Il titolo della presente recensione è quella di una personale che Matteo Chincarini, giovane autore fotografo, ha tenuto presso lo Spazio Emmaus di Milano, dallo scorso 14 novembre al 22 novembre. Ho riflettuto fortemente sul significato del titolo e ho intravisto nell’arte e nella produzione di Matteo una certa continuità di stile e una certa coerenza contenutistica e soggettistica, volta a una ricerca di qualcosa che non è superficialmente tangibile, ma che vive internamente alla realtà, intrinsecamente al visibile, e che pulsa come significante sotteso di un significato che solo l’arte fotografica rende manifesta.
Milano è la città che fa da teatro a
questa ricerca continua: ma è una metropoli che vuole significare altre
metropoli, un luogo universale che noi viviamo, ma che non assaggiamo,
non assaporiamo, immergendoci nelle differenti ottiche e punti di vista
che solo esse ci sanno trasmettere. La città è una dimensione piena e intrisa di poetica e di ispirazioni figurative: per questo poliedrica e complessa, e le opere di Matteo sanno fortemente trasmettere queste caratteristiche. La storia moderna della fotografia ha proposto autori diversi che, tra il documentarismo, il reportage o il semplice narrare hanno dato letture differenti su uno dei luoghi umani più vissuti e più frequentati nella storia degli ultimi decenni: la città. L’avvento dell’industrializzazione ha svuotato le campagne, precedente fonte di idee per creazioni artistiche, molta storia dell’impressionismo e del figurativo ne è stata influenzata, spostando non solo il fulcro vitale di esistenza delle persone, ma anche, e soprattutto, quella produzione artistica, che ne narra e ne rappresenta le contraddizioni sociali e interiori, cercando messaggi che possano dare rappresentazioni complete. La cinematografia ci viene da supporto nel conoscere e riconoscere la poetica di Matteo, ma anche il suo stile e la sua mano, ferma e decisa, nel descrivere artisticamente, quasi liricamente, il panorama cittadino: una sintesi delle forme che, fino a oggi, hanno visto raffigurare la città.
È in questo
contesto che si inserisce il gioco di forme, architettoniche,
geometriche, e urbanis-tiche, che rende la fotografia di Matteo
un’attenta indagine e una puntuale descrizione che ci slega dalla
limitatezza finita del contesto per portarci ad abbracciare disegni
differenti e altri, inesplorati, soprattutto per alcune visioni poco
attente e insufficientemente inclini ad ascoltare le vibrazioni poetiche
suggeriteci.
La fotografia di Matteo non vuole, infatti, essere circoscritta, soffre della dimensione limitata della cornice, e va oltre i suoi confini, dandone una visione infinita, illimitata in un contesto su cui si struttura la stessa città, definendo nuove rappresentazioni, suggestioni dirompenti per la nostra mente, per le nostre sensazioni, per le nostre emozioni. È in questa ottica che possiamo definire la fotografia di Matteo una fotografia iperrealista, suggerendoci suggestioni che ci portano ad apprezzare altre visioni, altre prospettive, altri panorami, regalandoci un punto di osservazione mai conosciuto e percorso, per giungere, nella finezza e nella puntualità tecnica dello scatto, a scandagliare il sostrato di una sovrapposizione di forme e a esprimerli attraverso giochi geometrici sopraffini e intricati.
La fotografia di Matteo non vuole, infatti, essere circoscritta, soffre della dimensione limitata della cornice, e va oltre i suoi confini, dandone una visione infinita, illimitata in un contesto su cui si struttura la stessa città, definendo nuove rappresentazioni, suggestioni dirompenti per la nostra mente, per le nostre sensazioni, per le nostre emozioni. È in questa ottica che possiamo definire la fotografia di Matteo una fotografia iperrealista, suggerendoci suggestioni che ci portano ad apprezzare altre visioni, altre prospettive, altri panorami, regalandoci un punto di osservazione mai conosciuto e percorso, per giungere, nella finezza e nella puntualità tecnica dello scatto, a scandagliare il sostrato di una sovrapposizione di forme e a esprimerli attraverso giochi geometrici sopraffini e intricati.
La fotografia
di Matteo vede una sapiente calibratura delle luci e delle ombre,
tonalità cromatiche che si fondono e si confondono, abbandonate alla
bellezza di quella estatica contemplazione della natura che interagisce
con il fabbricato, il cielo che si specchia con le sue nuvole, segno di
movimento, di cinetica immagine, nelle vetrate di un palazzo. Matteo non si accontenta dell’obiettivo raggiunto e ci
rende partecipi di una ricerca continua, volta a sperimentazioni progressive:
si legge la contrapposizione tra uno sviluppo incessante del manufatto umano,
gli edifici e le strutture di una città che si ripensa e che si rinnova, spesso
con le sue molteplici contraddizioni, e i riflessi di un ambiente che è quello
di una natura, l’immensità di un firmamento che incombe sulla città stessa, che
vive e che sovrasta la metropoli. È, quindi, la sua, una poetica che non si
sofferma alla prima, spesso superficiale, visione, ma ne esplora le forme,
portando il lato estetico a essere narratore di nuove dimensioni prospettiche:
un gioco sapiente, quasi simbolico concettuale, ma allo stesso tempo non
ricercato, né artefatto, tra geometrie ferme, ma che solo l’arte fotografica
può rendere variabili, mobili, dinamiche, come, appunto, in un “esterno giorno”
cinematografico.
Alessandro Rizzo
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