Revue Cinema Sezione diretta da Daniel Montigiani
Miss
Violence Un film di
Alexandros Avranas Articolo di Daniel Montigiani
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In un qualsiasi più che decente appartamento dalle tonalità bianche di un qualsiasi più o meno decente condominio vicino al centro una famiglia greca sta festeggiando il compleanno dell’undicenne Aggelikki. Ma proprio durante lo svolgimento della festa la piccola Angelikki sale sulla finestra, e mentre il resto della famiglia è preso da una bislacca danza che segue il ritmo di una gioiosa canzone, con uno strano, quasi liberato e liberatorio sorriso si getta per poi morire sul colpo. Dopo un principio di shock in parte semplicemente apparente, l’inizialmente festoso “padre di famiglia” riacquista la sua rischiosa severità, inutilmente si illude e illude gli altri componenti dicendo loro che la morte di Angelikki non è stato un suicidio bensì un incidente, per finire poi ad accusare le più giovani secondo lui “colpevoli” di non aver visto la sorellina avvicinarsi alla finestra. In seguito a questi iniziali, sconvolgenti novità, soprattutto il “leader” della famiglia fa ben presto in modo che, almeno sulla preziosa superficie, nell’atmosfera di famiglia si faccia finta di niente. Ma quale motivo ha spinto in realtà Aggelikki a compiere un gesto così estremo?
Miss Violence, ottima seconda prova del greco Avranas, Leone d’argento per la regia e Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, con un saggio approccio glaciale teorico e pratico fa in modo che la tensione nasca dalla silenziosa ma vorace caratteristica del non detto (o del “non ancora detto”), tanto che i nostri occhi potrebbero persino essere spinti a pensare di trovarsi più a disagio di fronte alle scene in cui lo spaventoso eccesso accade in silenzio, fuori campo, al riparo e al sicuro dalla visibile esposizione dell’inquadratura che non a quelle assai meno numerose che mostrano i momenti esplicitamente forti.
Miss Violence, ottima seconda prova del greco Avranas, Leone d’argento per la regia e Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, con un saggio approccio glaciale teorico e pratico fa in modo che la tensione nasca dalla silenziosa ma vorace caratteristica del non detto (o del “non ancora detto”), tanto che i nostri occhi potrebbero persino essere spinti a pensare di trovarsi più a disagio di fronte alle scene in cui lo spaventoso eccesso accade in silenzio, fuori campo, al riparo e al sicuro dalla visibile esposizione dell’inquadratura che non a quelle assai meno numerose che mostrano i momenti esplicitamente forti.
Altre parole di Avranas
durante la conferenza stampa al Lido come «da qualche parte, vicino al
centro della città, colorati palazzi creano un mondo grigio» fanno
sinteticamente ben capire come la glacialità e lo spietato grigio
non-detto (e detto) di questa famiglia (ma il discorso può anche essere
allargato in molti casi alla famiglia tout court) siano caratteristiche ben esplicitate anche a livello dell’atmosfera dell’immagine: più volte, attraverso immobili campi totali e lunghi, ci vengono forniti interni di un bianco quasi “luminoso”, “sveglio”, ma che a guardarlo meglio si rivela opaco, un colore che qui mostra le sue metaforiche caratteristiche di cadaverica pericolosità. Abbiamo ad esempio il bianco alienante dell’appartamento della famiglia, quello altrettanto allucinato della stanza dell’ufficio in cui per un periodo il “leader” della famiglia fa il notaio, quello del carcere.
Senza indigesti esibizionismi di talento, Avranas si rivela capace di “avvitare” il profilmico secondo uno schema magistralmente incastrante, sottoponendo cioè le inquadrature ad architetture simili fra loro, a una statica e severa simmetria degli interni, riuscendo così volontariamente a far sembrare la casa, l’ufficio e il carcere lo stesso identico luogo. Va dunque da sé che in questo modo si fa emergere l’intenzione di mostrare come l’“architettura” di questa famiglia (e del suo essere istituzione) sia asfissiante come quella di un carcere o di un respingente e sterile ufficio.
A causa di questa bravura del non detto di Avranas, diversi critici hanno paragonato Miss Violence alle ferme atmosfere dei film di Haneke (ma potremmo allargarci e metterci anche quelli di Seidl), aggiungendo però che manca l’ironia nera del famoso regista austriaco.
Senza indigesti esibizionismi di talento, Avranas si rivela capace di “avvitare” il profilmico secondo uno schema magistralmente incastrante, sottoponendo cioè le inquadrature ad architetture simili fra loro, a una statica e severa simmetria degli interni, riuscendo così volontariamente a far sembrare la casa, l’ufficio e il carcere lo stesso identico luogo. Va dunque da sé che in questo modo si fa emergere l’intenzione di mostrare come l’“architettura” di questa famiglia (e del suo essere istituzione) sia asfissiante come quella di un carcere o di un respingente e sterile ufficio.
A causa di questa bravura del non detto di Avranas, diversi critici hanno paragonato Miss Violence alle ferme atmosfere dei film di Haneke (ma potremmo allargarci e metterci anche quelli di Seidl), aggiungendo però che manca l’ironia nera del famoso regista austriaco.
Ora, se facciamo ben attenzione a certe sfumature noteremo che in realtà qualche potente principio di scurissima e tragicissima ironia è presente in questa pellicola, come il fatto che soprattutto i componenti adulti dell’“allegra famigliola” durante l’iniziale festa di compleanno vengano ridicolizzati at- traverso il loro breve ma grottesco ballo sulle note di una canzone spensierata.
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Ancora più sottilmente e grottescamente ironica è il fatto che, sempre durante la festa, i “grandi” della famiglia non si accorgano (fingono di non accorgersi) dell’aspetto pallido, funereo e tristemente inquietante delle sorelline, qui davvero così simili a smunti fantasmi da sfiorare l’idea dell’assenza e dell’invisibilità. E ancora, come non considerare grottescamente, tragicamente beffardo il fatto che con uno stacco, con un rapido cambio di scena si passi da una violenza sessuale a una minipanoramica della famiglia che fa normalmente colazione quasi tranquillamente, quasi come se il regista volesse proporre una versione terrificante e un poco demenziale di certe famose pubblicità con case calorosamente abitate?
Ma il punto migliore e più indirettamen- te feroce raggiunto dall’azione tragicamente ironica di Avranas viene toccato quando alcuni membri della famiglia, distrattamente o forse no, guardano in televisione dei documentari sulle scimmie chiassose e un po’ ridenti, come se, tra le possibili metafore, questi animali. fra
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una libera liana e l’altra, volessero prendere in giro anche il “leader” della famiglia, mostrandogli che per quanto abbia il comando, sia comunque anche lui a suo modo vittima di quell’ingranaggio-famiglia da lui inizialmente azionato (e il finale liberatorio sembra confermare ciò).
Daniel Montigiani
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