Un palcoscenico perlopiù buio, al
centro del quale, come una distorta casetta di fate, si staglia una piccola
costruzione discretamente illuminata simile a una tozza torretta. Attraverso la
finestra centrale, all’interno, i non giovani coniugi Bert e Rose, visibili
soltanto in parte, sono seduti ai lati di un tavolo. I due, da poco nella loro
nuova stanza in affitto di una villetta, tra fatti e discorsi di una banalità
assurda e storpiata, riceveranno visite da persone altrettanto grottescamente
banali fino all’inquietante e mortifero sviluppo finale.
La messa in scena funge da principio visivo erogatore di inquietudine, claustrofobia, isolamento, mancanza di orientamento, caratteristiche spietatamente amplificate dalla totale assenza di musica (un’assenza dunque che diviene presenza) e da un’illuminazione che nella sua apparente monotonia e semplicità irrobustisce la resa della glacialità pinteriana: la stanza-torretta, già di per sé castrante, è a sua volta come cannibalizzata, pressoché sbranata dalla minacciosa indefinitezza dello spazio buio circostante, dando origine così a un luogo-palco metafisico violentemente scialbo. Parallelamente, in modo riuscito, la regia mette in evidenza con crudele nonchalance il rapporto-conflitto fra l’intero spazio del palcoscenico e i personaggi.
Questi ultimi – in particolare la coppia protagonista - vengono totalmente o parzialmente soffocati soprattutto dalla “stanza-casetta” in cui si trovano e dalla quale entrano ed escono attraverso la porta sulla destra, quasi senza che lo spettatore possa accorgersene, come se comparissero dal nulla. Ma le scelte registiche radicalizzano il rigido senso claustrofobico che dà tesa linfa alla pièce di Pinter: nell’opera, infatti, ad esempio, Bert è mostrato quasi in toto, volto compreso. Qui la regia, invece, nel primo quarto d’ora circa, di Bert mostra prima le mani che reggono un giornale, poi i piedi appoggiati sul tavolo, una sineddoche che sa di cadavere, di un fantasma del quotidiano. Stimabili e assolutamente centrali sono le presenze degli attori, le cui maschere – intensi grumi ingranditi come caduti da un dipinto di Bosch, di Ensor, o dai sofisticati orrori del Cremaster di Barney – e gli abiti talvolta assurdi risultano ionescamente incoerenti rispetto al contesto “normale” in cui si trovano nonché a buona parte dei discorsi apparentemente banali dei personaggi. Ma, soprattutto, le presenze peculiari degli attori rappresentano il corrispettivo visivo del loro essere pezzi di tossico grottesco quotidiano, immagini in movimento di un perbenismo che finge di non vedere l’orrore portatile degli altri.
Altrettanto grottesca, ma fra il bambinesco e il malato, è la recitazione, che talvolta sfiora un irrealismo quasi brechtiano. Fedelmente a Pinter, qualsiasi azione normale diviene poten-zialmente pericolosa, ogni gesto è un possibile, possente seme di una tensione che sfocia in qualcosa di mortalmente definitivo.
La messa in scena funge da principio visivo erogatore di inquietudine, claustrofobia, isolamento, mancanza di orientamento, caratteristiche spietatamente amplificate dalla totale assenza di musica (un’assenza dunque che diviene presenza) e da un’illuminazione che nella sua apparente monotonia e semplicità irrobustisce la resa della glacialità pinteriana: la stanza-torretta, già di per sé castrante, è a sua volta come cannibalizzata, pressoché sbranata dalla minacciosa indefinitezza dello spazio buio circostante, dando origine così a un luogo-palco metafisico violentemente scialbo. Parallelamente, in modo riuscito, la regia mette in evidenza con crudele nonchalance il rapporto-conflitto fra l’intero spazio del palcoscenico e i personaggi.
Questi ultimi – in particolare la coppia protagonista - vengono totalmente o parzialmente soffocati soprattutto dalla “stanza-casetta” in cui si trovano e dalla quale entrano ed escono attraverso la porta sulla destra, quasi senza che lo spettatore possa accorgersene, come se comparissero dal nulla. Ma le scelte registiche radicalizzano il rigido senso claustrofobico che dà tesa linfa alla pièce di Pinter: nell’opera, infatti, ad esempio, Bert è mostrato quasi in toto, volto compreso. Qui la regia, invece, nel primo quarto d’ora circa, di Bert mostra prima le mani che reggono un giornale, poi i piedi appoggiati sul tavolo, una sineddoche che sa di cadavere, di un fantasma del quotidiano. Stimabili e assolutamente centrali sono le presenze degli attori, le cui maschere – intensi grumi ingranditi come caduti da un dipinto di Bosch, di Ensor, o dai sofisticati orrori del Cremaster di Barney – e gli abiti talvolta assurdi risultano ionescamente incoerenti rispetto al contesto “normale” in cui si trovano nonché a buona parte dei discorsi apparentemente banali dei personaggi. Ma, soprattutto, le presenze peculiari degli attori rappresentano il corrispettivo visivo del loro essere pezzi di tossico grottesco quotidiano, immagini in movimento di un perbenismo che finge di non vedere l’orrore portatile degli altri.
Altrettanto grottesca, ma fra il bambinesco e il malato, è la recitazione, che talvolta sfiora un irrealismo quasi brechtiano. Fedelmente a Pinter, qualsiasi azione normale diviene poten-zialmente pericolosa, ogni gesto è un possibile, possente seme di una tensione che sfocia in qualcosa di mortalmente definitivo.
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Daniel Montigiani
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