La quinta stagione
Un film di
Peter Brosens
e Jessica Woodworth Articolo di Daniel Montigiani
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Campo medio, la macchina da presa - la cui iniziale immobilità decide in realtà di lasciar trasparire della tensione silenziosa, posta da qualche parte in lontananza eppure già potente e tristemente efficace nel suo disastroso pulsare –, in una stanza simile a una versione aggiornata di certi interni del pittore olandese del Seicento Hooch, riprende un uomo seduto alla sinistra di un tavolo in legno che osserva un gallo in piedi dalla parte opposta del tavolo, un gallo al quale egli fa il suo verso per poi grottescamente implorarlo di cessare col suo mutismo e di cantare a sua volta.
Diverse sono le inquadrature che in questo film di Peter Brassens e Jessica Woodsworth si prestano ad essere incorniciate e appese come affascinanti dipinti cinematografici e, di conseguenza, è altrettanto difficile che proprio inquadrature come quella appena descritta, per la ricca cura visiva (talvolta da scoprire con attenzione dietro le apparenze di estrema quotidianità) non risultino pregne, piene di spunti, d interpretazioni e richiami.
Diverse sono le inquadrature che in questo film di Peter Brassens e Jessica Woodsworth si prestano ad essere incorniciate e appese come affascinanti dipinti cinematografici e, di conseguenza, è altrettanto difficile che proprio inquadrature come quella appena descritta, per la ricca cura visiva (talvolta da scoprire con attenzione dietro le apparenze di estrema quotidianità) non risultino pregne, piene di spunti, d interpretazioni e richiami.
Inoltre, due registi come Brossens e la Woodsworth, che amano im- bottire e dipingere le proprie visioni di mistero e bellezza colta, non possono non dare un significato fondamentale (anzi, più significati fondamentali) al “quadro” sopra descritto che dà ermeticamente il via in maniera anche inquietante al film.
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In questo ottimo piano-sequenza di apertura, infatti, è racchiusa la capacità espressiva dei due registi sia per quanto riguarda la cifra generale delle scelte visive che fanno brillare il film di citazioni pittoriche che per gli accaduti tragici-grotteschi-apocalittici che si impongono nel corso del film. Tale immagine sintetizza efficacemente l’anima realistica e quella più pittorico-visionaria del film: il punto di partenza visivo del piano sequenza d’apertura è infatti quello di un fotogramma assolutamente appartenente al mondo reale (un uomo in una stanza seduto di fronte a un gallo), ma la disposizione pittorica, precisa degli oggetti e l’affascinante fotografia unita alla situazione grottesca fanno sì che questa immagine assuma dei tratti visionari.
Ma tale piano-sequenza è utile anche perché, come accennato, incarna perfettamente l’epicentro rischioso e palpitante di tutta la narrazione. In un piccolo paese del Belgio (ma, come si scoprirà in seguito, anche nel resto del mondo) proprio quando gli abitanti stanno festeggiando con un rito la fine dell’inverno, il gelo in realtà prosegue misteriosamente e si intensifica fino a diventare unica e drastica stagione di tutto l’anno, provocando così danni all’agricoltura, agli animali, al benessere degli uomini i quali, esasperati dai mesi di continuo freddo e costretti a mangiare cibi in genere non commestibili, mettono in atto comportamenti crudelmente, esasperatamente grotteschi.
Il piano sequenza d’apertura, dunque, mostrando l’uomo che con disperata, calma bizzarria chiede al gallo di riappropriarsi del suo verso, del suo canto esprime l’ormai finita possibilità di proseguire a stabilire un rapporto fra uomo e natura, in particolare fra uomo e animale.
Ma tale piano-sequenza è utile anche perché, come accennato, incarna perfettamente l’epicentro rischioso e palpitante di tutta la narrazione. In un piccolo paese del Belgio (ma, come si scoprirà in seguito, anche nel resto del mondo) proprio quando gli abitanti stanno festeggiando con un rito la fine dell’inverno, il gelo in realtà prosegue misteriosamente e si intensifica fino a diventare unica e drastica stagione di tutto l’anno, provocando così danni all’agricoltura, agli animali, al benessere degli uomini i quali, esasperati dai mesi di continuo freddo e costretti a mangiare cibi in genere non commestibili, mettono in atto comportamenti crudelmente, esasperatamente grotteschi.
Il piano sequenza d’apertura, dunque, mostrando l’uomo che con disperata, calma bizzarria chiede al gallo di riappropriarsi del suo verso, del suo canto esprime l’ormai finita possibilità di proseguire a stabilire un rapporto fra uomo e natura, in particolare fra uomo e animale.
La pellicola, come accennato, può essere divisa in due parti: una perlopiù realistica, con immagini talvolta quasi scarne nella loro semplicità (ad esempio tutta la scena dell’offerta delle bevande calde nei dintorni della roulotte), un’altra, invece, i cui colori e le cui atmosfere si stendono e si allargano per assumere le forme di richiami a celebri dipinti come Cacciatori nella neve di Brueghel Il Vecchio (il campo lunghissimo con gli abitanti del villaggio piccoli come puntini semoventi che salgono la colina innevata), Bosch ed Ensor (l’opprimente campo medio degli abitanti che indossano le inquietanti maschere bianche dal naso appuntito).
Il film libera anche con una certa abilità all’interno della propria atmosfera cupi bagliori di realismo magico sui generis (i ragazzini protagonisti che vedono improvvisamente comparire e sfilare le grandi statue simili a pesanti apparizioni fantasmagoriche) e, assai indirettamente, Nighthawks del pittore americano Edward Hopper (il suggestivo piano-sequenza di alcuni abitanti che discutono animatamente all’interno di una piccola locanda).
Il film libera anche con una certa abilità all’interno della propria atmosfera cupi bagliori di realismo magico sui generis (i ragazzini protagonisti che vedono improvvisamente comparire e sfilare le grandi statue simili a pesanti apparizioni fantasmagoriche) e, assai indirettamente, Nighthawks del pittore americano Edward Hopper (il suggestivo piano-sequenza di alcuni abitanti che discutono animatamente all’interno di una piccola locanda).
gazzina che sull’altalena perde sangue dal naso).
Tuttavia è anche vero che si presentano quasi da subito dei piccoli ma purtroppo significativi ostacoli che scorticano un po’ la bellezza del film: l’intreccio di realismo (anche crudo, spietato) e visionarietà magico-pittorica non risulta sempre molto ben legato. Lo iato fra la parte pittorico-visionaria e quella della secca, realistica quotidianità è a volte troppo vasto, ovvero non ben controllato, tanto che, talvolta, le immagini, scene, sequenze che riflettono la realtà vera e propria risultano involontariamente sciatte, sbiadite, in tono minore rispetto alla potenza (sottile e non) di altre visioni al limite del fantastico.
I due registi dimostrano indubbiamente di avere talento, di riuscire a far convivere il senso dell’apocalisse e della distopia con un’ironia distaccata e sdegnosa (si noti l’inquadratura degli struzzi, citazione per nulla indiretta del Fantasma della libertà di Bunuel), di saper fare un buon uso della musica extradiegetica (la Carmen di Bizet della Callas in contrasto col desolante campo totale dello straniero in mezzo alla neve con la famiglia vicino alla roulotte) ma, soprattutto a causa di questi difetti di realismo qua e là involontariamente un po’ anonimo e trasandato, La quinta stagione non riesce a salire qui due o tre fondamentali possenti e luminosi scalini che gli permetterebbero di raggiungere la vera di una vetta e propria grandiosità cinematografica.
Tuttavia è anche vero che si presentano quasi da subito dei piccoli ma purtroppo significativi ostacoli che scorticano un po’ la bellezza del film: l’intreccio di realismo (anche crudo, spietato) e visionarietà magico-pittorica non risulta sempre molto ben legato. Lo iato fra la parte pittorico-visionaria e quella della secca, realistica quotidianità è a volte troppo vasto, ovvero non ben controllato, tanto che, talvolta, le immagini, scene, sequenze che riflettono la realtà vera e propria risultano involontariamente sciatte, sbiadite, in tono minore rispetto alla potenza (sottile e non) di altre visioni al limite del fantastico.
I due registi dimostrano indubbiamente di avere talento, di riuscire a far convivere il senso dell’apocalisse e della distopia con un’ironia distaccata e sdegnosa (si noti l’inquadratura degli struzzi, citazione per nulla indiretta del Fantasma della libertà di Bunuel), di saper fare un buon uso della musica extradiegetica (la Carmen di Bizet della Callas in contrasto col desolante campo totale dello straniero in mezzo alla neve con la famiglia vicino alla roulotte) ma, soprattutto a causa di questi difetti di realismo qua e là involontariamente un po’ anonimo e trasandato, La quinta stagione non riesce a salire qui due o tre fondamentali possenti e luminosi scalini che gli permetterebbero di raggiungere la vera di una vetta e propria grandiosità cinematografica.
Daniel Montigiani
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