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Il paesino di San Balderico sorgeva nell’insenatura tra due colline, in un luogo riparato a levante da quella che gli abitanti avevano battezzato come “Punta del Sole” e a ponente dal “Profilo della notte”. All’origine, il borgo era limitato a poche case di pastori, isolate l’una dall’altra, che rimanevano abitate solo dalle mogli e dai figli piccoli quando gli uomini erano impegnati nella transumanza. Dopo qualche decennio, forse spontaneamente o forse perché i mariti preferivano rimanere lontano con meno preoccupazioni, le casupole divennero sempre più vicine, formando l’embrione vivo dell’attuale comunità. Lontano dai centri più importanti e parecchio restio agli scambi, San Balderico si sviluppò lentamente come un microcosmo autonomo, quasi alla stregua di un’abbazia medievale. L’anagrafica odierna scarseggia di informazioni, ma non è assurdo supporre che la popolazione avesse mantenuto, nel corso degli anni, un numero di cittadini sempre molto esiguo, con frequenti matrimoni tra parenti e un conseguente indebolimento fisico dei neonati. Molti piccoli nascevano con gravi patologie e l’assenza di medici qualificati li condannava, sin dal primo vagito, a non poter vedere il corso intero delle stagioni. Per tentare di far fronte a un problema tanto grave, dopo parecchie discussioni, il consiglio comunale, piuttosto che favorire gli scambi (temuti perché avrebbero impoverito la già ridotta popolazione del paese), preferì emanare una lunga serie di ordinanze che avrebbero dovuto evitare il proliferare non opportunamente “razionalizzato”.
I contadini e i pastori erano già sufficienti e il loro lavoro non offriva più alcuna possibilità, perciò, considerando le necessità collettive, molti giovani erano stati impiegati in compiti ammi- nistrativi, dando vita a un settore terziario così noiosamente burocratico da far rabbrividire per- fino gli addetti a quelle innumerevoli procedure d’antica Russia.
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L’unica regola
ferrea, introdotta per limitare le derive demografiche eccessivamente
pericolo- se, era quella di non poter mai sostituire un impiegato se il
numero degli abitanti non superasse una precisa soglia.
Per rendere chiaro il processo, il segretario del consiglio, insieme con un anziano tipografo, avevano preparato un cartellone tabellato in cui erano sintetizzate, con una sfilza interminabile di cifre, tutte le soglie minime per ciascuna mansione, con i criteri per poter autorizzare in modo ordinario l’assunzione di nuove persone. I pochi paesani, soprattutto la domenica, quando si ritrovavano sfaccendati, dopo aver passeggiato per le viuzze del paesino, convergevano sistematicamente nella piazza dove aveva sede anche il municipio e, senza mai deludere le aspettative del segretario, si soffermavano a gruppetti di fronte al cartellone per sbizzarrirsi nelle ipotesi più disparate. “Mio figlio è il primo considerando la quarta regola!”, urlava un vecchio calzolaio, “Dobbiamo solo attendere che un’unità venga persa dal terzo o dal sesto insieme”. I pastori, sempre più preoccupati per le sorti della loro prole, lo incalzavano subito: “Ma cosa blateri ubriacone? Lo sai che abbiamo almeno quattro ragazzi che possono scavalcare quello scansafatiche di tuo figlio… Faresti meglio a insegnarli a risuolare scarpe invece di sperare nei miracoli!”. A quel punto, come da prassi, scoppiavano liti che potevano anche arrivare alle mani se non ci fosse stato sempre un paesano di buona volontà (ovvero senza figli in cerca di occupazione) pronto a dirimerle elargendo parole di banale saggezza. Chissà per quale motivo, anche i più bellicosi lo ascoltavano come se i suoi consigli fossero davvero portatrici di brillanti soluzioni e, alla fine, ritornando nelle loro case per il pranzo, si battevano pacche sulle spalle ripetendo: “Vedremo… La signora con la falce non si lascia corteggiare né tantomeno scacciare… Meglio che noi pensiamo all’inverno e alle poche bestie ancora in grado di figliare. Loro almeno non hanno cartelloni e tabelline da imparare a menadito…”. In verità, non passava giorno a San Balderico senza che ogni famiglia discutesse almeno una volta delle complicatissime regole, ma nessuno lo faceva con spirito veramente critico.
Perfino Don Michele Arlizzi, un prete che dimenticava sovente il nome di battesimo del suo vescovo, faceva molto più spesso riferimento al tabellone piuttosto che ai comandamenti. Durante le sue prediche domenicali, con gli occhi miopi e le mani tremolanti, passava in rassegna tutti i giovani presenti alla funzione e gli bastava volgere lo sguardo in direzione del municipio per dare tutta la pregnanza necessaria ai suoi moniti sugli eccessi di lussuria. “A San Balderico” soleva ripetere “Siamo gente onesta, seria, che lavora alacremente e non ama le esagerazioni” poi si fermava, squadrava i suoi pochi fedeli, alzava gli occhi verso il luogo ove era affisso il tabellone e faceva eco alle sue ultime parole “Tutte le esagerazioni…”. A quel punto, perfino i più convinti detrattori del potere clericale (che cambiavano spesso opinione, sottraendosi a qualsiasi conta ufficiale) abbassavano lo sguardo e annuivano in silenzio. Non avrebbero confessato l’omicidio di un confinante, ma di sicuro sarebbero corsi a ricevere conforto da Don Michele qualora essi o uno dei loro figli avesse anche solo pensato di trascurare quanto prescritto da quel labirinto di regole. Fu proprio dopo una funzione domenicale che Saverio Malatesta e Lauretta Santarosa cominciarono a far trapelare sguardi che mal celavano un desiderio ben poco inquadrabile all’interno di schemi e statuti tanto rigidi. Lui era figlio unico di un coltivatore ormai anziano e lei, invece, l’unica erede del notaio del paesino. A San Balderico le convenzioni sociali non riuscivano a fare breccia e, se spesso la casta, il censo e l’istruzione erano egemoni indiscussi, in quel luogo il poco senso comune lasciato a briglia sciolta si era impelagato con le sue stesse propaggini in un codice ben più gravoso.
Così, senza scandalo né ritrosie, Saverio era conosciuto a casa di Lauretta e quest’ultima, avvezza anche ai pesanti compiti agresti, spesso si recava nella piccola masseria dell’amato per aiutare la madre nelle faccende meno faticose.
Per rendere chiaro il processo, il segretario del consiglio, insieme con un anziano tipografo, avevano preparato un cartellone tabellato in cui erano sintetizzate, con una sfilza interminabile di cifre, tutte le soglie minime per ciascuna mansione, con i criteri per poter autorizzare in modo ordinario l’assunzione di nuove persone. I pochi paesani, soprattutto la domenica, quando si ritrovavano sfaccendati, dopo aver passeggiato per le viuzze del paesino, convergevano sistematicamente nella piazza dove aveva sede anche il municipio e, senza mai deludere le aspettative del segretario, si soffermavano a gruppetti di fronte al cartellone per sbizzarrirsi nelle ipotesi più disparate. “Mio figlio è il primo considerando la quarta regola!”, urlava un vecchio calzolaio, “Dobbiamo solo attendere che un’unità venga persa dal terzo o dal sesto insieme”. I pastori, sempre più preoccupati per le sorti della loro prole, lo incalzavano subito: “Ma cosa blateri ubriacone? Lo sai che abbiamo almeno quattro ragazzi che possono scavalcare quello scansafatiche di tuo figlio… Faresti meglio a insegnarli a risuolare scarpe invece di sperare nei miracoli!”. A quel punto, come da prassi, scoppiavano liti che potevano anche arrivare alle mani se non ci fosse stato sempre un paesano di buona volontà (ovvero senza figli in cerca di occupazione) pronto a dirimerle elargendo parole di banale saggezza. Chissà per quale motivo, anche i più bellicosi lo ascoltavano come se i suoi consigli fossero davvero portatrici di brillanti soluzioni e, alla fine, ritornando nelle loro case per il pranzo, si battevano pacche sulle spalle ripetendo: “Vedremo… La signora con la falce non si lascia corteggiare né tantomeno scacciare… Meglio che noi pensiamo all’inverno e alle poche bestie ancora in grado di figliare. Loro almeno non hanno cartelloni e tabelline da imparare a menadito…”. In verità, non passava giorno a San Balderico senza che ogni famiglia discutesse almeno una volta delle complicatissime regole, ma nessuno lo faceva con spirito veramente critico.
Perfino Don Michele Arlizzi, un prete che dimenticava sovente il nome di battesimo del suo vescovo, faceva molto più spesso riferimento al tabellone piuttosto che ai comandamenti. Durante le sue prediche domenicali, con gli occhi miopi e le mani tremolanti, passava in rassegna tutti i giovani presenti alla funzione e gli bastava volgere lo sguardo in direzione del municipio per dare tutta la pregnanza necessaria ai suoi moniti sugli eccessi di lussuria. “A San Balderico” soleva ripetere “Siamo gente onesta, seria, che lavora alacremente e non ama le esagerazioni” poi si fermava, squadrava i suoi pochi fedeli, alzava gli occhi verso il luogo ove era affisso il tabellone e faceva eco alle sue ultime parole “Tutte le esagerazioni…”. A quel punto, perfino i più convinti detrattori del potere clericale (che cambiavano spesso opinione, sottraendosi a qualsiasi conta ufficiale) abbassavano lo sguardo e annuivano in silenzio. Non avrebbero confessato l’omicidio di un confinante, ma di sicuro sarebbero corsi a ricevere conforto da Don Michele qualora essi o uno dei loro figli avesse anche solo pensato di trascurare quanto prescritto da quel labirinto di regole. Fu proprio dopo una funzione domenicale che Saverio Malatesta e Lauretta Santarosa cominciarono a far trapelare sguardi che mal celavano un desiderio ben poco inquadrabile all’interno di schemi e statuti tanto rigidi. Lui era figlio unico di un coltivatore ormai anziano e lei, invece, l’unica erede del notaio del paesino. A San Balderico le convenzioni sociali non riuscivano a fare breccia e, se spesso la casta, il censo e l’istruzione erano egemoni indiscussi, in quel luogo il poco senso comune lasciato a briglia sciolta si era impelagato con le sue stesse propaggini in un codice ben più gravoso.
Così, senza scandalo né ritrosie, Saverio era conosciuto a casa di Lauretta e quest’ultima, avvezza anche ai pesanti compiti agresti, spesso si recava nella piccola masseria dell’amato per aiutare la madre nelle faccende meno faticose.
Poco distante si trovava un capanno degli
attrezzi, normalmente stipato all’inverosimile di zappe, vanghe,
attrezzi vari, sacchi di concime, setacci e ogni altro strumento
necessario alla cura della terra. I due, frementi come ragazzini, si adagiarono su una tela e rimasero in silenzio, uniti solo dalla reciproca consapevolezza dell’altro. Lauretta passava la sua fronte sul viso madido dell’amante e questi, muovendo lo sguardo affinché la luce desse forma alle fattezze della donna, contemplava la statuaria perfezione di quel profumo di fiori, riverberato da profondissimi occhi verdi, appena increspati da minuscole polle umide d’emozione. Pochi minuti parvero un’eternità e i due giovani amanti, persi l’uno nell’altra, scoprirono per la prima volta l’essenza della trasgressione: quella sottile linea invisibile che solo gli occhi anziani, forse perché ormai incapaci di fissare con chiarezza le forme della realtà, riuscivano a scorgere nella penombra di una navata romanica. Saverio amò Lauretta e Lauretta amò Saverio, ma entrambi, nell’odore stantio della baracca, accarezzati da timide frecciate di sole, compresero che non vi erano due desideri, ma uno solo, una grande sfera di marmo che i due amanti osservavano da parti opposte, ognuno pensando quanto il cuore dell’altro potesse riempirsi di gioia nel ricevere la propria come dono d’amore. Dopo quattro mesi da quel fugace ma concretissimo rendez-vous, Don Michele celebrò le nozze dei due giovani nella chiesetta dei SS. Martiri, luogo consacrato, oltre che al culto formale della religione cattolica, anche alla continua celebrazione di ogni forma di torto, ricatto, ingiustizia che la vita era in grado di riversare sugli abitanti di San Balderico. La cerimonia fu breve, nello stile asciutto del vecchio prete, con un pubblico che, per quanto ridotto a poche file di persone, comprendeva più dei tre quarti delle famiglie del paese. Nelle prime due panche, una a destra e l’altra a sinistra, c’erano i parenti agricoltori di Saverio, vestiti di flanella e di lana grezza e, poco distanti, quelli di alto rango di Lauretta. Nessuno, tuttavia, osservava quell’apparente dissonanza: gli occhi erano costantemente rivolti altrove. Fu Don Michele a rompere gli indugi e soddisfare l’evidenza (visto che a San Balderico esisteva una demarcazione netta tra chiacchiera di strada e verità accertata): “Carissimi fratelli”, esclamò alzando al massimo il tono della sua flebile voce, “Il rituale prevede parole diverse, ma permettetemi questa licenza che, in nessun modo, sminuisce il valore del sacramento che state per ricevere. Tutti, qui nel paese, vi conoscono e nessuno potrebbe aver mai il coraggio di negare la vostra bontà d’animo, pertanto sono più che certo che il vostro matrimonio sarà sicuramente benedetto dalla grazia e pieno di soddisfazioni”.
A quel punto fece un pausa, come se volesse nuovamente soppesare le parole che ronzavano nella sua testa e poi, animato da uno spirito ebbro di franchezza, continuò: “In particolare, carissimi Saverio e Lauretta, il figlio che Dio vi ha già voluto donare…”, e, squadrando, prima i due e poi il pubblico, sentenziò senza proferire altre parole che ogni possibile pettegolezzo era definitivamente bandito “…Sarà per voi il cemento che vi terrà uniti nella buona e nella cattiva sorte. Pensate alla Vergine Maria, quan- do sola nella sua camera, ricevette l’annuncio della sua gravidanza. Non dubito neanche un istante che quel cuore di bambina sobbalzò nel petto sentendo il peso di una così grande res- ponsabilità; ma lo Spirito di Dio scese su di lei e quel cammino così arduo, pur restando l’inizio di un lunghissimo calvario, divenne uno stru- mento di gioia”.
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Poi, guardando gli occhi tremolanti di
lacrime della giovane sposa, come se avesse ricevuto un’illuminazione
profetica, concluse: “E tu, cara Lauretta, pensa con ardore al momento in cui l’angelo disse a Maria che avrebbe partorito un bambino e che l’avrebbe chiamato Gesù! Il suo nome era già scritto, perché il Verbo, ricordatelo tutti, esisteva prima di ogni creazione. Così il vostro piccolo Marco, Francesco, Anna, Giorgio è, seppur ancora incompleto per questo mondo, già vivo nell’immensa gloria di Dio!”. Tutta la platea ascoltò quelle parole in silenzio, ma, non appena il sacerdote ebbe finito, poco prima di impartire la comunione, si iniziarono a udire i primi commenti: “Spero proprio che il segretario comunale non voglia firmare un decreto solo per favorire la figlia del notaio…”. “Se dovesse far questo”, esclamò il calzolaio, “Giuro di fronte alla Vergine che dò fuoco al municipio!”. “Per favore, rispetta questo luogo!”, lo zittì la moglie, “E smettila di bere non appena al mattino rimetti i piedi per terra!”. L’uomo, in effetti, aveva la fama di tenere sempre una fiaschetta di grappa nella tasca interna della giacca, tuttavia, per ironia della sorte, era decisamente molto più sobrio nelle sue esuberanze, che nei momenti di solitudine, quando si abbandonava al suo liquore, come amante assetato al seno della sua donna.
Dopo le nozze, i due giovani andarono ad abitare in una piccola dépendance della casa del notaio. Ogni giorno, dopo la colazione, Saverio baciava Lauretta, le accarezzava la pancia sempre più gonfia e si recava ai suoi campi. Un pomeriggio d’estate, quando ormai la giovane usciva sempre più di rado, la moglie del far- macista Di Lorenzo, donna notoriamente saggia nell’altrui giudizio, andò a far visita a Lauretta. “Certo”, esordì dopo la forma-
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lità dei convenevoli, “Adesso
non sei più la figlia del notaio… E si vede, mia cara, ma non
disperare, col tempo, chissà, potrete ottenere quello che oggi hai perso”.
La giovane la fissò stupita: “A oggi, mi sembra di non aver perso nulla… Semmai io e Saverio stiamo per ottenere un bellissimo dono”. “Già, già…”, mormorò l’attempata signora, “Saprai pure quanto fa chiacchierare questo bambino, ancor prima che la sua testa veda la luce!”. “Sinceramente non capisco e non mi interessa. Ma la gente ama parlare di ciò che non gli appartiene…”. “Già, già…”, ripeté senza interrompere il suo flusso di pensieri, “E tuo marito? Con i suoi campi può sfamare due bocche, oltre la sua?”. Lauretta, ascoltando esterrefatta quel tono e quegli argomenti così balzani, iniziò a innervosirsi: “Mi scusi, ma non crede che questi sono affari di famiglia, se mai di ‘affari’ si può parlare?”. “Oh, cara Lauretta”, esclamò la signora prendendole la mano, “Se tutti la pensassero come te…”. “Cosa intende dire?”. La donna volse lo sguardo in direzione della piazza del municipio: “Il tabellone… Sai…”. “Il tabellone?”, sbottò Lauretta scoppiando a ridere, “E lei pensa che un neonato possa avere qualche relazione con quello stupido pezzo di carta?”. “Stupido, proprio non direi”, rispose la donna, piccata per quell’aria di superiorità che smontava ogni sua velleità, “Gli abitanti del paese mormorano… Sanno che tuo padre è influente, benché i testamenti scarseggino e le compravendite siano rimandate di anno in anno… E tutti pensano che le regole verranno eluse per favorire il nascituro nipote di un notaio”. Lauretta rise nuovamente, toccandosi la pancia per sentire se il piccolo fosse anch’egli di buon umore: “Chi teme per il tabellone, può stare tranquillo, signora Di Lorenzo, un neonato non ruberà alcun posto di lavoro!”.
La giovane la fissò stupita: “A oggi, mi sembra di non aver perso nulla… Semmai io e Saverio stiamo per ottenere un bellissimo dono”. “Già, già…”, mormorò l’attempata signora, “Saprai pure quanto fa chiacchierare questo bambino, ancor prima che la sua testa veda la luce!”. “Sinceramente non capisco e non mi interessa. Ma la gente ama parlare di ciò che non gli appartiene…”. “Già, già…”, ripeté senza interrompere il suo flusso di pensieri, “E tuo marito? Con i suoi campi può sfamare due bocche, oltre la sua?”. Lauretta, ascoltando esterrefatta quel tono e quegli argomenti così balzani, iniziò a innervosirsi: “Mi scusi, ma non crede che questi sono affari di famiglia, se mai di ‘affari’ si può parlare?”. “Oh, cara Lauretta”, esclamò la signora prendendole la mano, “Se tutti la pensassero come te…”. “Cosa intende dire?”. La donna volse lo sguardo in direzione della piazza del municipio: “Il tabellone… Sai…”. “Il tabellone?”, sbottò Lauretta scoppiando a ridere, “E lei pensa che un neonato possa avere qualche relazione con quello stupido pezzo di carta?”. “Stupido, proprio non direi”, rispose la donna, piccata per quell’aria di superiorità che smontava ogni sua velleità, “Gli abitanti del paese mormorano… Sanno che tuo padre è influente, benché i testamenti scarseggino e le compravendite siano rimandate di anno in anno… E tutti pensano che le regole verranno eluse per favorire il nascituro nipote di un notaio”. Lauretta rise nuovamente, toccandosi la pancia per sentire se il piccolo fosse anch’egli di buon umore: “Chi teme per il tabellone, può stare tranquillo, signora Di Lorenzo, un neonato non ruberà alcun posto di lavoro!”.
“Il piccolo certamente no!”, esclamò la donna come se il tono di Lauretta l’avesse offesa, “Ma tu potresti facilmente trovare un impiego in amministrazione… E che dire di Saverio? Raccogliere patate e pomodori non è si- curamente redditizio come il posto tranquillo di un usciere…”. La giovane, che aveva compreso il senso di quel discorso, ma desiderava sentirlo con le proprie orecchie, accarezzò la mano avvizzita della signora e, quietamente, le rispose: “Può dire a tutti che nessuno ha alcunché da temere. Né io, né tantomeno Saverio desideriamo contravvenire a quanto stabilito dalle regole comunali.
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Adesso la prego, vorrei stendermi per riposarmi”. “Io dovrei dire queste cose a tutti?”, escla- mò colei che, in quel momento, era divenuta di nuovo la moglie del farmacista, “Lauretta!
Ma cosa pensi? Che sia una pettegola? A me sta a cuore solo il
benessere di quel povero bambino che tra qualche mese nascerà! Il tuo comportamento mi offende, ma attribuisco i toni così aspri ai cambi d’umore della gravidanza!”. Dopo di ciò, strinse la mano a Lauretta e, senza aggiungere altro, si diresse verso l’uscita. Quella stessa sera, il paese intero seppe con che toni la giovane sposina aveva messo in riga la temibile signora Di Lorenzo e del modo provocatorio con cui aveva parlato del tabellone. Non pochi si irritarono udendo la donna scimmiottare i versi di Lauretta, compreso Don Michele che, chissà perché, si sentiva anch’egli parte in causa in quella vicenda. Proprio quest’ultimo, l’indomani, decise di far visita a Saverio, con il quale i rapporti erano sempre stati cordiali e meno soggetti a quello strano vincolo di borghesia che, nonostante tutto, circondava di pudore il vecchio prelato quando si trovava innanzi al notaio e alla sua famiglia. Trovò il giovane al limitare della piccola vigna che separava il loro possedimento da quello di un anonimo proprietario di città che non si era mai curato della sua terra. “Verrà un buon vino quest’anno?”, chiese a mo’ di saluto scrollandosi la polvere dalla tonaca.
“Sufficientemente perché lei possa ubriacarsi con tutte le benedizioni celesti!”, rispose Saverio con l’ironia di un proletario che conosceva il comunismo solo attraverso i racconti uditi tra le fredde pareti della parrocchia. “Tu scherzi, fi- gliolo…”, rispose il prete unendo le mani e facendo dondolare il capo come se dovesse ini- ziare una lunga ramanzina, “Ma ci sono cose che è meglio non prendere mai per scherzo…”. “Ovvero, padre?”, chiese l’uomo asciugandosi il sudore con la manica logora della camicia. “A parte me, ovviamente…”, iniziò Don Michele, “L’amore tra uomini e donne… Non dovrei dirti certe cose, ma il matrimonio che ho celebrato è solo la riparazione a un atto di fornicazione. |
Atto che, tra le altre cose, non avete confessato né tu, né…”, si fermò di scatto capendo di sta- re violando, almeno formalmente, il segreto impostogli dal suo ministero “…insomma, che è passato inosservato come se nulla fosse”. “Inosservato non mi sembra il termine adatto, visto il mormorio che ha invaso il paese”.
“Per carità, per carità!”, esclamò il prete scacciando con la mano proprio quanto aveva pazientemente raccolto la sera precedente, “Non pensare che a me interessino quelle infime chiacchiere! Ricorda che io rispondo solo al vescovo, non al segretario comunale o al sindaco. Il mio interesse nei vostri confronti è esclusivamente spirituale..”. “Spirituale…”, ribatté Saverio, “Dai suoi toni, mi sembra proprio che lei andrebbe a sindacare perfino la gravidanza di Maria! Ma non si ricorda ciò che disse durante la funzione?”. Il prete andò su tutte le furie: “Non essere blasfemo! Giuseppe non fornicò con Maria. Egli accettò da uomo pio un gravoso dovere richiestogli dall’alto. Tu, invece…”. “Io, invece?”. “Tu hai concupito e ingravidato quella giovane!”, esclamò il vecchio strabuzzando gli occhi, “E ci sono figli e figli… Il vostro è…”, incespicò sulle ultime parole e rimase immobile come se volesse soppesare quanto desiderava più d’ogni cosa dire, “…Sì, in verità… È del tutto sbagliato!”. Saverio lo fissò per qualche istante e poi scoppiò a ridere: “Padre, ho la netta impressione che lei sia ubriaco”, e con la mano si indicò la tempia, “Forse non si rende neanche conto delle sciocchezze che sta dicendo…”. “Ricordati che stai parlando con un ministro della Chiesa”, rispose il prete reprimendo la rabbia tra i denti malandati, “Ma comunque, questo non importa… Dimmi, tu e quella brava giovane avete dunque intenzione di trasferirvi in città…”.
“E chi le ha raccontato questa storia? Forse Lauretta?”, chiese Saverio intuendo l’antifona del prete. Questi, vedendosi in palese difficoltà, cercò di far leva sulla sua età per dispensare l’ennesimo consiglio della giornata: “No, no… È solo una mia idea. Pensavo che voleste far crescere il vostro piccolo in un ambiente più consono”. “Padre”, rispose l’uomo con la serafica ostinazione dei contadini, “San Balderico è un posto più che consono per un neonato. La ringrazio per il suo interessamento, ma adesso, la prego, le mie attività richiedono un impegno costante…”, e, proprio come Lauretta con la signora Di Lorenzo, lo liquidò senza troppe cerimonie. Il piccolo nacque cinque mesi dopo, quando l’inverno ormai imperversava e i focolari, nelle case avvolte dalla nebbia, risplendevano di una luce spavalda. Non appena la moglie ebbe manifestato le prime avvisaglie, Saverio, solido come una roccia, l’aveva avvolta in una coperta e, sostenendola come si fa con un uomo claudicante, l’aveva accompagnata nel piccolo ambulatorio che fungeva da ospedale di primo soccorso. L’ostetrica giunse poco dopo, stropicciandosi gli occhi e sbadigliando: “Finalmente questo bambino ha deciso di constatare quant’è noiosa San Balderico?”, disse a Lauretta abbozzando un sorriso, “Bene, mia cara… Iniziamo”. Dopo poco più di un’ora di travaglio, la giovane mise al mondo un neonato di tre chili e Saverio, che era rimasto in anticamera per paura di innervosire la moglie, quasi svenne nel vedere come quel gesto così fugace e sublime si fosse trasformato in una così perfetta opera della natura.
Il notaio, accanto a lui, squadrò i lineamenti rosei e tondeggianti del neonato ed esclamò: “Ha proprio l’aria nobiliare!”. La madre di Saverio, che, a dire il vero, non era mai stata considerata come una massaia, rispose senza esitare: “Io preferisco pensare che abbia il volto di un angioletto, anche se non ne ho mai visto uno… Non avrò certamente la sua cultura, ma cosa c’è di più nobile di un neonato?”. L’uomo storse il naso, pensando tra sé che una donna di campagna, benché dotata della concretezza di una vita senza sconti, non avrebbe mai potuto apprezzare le sfumature di colore nascoste tra i risvolti iridescenti di un vero sogno. “A ogni modo”, esclamò con la sua voce da baritono, “Nobile o angioletto, questo neonato deve avere un nome. Avete già pensato a qualche possibilità?”. “Francesco’ piace a entrambi. Vogliamo che questo piccolo sia luminoso come un papavero e non lasci mai dubbi sulla sua condotta…”, disse Saverio ostentando una certa soddisfazione per il suo eloquio da avvocato. “E Francesco sia!”, rispose il notaio che, pur chiamandosi Baldassarre, non avrebbe mai preteso che suo nipote fosse tanto appesantito da quel fardello patronimico, “Corri in municipio a fare il tuo dovere di padre! L’anagrafe è già aperta.
Noi resteremo qui ad assistere Lauretta”. Saverio si infilò il cappotto alla bell’e meglio e uscì nella viuzza mentre i primi raggi del sole iniziavano a dorare i mattoni screziati di ghiaccio, ma, non appena ebbe svoltato per imboccare la strada che l’avrebbe condotto al municipio, vide Don Michele, tutto trafelato, che si affrettava verso l’ambulatorio con una borsetta in mano. “Meno male che ti ho visto!”, esclamò, “È dunque nato?”. Il prete aveva saputo che l’ostetrica era stata svegliata per un’urgenza sul fare del giorno attraverso le puntuali informazioni di una sua parrocchiana che abitava nel suo stesso pianerottolo. “Sì, è nato, padre”, rispose Saverio, “E sto per dichiararlo ufficialmente come Francesco Malatesta! Lei, piuttosto, perché corre in questo modo?”. “Ho bisogno anche di te”, disse il sacerdote, “Rimanda a dopo quelle sciocche incombenze!”. “Di me? Guardi che in ambulatorio, oltre a Lauretta, ci sono mio suocero e mia madre. Se desidera vedere il bambino, troverà sufficiente compagnia”. “Non voglio vederlo…”, mormorò affannosamente l’uomo, “Voglio compiere il mio dovere e battezzarlo!”. “Battez- zarlo?”, chiese Saverio pensando che il prete avesse bevuto di buon’ora, “Tutta questa fretta per battezzarlo? Guardi che il piccolo gode di ottima salute e non ho nessuna intenzione di assecondare ulteriormente le sue follie!”. Don Michele aprì la bocca, ma ne uscì solo una nuvoletta di aria calda. Saverio gli passò accanto e proseguì scuotendo il capo per quell’inspiegabile assurdità. “Sarei io il folle?”, urlò il vecchio con il poco fiato che gli restava. “Mi ascolti”, esclamò Saverio voltandosi di scatto, “Prenda il suo armamentario e torni dalle comari che l’attendono per la prossima funzione. Mio figlio sarà battezzato a tempo debito”, e proseguì senza neanche osservare il mutare d’espressione nel volto sgomento del sacerdote. Non appena varcò la soglia del municipio, immettendosi nel cortiletto interno, Saverio notò che di fronte alla porta della sezione anagrafica c’erano soltanto due funzionari, neri in volto e intenti a confabulare.
Non appena lo videro, uno dei due, responsabile di tutti i certificati emessi dall’ufficio, lo salutò distrattamente: “Viene presto solo per qualche pezzo di carta…”. “Veramente”, rispose Saverio ansimando per la corsa, “Sono qui per registrare la nascita di mio figlio, Francesco Malatesta!”. I due si osservarono di nuovo e subito l’altro, che poteva essere sia un dirigente che un usciere, esclamò: “Allora è un brutto guaio… Marchesi, il funzionario incaricato di queste registrazioni è purtroppo venuto a mancare stanotte. Il segretario comunale è appena andato a casa sua per accertarsi che non serva nulla. Sa, il commendatore viveva solo da anni…”. “Mi dispiace per Marchesi”, disse Saverio corrugando la fronte, “Ma sinceramente, e perdonatemi se sono troppo ingenuo, non capisco come ciò possa impedirmi di compiere il mio dovere di padre…”. Il funzionario dell’anagrafe, come se non avesse udito alcunché, continuò il discorso del collega: “Sì, viveva solo da quando la prima moglie l’aveva lasciato. Poveretto… Ma poi, perché poveretto? Aveva la sua età, era giusto che prima o poi tirasse le cuoia. Stamattina la sua domestica l’ha trovato nel letto, duro come uno stoccafisso anche se lei dice che pareva che dormisse… A me sembra strano.
Quando si muore non si può sembrare tanto rilassati, o mi sbaglio Giovanni?”. Saverio era ormai sul punto di menare le mani: “Ma mi state ad ascoltare? Marchesi è morto, d’accordo. Tutti moriamo. Ma mio figlio è nato! Capite quello che vi sto dicendo?”. “Figliolo”, rispose l’uomo chiamato Giovanni, “L’unico autorizzato a portare a termine quel compito era Marchesi. Conosci le regole… Il tabellone è lì, a pochi metri. Senza una decisione del sindaco o del segretario comunale, nessuno può prendere il suo posto, neanche il qui presente, esimio Marinoni, che per anni ha condiviso la stanza di lavoro con lui…”.
“Per carità, per carità!”, esclamò il prete scacciando con la mano proprio quanto aveva pazientemente raccolto la sera precedente, “Non pensare che a me interessino quelle infime chiacchiere! Ricorda che io rispondo solo al vescovo, non al segretario comunale o al sindaco. Il mio interesse nei vostri confronti è esclusivamente spirituale..”. “Spirituale…”, ribatté Saverio, “Dai suoi toni, mi sembra proprio che lei andrebbe a sindacare perfino la gravidanza di Maria! Ma non si ricorda ciò che disse durante la funzione?”. Il prete andò su tutte le furie: “Non essere blasfemo! Giuseppe non fornicò con Maria. Egli accettò da uomo pio un gravoso dovere richiestogli dall’alto. Tu, invece…”. “Io, invece?”. “Tu hai concupito e ingravidato quella giovane!”, esclamò il vecchio strabuzzando gli occhi, “E ci sono figli e figli… Il vostro è…”, incespicò sulle ultime parole e rimase immobile come se volesse soppesare quanto desiderava più d’ogni cosa dire, “…Sì, in verità… È del tutto sbagliato!”. Saverio lo fissò per qualche istante e poi scoppiò a ridere: “Padre, ho la netta impressione che lei sia ubriaco”, e con la mano si indicò la tempia, “Forse non si rende neanche conto delle sciocchezze che sta dicendo…”. “Ricordati che stai parlando con un ministro della Chiesa”, rispose il prete reprimendo la rabbia tra i denti malandati, “Ma comunque, questo non importa… Dimmi, tu e quella brava giovane avete dunque intenzione di trasferirvi in città…”.
“E chi le ha raccontato questa storia? Forse Lauretta?”, chiese Saverio intuendo l’antifona del prete. Questi, vedendosi in palese difficoltà, cercò di far leva sulla sua età per dispensare l’ennesimo consiglio della giornata: “No, no… È solo una mia idea. Pensavo che voleste far crescere il vostro piccolo in un ambiente più consono”. “Padre”, rispose l’uomo con la serafica ostinazione dei contadini, “San Balderico è un posto più che consono per un neonato. La ringrazio per il suo interessamento, ma adesso, la prego, le mie attività richiedono un impegno costante…”, e, proprio come Lauretta con la signora Di Lorenzo, lo liquidò senza troppe cerimonie. Il piccolo nacque cinque mesi dopo, quando l’inverno ormai imperversava e i focolari, nelle case avvolte dalla nebbia, risplendevano di una luce spavalda. Non appena la moglie ebbe manifestato le prime avvisaglie, Saverio, solido come una roccia, l’aveva avvolta in una coperta e, sostenendola come si fa con un uomo claudicante, l’aveva accompagnata nel piccolo ambulatorio che fungeva da ospedale di primo soccorso. L’ostetrica giunse poco dopo, stropicciandosi gli occhi e sbadigliando: “Finalmente questo bambino ha deciso di constatare quant’è noiosa San Balderico?”, disse a Lauretta abbozzando un sorriso, “Bene, mia cara… Iniziamo”. Dopo poco più di un’ora di travaglio, la giovane mise al mondo un neonato di tre chili e Saverio, che era rimasto in anticamera per paura di innervosire la moglie, quasi svenne nel vedere come quel gesto così fugace e sublime si fosse trasformato in una così perfetta opera della natura.
Il notaio, accanto a lui, squadrò i lineamenti rosei e tondeggianti del neonato ed esclamò: “Ha proprio l’aria nobiliare!”. La madre di Saverio, che, a dire il vero, non era mai stata considerata come una massaia, rispose senza esitare: “Io preferisco pensare che abbia il volto di un angioletto, anche se non ne ho mai visto uno… Non avrò certamente la sua cultura, ma cosa c’è di più nobile di un neonato?”. L’uomo storse il naso, pensando tra sé che una donna di campagna, benché dotata della concretezza di una vita senza sconti, non avrebbe mai potuto apprezzare le sfumature di colore nascoste tra i risvolti iridescenti di un vero sogno. “A ogni modo”, esclamò con la sua voce da baritono, “Nobile o angioletto, questo neonato deve avere un nome. Avete già pensato a qualche possibilità?”. “Francesco’ piace a entrambi. Vogliamo che questo piccolo sia luminoso come un papavero e non lasci mai dubbi sulla sua condotta…”, disse Saverio ostentando una certa soddisfazione per il suo eloquio da avvocato. “E Francesco sia!”, rispose il notaio che, pur chiamandosi Baldassarre, non avrebbe mai preteso che suo nipote fosse tanto appesantito da quel fardello patronimico, “Corri in municipio a fare il tuo dovere di padre! L’anagrafe è già aperta.
Noi resteremo qui ad assistere Lauretta”. Saverio si infilò il cappotto alla bell’e meglio e uscì nella viuzza mentre i primi raggi del sole iniziavano a dorare i mattoni screziati di ghiaccio, ma, non appena ebbe svoltato per imboccare la strada che l’avrebbe condotto al municipio, vide Don Michele, tutto trafelato, che si affrettava verso l’ambulatorio con una borsetta in mano. “Meno male che ti ho visto!”, esclamò, “È dunque nato?”. Il prete aveva saputo che l’ostetrica era stata svegliata per un’urgenza sul fare del giorno attraverso le puntuali informazioni di una sua parrocchiana che abitava nel suo stesso pianerottolo. “Sì, è nato, padre”, rispose Saverio, “E sto per dichiararlo ufficialmente come Francesco Malatesta! Lei, piuttosto, perché corre in questo modo?”. “Ho bisogno anche di te”, disse il sacerdote, “Rimanda a dopo quelle sciocche incombenze!”. “Di me? Guardi che in ambulatorio, oltre a Lauretta, ci sono mio suocero e mia madre. Se desidera vedere il bambino, troverà sufficiente compagnia”. “Non voglio vederlo…”, mormorò affannosamente l’uomo, “Voglio compiere il mio dovere e battezzarlo!”. “Battez- zarlo?”, chiese Saverio pensando che il prete avesse bevuto di buon’ora, “Tutta questa fretta per battezzarlo? Guardi che il piccolo gode di ottima salute e non ho nessuna intenzione di assecondare ulteriormente le sue follie!”. Don Michele aprì la bocca, ma ne uscì solo una nuvoletta di aria calda. Saverio gli passò accanto e proseguì scuotendo il capo per quell’inspiegabile assurdità. “Sarei io il folle?”, urlò il vecchio con il poco fiato che gli restava. “Mi ascolti”, esclamò Saverio voltandosi di scatto, “Prenda il suo armamentario e torni dalle comari che l’attendono per la prossima funzione. Mio figlio sarà battezzato a tempo debito”, e proseguì senza neanche osservare il mutare d’espressione nel volto sgomento del sacerdote. Non appena varcò la soglia del municipio, immettendosi nel cortiletto interno, Saverio notò che di fronte alla porta della sezione anagrafica c’erano soltanto due funzionari, neri in volto e intenti a confabulare.
Non appena lo videro, uno dei due, responsabile di tutti i certificati emessi dall’ufficio, lo salutò distrattamente: “Viene presto solo per qualche pezzo di carta…”. “Veramente”, rispose Saverio ansimando per la corsa, “Sono qui per registrare la nascita di mio figlio, Francesco Malatesta!”. I due si osservarono di nuovo e subito l’altro, che poteva essere sia un dirigente che un usciere, esclamò: “Allora è un brutto guaio… Marchesi, il funzionario incaricato di queste registrazioni è purtroppo venuto a mancare stanotte. Il segretario comunale è appena andato a casa sua per accertarsi che non serva nulla. Sa, il commendatore viveva solo da anni…”. “Mi dispiace per Marchesi”, disse Saverio corrugando la fronte, “Ma sinceramente, e perdonatemi se sono troppo ingenuo, non capisco come ciò possa impedirmi di compiere il mio dovere di padre…”. Il funzionario dell’anagrafe, come se non avesse udito alcunché, continuò il discorso del collega: “Sì, viveva solo da quando la prima moglie l’aveva lasciato. Poveretto… Ma poi, perché poveretto? Aveva la sua età, era giusto che prima o poi tirasse le cuoia. Stamattina la sua domestica l’ha trovato nel letto, duro come uno stoccafisso anche se lei dice che pareva che dormisse… A me sembra strano.
Quando si muore non si può sembrare tanto rilassati, o mi sbaglio Giovanni?”. Saverio era ormai sul punto di menare le mani: “Ma mi state ad ascoltare? Marchesi è morto, d’accordo. Tutti moriamo. Ma mio figlio è nato! Capite quello che vi sto dicendo?”. “Figliolo”, rispose l’uomo chiamato Giovanni, “L’unico autorizzato a portare a termine quel compito era Marchesi. Conosci le regole… Il tabellone è lì, a pochi metri. Senza una decisione del sindaco o del segretario comunale, nessuno può prendere il suo posto, neanche il qui presente, esimio Marinoni, che per anni ha condiviso la stanza di lavoro con lui…”.
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