La dialettica alto/basso o meglio volo/caduta (vorticosa variante del tema vita/morte) funge spesso da asse tematico e strutturale attorno a cui comporre opere «tragiche», capaci di tessere le complicate relazioni tra dimensioni opposte del reale. Un reale spesso naufragato in cocci e frammenti; abitudine costante alla frammentazione e, al contempo, attenzione ai resti. Resti di stelle, parole, umani. «Guidami tu, stella variabile, fin che puoi», abbozzo degli aerei e delle ali.
Materia anonima amorfa, nostra vita quotidiana. Del resto, di fronte alle frustrazioni della realtà non accade a chiunque di reagire con la magia? con credenze di onnipotenza? attribuendoci particolari abilità e straordinari poteri?
Non sempre conosciamo i limiti della nostra forza; sempre però risolviamo l’angoscia nella parola. In sillabe, in suoni sgorga per noi l’emozione. Tentiamo così di alleviare situazioni affettive di dolore, o di tensione. È in questo “dialogo aperto tra noi e il cielo” – quasi fosse un muscolo dell’anima – che la parola umana acquista la sua potenza.
Pro-fonde altezze. Radici delle stelle. In questo spazio ossimorico, la voce di Amelia Rosselli si staglia con un’assolutezza che non ha pari.
Materia anonima amorfa, nostra vita quotidiana. Del resto, di fronte alle frustrazioni della realtà non accade a chiunque di reagire con la magia? con credenze di onnipotenza? attribuendoci particolari abilità e straordinari poteri?
Non sempre conosciamo i limiti della nostra forza; sempre però risolviamo l’angoscia nella parola. In sillabe, in suoni sgorga per noi l’emozione. Tentiamo così di alleviare situazioni affettive di dolore, o di tensione. È in questo “dialogo aperto tra noi e il cielo” – quasi fosse un muscolo dell’anima – che la parola umana acquista la sua potenza.
Pro-fonde altezze. Radici delle stelle. In questo spazio ossimorico, la voce di Amelia Rosselli si staglia con un’assolutezza che non ha pari.
Si pone al centro di un inestricabile sistema di paradossi dove parola ed esperienza, letteratura e vita vengono incessantemente messe una di fronte all’altra, con una ripetuta constatazione di ciò che in entrambe vi è di vitale e mortifero, di allegro e violento. La parola poetica è, da questo punto di vista, qualcosa che salva l’esperienza perché cerca di contenerla e comunicarla, ma è anche para- dossalmente una rinuncia alla vita in quanto ne- cessità di isolamento e di astrazione. In modo speculare l’elemento irrazionale della vita, il caos che l’esperienza può liberare è qualcosa che scardina le categorie falsificanti della tradizione letteraria, ma questa spinta disgregante non è vissuta con un abbandono orfico o panico, perché in essa si cela egualmente un grave pericolo: quello della perdita totale di senso, che è poi disgregazione del sé e impossibilità di comunicazione.
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È la voce di un miracolo per cui un io, puro soggetto grammaticale della lingua (di natura sismica, magmatica, che determina sovente una labilità di significato e valore), incarnandosi in un corpo di carne e sangue, lo trasforma – parola che faccio fatica a scrivere per le risonanze creazioniste. Alchimia del passaggio da una sostanza all’altra, fino all’oro puro, oro di immagini che non sono di nessuno perché di tutti – la risposta dell’ “io” al “tu” assoluto, l’altro preistorico, l’altro indimenticabile, che abbiamo incontrato nell’Ade, da dove tutti veniamo (non andiamo) e molti di noi, emergendo alla luce, dimenticano. Non lo dimenticano i poeti che, anzi, vivono per ricordare.
Quando io lettore leggo una poesia, incontro la realtà che comanda, il “tu” che mi inchioda al mio “io”. A quel “tu”di solito non so rispondere, se non con il solito «io? io che c’entro ?» – un “io”, voglio dire, che è sottrazione, rinuncia, difesa. Mentre l’io del poeta, e in modo particolare quello di Amelia Rosselli, non è difesa, bensì coraggio, risposta generosa. È la sua colpa. È la sua debolezza. È la sua audacia. È il suo mistero. Testimonia della tendenza umana a trovare e, dunque, a cercare, costi quel che costi, la luce cosmica della verità. Parlo di coraggio perché c’è da patire, fedeli all’inno «Precipita / tutte le volte che devi. Difendi le ali».
Quando io lettore leggo una poesia, incontro la realtà che comanda, il “tu” che mi inchioda al mio “io”. A quel “tu”di solito non so rispondere, se non con il solito «io? io che c’entro ?» – un “io”, voglio dire, che è sottrazione, rinuncia, difesa. Mentre l’io del poeta, e in modo particolare quello di Amelia Rosselli, non è difesa, bensì coraggio, risposta generosa. È la sua colpa. È la sua debolezza. È la sua audacia. È il suo mistero. Testimonia della tendenza umana a trovare e, dunque, a cercare, costi quel che costi, la luce cosmica della verità. Parlo di coraggio perché c’è da patire, fedeli all’inno «Precipita / tutte le volte che devi. Difendi le ali».
Perché io no voli, purché tu non
cada, purché la luce si faccia un tutt’un universo, ch’io dorma, nell’infortunato addio. E che la tua gioconda veste di Sposo ti ravvolga, che sia come per i Santi l’Unica Cena, quel tuo sospirare senza sonniferi. Non vi è luce senza gloria, e non vi è inferno senza diffamazione. L’arido orizzonte è un gioco di ombre: non seguirlo, non tirare il sasso nell’acqua, - che tutto si faccia da sé, anche nell’agonizzante silenzio. Amelia Rosselli, da Variazioni belliche. Martina Tempestini
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