Un castello
in Italia Un film di Valeria Bruni Tedeschi
Articolo di Daniel Montigiani
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Valeria Bruni Tedeschi, eccellente attrice che non dispiacerebbe affatto a un regista come Woody Allen e la cui frenetica e apparentemente apatica presenza nobiliterebbe discretamente anche il film meno riuscito del cineasta americano, è una di quelle registe (anzi, attrici-registe) che tratta, usa i propri film come ingombranti stanze della sua metaforica casa in fieri, che considera le sue inquadrature e il loro contenuto come suo nevrotico (eppure) delizioso arredamento.
I pezzi della sua filmografia, per quanto pochi, visti nella loro piccola globalità, comunicano fra di loro, e per questo si ha a che fare con opere che, almeno di base, sono certamente diverse fra loro pur paradossalmente assomigliandosi non poco. In un Castello in Italia l’attrice-regista fa scattare specifici o generici atteggiamenti ed episodi che rimandano alle sue opere precedenti: la “questione” della sua ricchezza parzialmente connessa con il suo senso di colpa, ad esempio, è un tema che, in maniera strisciante o più esplicita, si “auto rincorre” attraverso l’area delle sue tre opere. In una delle prime scene del suo interessante esordio (È più facile per un cammello…), infatti, fra l’ironico e una sofferenza tanto sentita quanto delicata d’aspetto, in primo piano la Tedeschi sostiene di non amare molto il fatto di essere troppo ricca.
Ebbene, (meta) cinematograficamente parlando tra il serio e lo scherzoso, si potrebbe essere portati a dire che questo nuovo film sembra paradossalmente venire incontro al suo senso di colpa per la sua eccessiva ricchezza, dato che uno dei centri narrativi più sensibili di quest’opera ha proprio a che fare con le non indifferenti difficoltà economiche della sua famiglia che la costringono a dedicare abbondanti pensieri alla possibile vendita del castello di famiglia in Italia nella località vendita del castello di famiglia in Italia nella località piemontese di Castagneto Po. Il seme che fa nascere e sviluppare in maniera nevroticamente rigogliosa la base del film è soprattutto una crisi esistenziale, difficoltà gonfiata non soltanto dal suo cognome decaduto e dalle questioni economiche del castello, ma anche dal dolore per l’amato fratello Ludovic malato di aids (Filippo Timi) e dalla tragicomica nascita di un’anomala e tormentata relazione con l’attore Nathan (Louis Garrel).
La “facciata” principale e il cuore più che esposto di questo film, come del resto nei due precedenti, è proprio l’ottima presenza-performance dell’attrice che non fa altro che confermarsi memorabile “principessa dei nervi”, il cui comportamento deliziosamente grottesco in equilibrio un po’ franante fra ironia e dramma riflette quello dell’atmosfera della pellicola, una dualità questa del dolore alternato con rapida e spontanea fatica alla risata inaspettata e improbabile già presente nelle sue prime due opere. Tuttavia, rispetto alle altre due pellicole, la parte drammatica, aspra e soprattutto amara prevale su quella più “comica”.
Certo, ci vengono presentate in più occasioni alcune scene di un grottesco di finissimo divertimento come la sequenza parzialmente velocizzata del “combattimento” in chiesa a Napoli fra l’attrice e le suore (scena che davvero non si sarebbe mal inserita in alcuni film di Almodovar o, per rimanere nell’Italia contemporanea, di Corsicato), ma tutto il film è comunque fitto di una tristezza un po’ movimentata e rigata che, nonostante le apparenze, prevale sul resto delle atmosfere.
Ma il migliore momento-inquadratura del film non sembra avere a che fare né con un senso del dramma né del grottesco più divertente e divertito: poco dopo l’inizio del film, i due fratelli in mezzo primo piano si incontrano quasi per caso in un corridoio silenzioso del castello, e dopo un’iniziale clima scherzoso, in teso mutismo si baciano sfio- randosi con le labbra.
In seguito, decidendo di rievocare una sorta di strana finzione e gioco che mettevano in scena quando erano ragazzini, il fratello le stringe le mani attorno al collo con un principio di strozzamento, con la protagonista concentrata e a occhi chiusi che reagisce chiedendogli di stringere più forte. Un’immagine questa dunque che si caratterizza per un’accennata e assolutamente inquietante ambiguità, con la messa in scena di un rapporto fra personaggi e luoghi quasi segreti della casa che potrebbe per esempio evocare momenti de La balia di Bellocchio (giusto per citare un titolo con la Tedeschi protagonista).
Un’ambiguità che, senza esagerare, Valeria Bruni Tedeschi avrebbe potuto spargere maggiormente per accrescere l’atmosfera del film e renderlo ancora più interessante.
Un’ambiguità che, senza esagerare, Valeria Bruni Tedeschi avrebbe potuto spargere maggiormente per accrescere l’atmosfera del film e renderlo ancora più interessante.
Daniel Montigiani
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