti, professionisti o dilettanti che fossero. Innanzitutto lo spazio. Il ghetto era sovrappopolato, molti non avevano neanche un giaciglio dove dormire, e trovare dei luoghi atti a ospitare sia gli eventi che il pubblico era arduo. Si utilizzarono soffitte, cantine, scantinati, la stanza della pelatura delle patate (dove agiva il cabaret di Svenk), i dormitori e, in estate, le corti interne degli edifici. A partire dal dicembre del ‘42 fu creato anche un Kaffeehaus, dove si serviva nient’altro che acqua e brodaglie infami, ma venne usato per quotidiani concerti e cabaret. Inoltre è da considerare che queste attività avvenivano dopo aver svolto il normale lavoro nel campo, di otto ore circa, e in condizioni di generale malnutrizione (benché a Terezin non mancasse mai un pasto grazie all’efficienza dell’amministrazione del ghetto, l’apporto calorico era in generale più basso che ad Auschwitz). Mancavano anche i materiali, testi, spartiti, carta da musica, strumenti. Mano a mano che le attività culturali emergevano dalla clandestinità questi cominciarono ad arrivare ma sempre in condizioni pessime o insufficienti. Gideon Klein, uno dei pianisti e compositori più valenti del ghetto, lamenta nelle sue memorie alcuni effetti dell’isolamento: la perdita dell’orecchio sulle accordature soprattutto per quanto riguarda il pianoforte e l’armonium che furono trovati in pessime condizioni e furono aggiustati così come si poteva; l’inadeguatezza degli esecutori, spesso dilettanti, che superavano con l’ardore e l’entusiasmo le deficienze tecniche della loro formazione; da ultimo la mancanza di confronto con l’esterno che faceva del ghetto un ambiente chiuso e impermeabile a ciò che avveniva altrove. Anche Viktor Ullmann, forse il compositore più talentuoso presente a Terezin, già allievo si Schönberg a Vienna, lamenta la mancanza di carta da musica. Il suo Kaiser von Atlantis, l’opera più fulgida scritta nel ghetto e a cui dedicheremo nel prossimo numero uno studio monografico, ad esempio, fu composto utilizzando il retro dei fogli dei trasporti con i pentagrammi disegnati a mano con riga e matita. Ullmann inoltre rimprovera alcuni di voler implementare progetti che non tenevano conto delle condizioni generali del ghetto e della qualità e abilità degli esecutori. Così le varie esecuzioni delle Nozze di Figaro, del Flauto Magico o della Tosca che, a suo avviso erano inadeguate alla condizioni di esecuzione, non potevano che dimostrasi scadenti. La perdita di contatto con la realtà quindi era uno dei pericoli che costellava l’attività artistica nel ghetto.
Una delle malattie che intaccava la pratica artistica fu proprio la nascita di una forma perversa di divismo. Dato il grande afflusso di pubblico, essere attore, cantante e musicista forniva grande popolarità che spesso veniva gestita e sfruttata nel peggiore dei modi. Se i musicisti segnalano la mancanza dei materiali propri alla loro arte, i teatranti supplirono con l’ingegno alle deficienze di materiali di scena. Quando non si poteva accedere ai testi della tradizione, si scrissero testi ad hoc e non solo nel cabaret, che per sua natura si nutriva di quotidiano e di presente, ma anche nel teatro drammatico o comico. Per i costumi si sfruttò l’aberrante istituzione di una finta boutique in cui si vendevano i vestiti rubati agli ebrei per riadattarli come costumi di scena. Per il trucco si utilizzava polvere di mattone, carbone, addirittura il proprio sangue per i rossetti. I palcoscenici si costruirono con tavoli affiancati, i sipari con rotoli di carta o stoffe improvvisate. Quando le SS lanciarono la campagna di abbellimento delle città, lo Stadtverschonerung che preludeva alle visite della Croce Rossa, fornirono un armamentario, seppur rudimentale di luci. Un altro problema era la convivenza di artisti professionisti e di dilettanti sia nelle orchestre e negli ensemble musicali (ricordiamo il cosiddetto “quartetto dei dottori”, l’ensemble Grab-Kernmayer, l’orchestra di Karel Ancerl oltre al coro di Rafael Schachter), sia nelle compagnie teatrali (se ne formarono molte tra cui ricordiamo la compagnia Trude Popper di sole donne, il varietà di Dolfi Reich, etc), convivenza che spesso conduceva a performance notevolmente sbilanciate in quanto a qualità. Per farsi un quadro chiaro della situazione in cui questi artisti si trovarono ad agire, non è secondario infine ricordare che tutte queste attività si preparavano e si svolgevano in un’atmosfera gravata costantemente dall’incubo dei trasporti. Menzioniamo in qualità di esempio in questa sede solo l’infaticabile lavoro del direttore d’orchestra Rafael Schachter nel cercare di mettere in scena il Requiem di Verdi, tentativi spesso frustrati dai continui trasporti che decimavano il coro che lui ogni volta riformava superando immani difficoltà.
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Funzione dell’arte: ricerca di senso o fuga dalla realtà
La disamina dei problemi e delle difficoltà materiali affrontate dagli artisti a Terezín, disamina breve e sommaria data la brevità di spazio, ci conduce a cercare di determinare le funzioni di questi fenomeni culturali sia per gli artisti che le pensavano, creavano e agivano, sia per il pubblico che le fruiva. Il già citato Mirko Tuma, nelle sue memorie di Terezín, afferma che il fare cultura nel ghetto non presentava aspetti pratici, proibizioni, pericoli o censure radicalmente diversi da qualsiasi altra zona dell’Europa occupata dai nazisti. Lo scarto che faceva di Terezín un’anomalia era la volontà di fare arte in quelle condizioni, volontà diffusa in molti abitanti del Ghetto data l’alta presenza di artisti e di intellettuali di livello europeo. Se si confronta la citazioni di Viktor Ullmann posta in testa al presente articolo si può anzi affermare che queste condizioni furono addirittura un elemento accelerante, un motore per tali attività. Alcuni artisti, tra cui Viktor Ullmann, riscoprirono a Terezín lo scopo di una fare artistico che li aveva precedentemente delusi.
L’attrice ceca Zdenka Ehrlich-Fantlova, che ha lasciato alcune interessanti memorie sulla attività teatrale a Terezín, afferma categorica che quello che animava gli artisti il tentativo di seminare la speranza e per questo motivo l’azione culturale di Terezín non può essere in alcun modo paragonata alle normali attività in tempo di pace. Il dottor H. G. Adler, anch’egli sopravvissuto al ghetto e amico di Ullmann di cui salvò le partiture, afferma nel suo monu- mentale studio, che l’arte a Terezín era un tentativo di ricostruire una normalità ed era, soprattutto, una forma di rielaborazione della realtà al fine di comprenderla e metabolizzarla. Dello stesso avviso Samuel Edelmann il quale aggiunge che questa forma di rivolta si espletava anche nel passare informazioni proibite nascoste in velate allusioni all’interno di canzoni, pezzi teatrali e di cabaret, oltre che messaggi di speranza nascosti in citazioni come dei messaggi cifrati. Il già citato Kaiser von Atlantis di Ullmann può essere un esempio di questa pratica. Nel secondo quadro dell’opera si fa accenno all’uccisione di massa dei prigionieri e allo sfruttamento dei loro cadaveri per ottenere dei beni. A Terezín come in altri campi non si sapeva nulla su quale fosse il destino di coloro che venivano mandati a Est, Nessuno tornava e nascevano quindi le più svariate teorie alcune che prendevano atto della realtà, altre che invece davano fiato alla speranza. A Terezín giunse per sbaglio nel 1943 un convoglio di bambini provenienti da Byalistok. Questi bambini si rifiutarono di entrare nelle docce e raccontarono alle infermiere il motivo. I nazisti trasferirono quanto prima i bambini fuori del campo con alcune infermiere volontarie, tra cui la sorella prediletta di Kafka Ottilie, e dei bambini non si seppe più nulla. Parte delle informazioni raccontate dai bambini si è forse trasferito in queste brevi battute nel Kaiser.
Velati messaggi di speranza li ritroviamo per esempio nella sinfonia di Terezín di Carlo ed Erika Taube nel cui finale si trova un utilizzo parodistico dell’inno Deutschland über alles, il quale termina in una cacofonia come a preannunciare la caduta dei nazisti, uso parodistico che si ritrova nel Kaiser von Atlantis laddove il Tamburo annuncia la guerra di tutti contro tutti. Questo atteggiamento di ricerca di senso in una realtà insensata a cui si aggiungeva la volontà di donare una speranza lo possiamo ritrovare in tutte le forme più fulgide di espressione artistica a Terezín ma anche in molte opere di dilettanti. Gli esempi che potremmo fare sono molteplici, ma ci limiteremo a farne un paio. Il primo è senz’altro il ciclista di Karel Svenk, in cui il comico ceco sfrutta una barzelletta che circolava al tempo della prima guerra in cui si chiedeva di chi era colpa dello scoppio del conflitto e la risposta era proprio: dei ciclisti e che parodiava il pregiudizio invalso che fossa sempre colpa degli ebrei. Nell’opera di Svenk proprio un ciclista sopravvive allo sterminio della sua razza e contribuisce al crollo del sistema. L’altro, più noto, è il Brundibar di Hans Krasa, favola per bambini in cui il cattivo suonatore di organetto impedisce ai due orfani, Annina e Peppino, di potersi guadagnare il pane esibendosi per strada, ma alla fine, con l’aiuto degli animali, i bambini sconfiggono l’odiato Brundibar. L’opera ebbe grande successo e fu replicata ben 55 volte, prima che quasi tutti i partecipanti compreso l’autore sparissero nelle camere a gas di Auschwitz. Se si esaminano queste opere si rimane perplessi circa l’evidenza di tali allusioni e ci si chiede come potessero essere ignorate dalla censura nazista. La risposta può essere una sola: non interessava! Per i nazisti gli ebrei sarebbero stati tutti sterminati e nulla sarebbe rimasto a testimonianza, quindi che dicessero, nei limiti, quello che volevano. Per gli artisti, soprattutto quelli che si occupavano di arti visive, giocava un ruolo anche la necessità di testimoniare quanto avveniva, di lasciare memoria della persecuzione e del dolore. In seguito a questa breve disamina possiamo concludere con una certa sicurezza che i fenomeni culturali di Terezín furono in generale delle forme di attiva ribellione alla realtà della persecuzione e dello sterminio, nonché una forma di comprensione di questa stessa realtà per meglio padroneggiarla.
Agì certo anche una volontà ricostruzione di una normalità ma, in generale, ciò che giocò un ruolo di primaria importanza, fu il tentativo di comprendere il presente e il donare una speranza per un futuro in quelle condizioni così costantemente minacciato. L’arte era dunque concepita come una forma di resistenza alla bruta violenza dell’essere, e diveniva un luogo in cui la verità veniva rivelata sotto una maschera rendendola così accettabile, digeribile, comprensibile. Fare e fruire arte era un tentativo di dar senso all’insensato. Così si spiega anche la grande affluenza di pubblico: non solo la ricerca di una normalità perduta, non solo una fuga dalla realtà, ma la condivisione di uno spazio in cui la comunità rifletteva i propri dolori, li esorcizzava ridendoci sopra col cabaret e con la commedia, li compiangeva e si sforzava di dargli un senso nei drammi e nelle tragedie. Per concludere riportiamo un episodio in cui risulta evidente la volontà di combattere per non lasciarsi sopraffare dalla realtà incombente. Durante la recita de Il matrimonio di Gogol, giunse la notizia che il giorno successivo sarebbe partito un nuovo trasporto verso Est.
Nessuno sapeva se al proprio ritorno nei dormitori avrebbero trovato un ordine di partenza. Gli attori vollero interrompere ma il pubblico non lo permise. I nazisti non avrebbero rovinato quel loro momento. La realtà poteva aspettare, per un poco.
La disamina dei problemi e delle difficoltà materiali affrontate dagli artisti a Terezín, disamina breve e sommaria data la brevità di spazio, ci conduce a cercare di determinare le funzioni di questi fenomeni culturali sia per gli artisti che le pensavano, creavano e agivano, sia per il pubblico che le fruiva. Il già citato Mirko Tuma, nelle sue memorie di Terezín, afferma che il fare cultura nel ghetto non presentava aspetti pratici, proibizioni, pericoli o censure radicalmente diversi da qualsiasi altra zona dell’Europa occupata dai nazisti. Lo scarto che faceva di Terezín un’anomalia era la volontà di fare arte in quelle condizioni, volontà diffusa in molti abitanti del Ghetto data l’alta presenza di artisti e di intellettuali di livello europeo. Se si confronta la citazioni di Viktor Ullmann posta in testa al presente articolo si può anzi affermare che queste condizioni furono addirittura un elemento accelerante, un motore per tali attività. Alcuni artisti, tra cui Viktor Ullmann, riscoprirono a Terezín lo scopo di una fare artistico che li aveva precedentemente delusi.
L’attrice ceca Zdenka Ehrlich-Fantlova, che ha lasciato alcune interessanti memorie sulla attività teatrale a Terezín, afferma categorica che quello che animava gli artisti il tentativo di seminare la speranza e per questo motivo l’azione culturale di Terezín non può essere in alcun modo paragonata alle normali attività in tempo di pace. Il dottor H. G. Adler, anch’egli sopravvissuto al ghetto e amico di Ullmann di cui salvò le partiture, afferma nel suo monu- mentale studio, che l’arte a Terezín era un tentativo di ricostruire una normalità ed era, soprattutto, una forma di rielaborazione della realtà al fine di comprenderla e metabolizzarla. Dello stesso avviso Samuel Edelmann il quale aggiunge che questa forma di rivolta si espletava anche nel passare informazioni proibite nascoste in velate allusioni all’interno di canzoni, pezzi teatrali e di cabaret, oltre che messaggi di speranza nascosti in citazioni come dei messaggi cifrati. Il già citato Kaiser von Atlantis di Ullmann può essere un esempio di questa pratica. Nel secondo quadro dell’opera si fa accenno all’uccisione di massa dei prigionieri e allo sfruttamento dei loro cadaveri per ottenere dei beni. A Terezín come in altri campi non si sapeva nulla su quale fosse il destino di coloro che venivano mandati a Est, Nessuno tornava e nascevano quindi le più svariate teorie alcune che prendevano atto della realtà, altre che invece davano fiato alla speranza. A Terezín giunse per sbaglio nel 1943 un convoglio di bambini provenienti da Byalistok. Questi bambini si rifiutarono di entrare nelle docce e raccontarono alle infermiere il motivo. I nazisti trasferirono quanto prima i bambini fuori del campo con alcune infermiere volontarie, tra cui la sorella prediletta di Kafka Ottilie, e dei bambini non si seppe più nulla. Parte delle informazioni raccontate dai bambini si è forse trasferito in queste brevi battute nel Kaiser.
Velati messaggi di speranza li ritroviamo per esempio nella sinfonia di Terezín di Carlo ed Erika Taube nel cui finale si trova un utilizzo parodistico dell’inno Deutschland über alles, il quale termina in una cacofonia come a preannunciare la caduta dei nazisti, uso parodistico che si ritrova nel Kaiser von Atlantis laddove il Tamburo annuncia la guerra di tutti contro tutti. Questo atteggiamento di ricerca di senso in una realtà insensata a cui si aggiungeva la volontà di donare una speranza lo possiamo ritrovare in tutte le forme più fulgide di espressione artistica a Terezín ma anche in molte opere di dilettanti. Gli esempi che potremmo fare sono molteplici, ma ci limiteremo a farne un paio. Il primo è senz’altro il ciclista di Karel Svenk, in cui il comico ceco sfrutta una barzelletta che circolava al tempo della prima guerra in cui si chiedeva di chi era colpa dello scoppio del conflitto e la risposta era proprio: dei ciclisti e che parodiava il pregiudizio invalso che fossa sempre colpa degli ebrei. Nell’opera di Svenk proprio un ciclista sopravvive allo sterminio della sua razza e contribuisce al crollo del sistema. L’altro, più noto, è il Brundibar di Hans Krasa, favola per bambini in cui il cattivo suonatore di organetto impedisce ai due orfani, Annina e Peppino, di potersi guadagnare il pane esibendosi per strada, ma alla fine, con l’aiuto degli animali, i bambini sconfiggono l’odiato Brundibar. L’opera ebbe grande successo e fu replicata ben 55 volte, prima che quasi tutti i partecipanti compreso l’autore sparissero nelle camere a gas di Auschwitz. Se si esaminano queste opere si rimane perplessi circa l’evidenza di tali allusioni e ci si chiede come potessero essere ignorate dalla censura nazista. La risposta può essere una sola: non interessava! Per i nazisti gli ebrei sarebbero stati tutti sterminati e nulla sarebbe rimasto a testimonianza, quindi che dicessero, nei limiti, quello che volevano. Per gli artisti, soprattutto quelli che si occupavano di arti visive, giocava un ruolo anche la necessità di testimoniare quanto avveniva, di lasciare memoria della persecuzione e del dolore. In seguito a questa breve disamina possiamo concludere con una certa sicurezza che i fenomeni culturali di Terezín furono in generale delle forme di attiva ribellione alla realtà della persecuzione e dello sterminio, nonché una forma di comprensione di questa stessa realtà per meglio padroneggiarla.
Agì certo anche una volontà ricostruzione di una normalità ma, in generale, ciò che giocò un ruolo di primaria importanza, fu il tentativo di comprendere il presente e il donare una speranza per un futuro in quelle condizioni così costantemente minacciato. L’arte era dunque concepita come una forma di resistenza alla bruta violenza dell’essere, e diveniva un luogo in cui la verità veniva rivelata sotto una maschera rendendola così accettabile, digeribile, comprensibile. Fare e fruire arte era un tentativo di dar senso all’insensato. Così si spiega anche la grande affluenza di pubblico: non solo la ricerca di una normalità perduta, non solo una fuga dalla realtà, ma la condivisione di uno spazio in cui la comunità rifletteva i propri dolori, li esorcizzava ridendoci sopra col cabaret e con la commedia, li compiangeva e si sforzava di dargli un senso nei drammi e nelle tragedie. Per concludere riportiamo un episodio in cui risulta evidente la volontà di combattere per non lasciarsi sopraffare dalla realtà incombente. Durante la recita de Il matrimonio di Gogol, giunse la notizia che il giorno successivo sarebbe partito un nuovo trasporto verso Est.
Nessuno sapeva se al proprio ritorno nei dormitori avrebbero trovato un ordine di partenza. Gli attori vollero interrompere ma il pubblico non lo permise. I nazisti non avrebbero rovinato quel loro momento. La realtà poteva aspettare, per un poco.
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Per lo meno non totalmente. Anche se opere di notevole livello furono eseguite e videro la luce nel Ghetto, molte erano semplici lavori dilettanteschi eseguiti più con l’entusiasmo, con il desiderio di essere utili, di dare speranza o sollievo, o semplicemente animate da un volontà di non arrendersi all’enormità che li aveva investiti.
In verità questi sentimenti costituiscono il valore aggiunto di queste opere. Per
i fenomeni artisticamente più compiuti, il valore estetico è un plus valore
alla funzione comune dell’arte a Terezín: essere il luogo in cui la comunità si
riunisce e affronta il senso dell’essere e della morte. Terezín per certi versi
non è diversa dall’Atene che vide il fiorire della tragedia classica, dove il
teatro era il luogo da cui si guarda il mondo, dove ci si confrontava con le
forze oscure che animano l’essere e la vita. Per questo è importante ricordare
Terezín oggi che l’arte ha perso la sua funzione o stenta a trovarne una.
Oggi che l’arte o è enterteinment o è soprammobile, dove quasi l’unica ricerca è quella ossessiva del finanziamento, e l’argomento è quello indicato dai vari bandi bancari e non quello che anima lo spirito e la società. A Terezín dove, come disse Ullmann: “tutto ciò che ha un rapporto con le Muse contrasta così straordinariamente con quello che ci circonda”, l’arte ha riscoperto la sua funzione e il suo rapporto con la società, e artisti in crisi, riscoprirono il senso del loro operare. Forse in questo, l’inferno di Terezín, può essere un modello per gli artisti di oggi, nella speranza che per riscoprirlo non si debba vivere un altro orrore.
Oggi che l’arte o è enterteinment o è soprammobile, dove quasi l’unica ricerca è quella ossessiva del finanziamento, e l’argomento è quello indicato dai vari bandi bancari e non quello che anima lo spirito e la società. A Terezín dove, come disse Ullmann: “tutto ciò che ha un rapporto con le Muse contrasta così straordinariamente con quello che ci circonda”, l’arte ha riscoperto la sua funzione e il suo rapporto con la società, e artisti in crisi, riscoprirono il senso del loro operare. Forse in questo, l’inferno di Terezín, può essere un modello per gli artisti di oggi, nella speranza che per riscoprirlo non si debba vivere un altro orrore.
Bibliografia essenziale:
AA.VV. Isolamenti 1938-1945. Catalogo della manifestazione, Venezia, 1995/1996; H.G. Adler, Theresienstadt, 1941-1945: Das Antlitz einer Zwangsgemeinschaft, Tübingen, J.C.B. Mohr, 1958; A. Goldfarb, Theatrical activities in Nazi concentration camps, in PAJ, numero 2, 1975; J. Karas, La musique à Terezín 1941-1945, Gallimard, Paris, 1993; C. Lanzmann, Un vivo che passa. Auschwitz 1943 – Theresienstadt 1944, Cronopio, 2003; Z. Lederer, Terezín, in The Jews of Czechoslovakia. Historical studies and survey. III° vol. New York, The Jewish pubblication society of America, Society for the History of Czechoslovak Jews, 1968-1984; B. Murmelstein, Terezín il ghetto modello di Eichmann; la scuola, 2013; R. Rovit, A. Goldafarb a cura di, Theatrical Performance during the Holocaust, The John Hopkins University Press; N. Sandrow, Vagabond stars. A world history of Yiddish theater, Syracuse University Press, 1996; M. Tuma, Memories of Theresienstadt, in PAJ, numero 2, 1975. Scrivono in PASSPARnous: o
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Enrico Pastore
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