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Il capitale
umano Un film di Paolo Virzì
Articolo di Daniel Montigiani
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Una macchina tanto violenta quanto anonima e misteriosa che sfreccia di sera in una strada semideserta nei pressi del Lago di Como investe gravemente un cameriere in bicicletta che stava facendo ritorno a casa dal lavoro, non si ferma, prosegue, scompare. Un evento, questo, che risulterà presto essere collegato direttamente e indirettamente a una serie di storie, di accaduti delle ricche famiglie dei Bernaschi e degli Ossola in notevoli difficoltà economiche. Con questa sorta di thriller, Virzì sviscera descrizioni di pezzi di umanità (brianzese, qui, ma che, fatta eccezione per alcuni dettagli “padani”, potrebbe appartenere a qualsiasi altro posto) e del luogo con metodi di certo non nuovi o straordinariamente notevoli, rocamboleschi, ma di sicuro lo fa in maniera assolutamente riuscita, perfettamente efficace, sanamente molto disturbante, riuscendo a tirare fuori insetti dai comportamenti e dalle apparenze degli altri.
Prima di tutto il regista livornese si dimostra ottimo orchestratore di attori, che qui, spesso come soprattutto nel caso di Fabrizio Bentivoglio (che interpreta il tanto sorridente quanto deprimente e arrivista Dino) e Fabrizio Gifuni (Bernaschi, squallido e sottilmente spietato imprenditore della finanza), sono incaricati di abitare personaggi capaci talvolta di una furbizia essenzialmente laida rozza nel
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suo
essere balcone di banalità feroci e tossiche, con muffa castrante che si
nasconde - nemmeno poi tanto bene - a pochi centimetri sotto l'interno
dei loro sorrisi di convenienza, esempi di mali portati da diavoli squallidamente provinciali, che per stare sul pacchiano podio del vivere bene scelgono di applicare accurate distruzioni anche ai cosiddetti “affetti”. L’interno della “sezione recitazione” è reso alto anche dalla zona femminile, certamente sprovvista dei sottili orrori di molti dei personaggi maschili, ma non priva di difetti e “zone sbagliate”, come quello di Valeria Golino che interpreta la moglie di Dino, psicologa la cui tenera distrazione sembra impedirle di capire la dura, grottesca e pericolosa volgarità del marito e ciò che sta accadendo alla figlia Serena. Ma è l’eccezionale e ambigua interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi/Carla che, forse, merita qui un’attenzione un poco più sofisticata: moglie nevrotica ma premurosa di Bernaschi, essa si svela nemmeno tanto tardi come essere umano frustrato, una volta appartenente alla creativa e soddisfacente libertà del mestiere di attrice teatrale che adesso si trova ormai da tempo inserita nello spazio indubbiamente rassicurante ma soffocante, frustrante della condizione di donna borghese (non a caso, la vediamo per la prima volta in campo lungo sulla porta della sua villa, simile a una stanghetta che si limita ad esistere e che tenta inconsciamente di ritrasformarsi in vero essere umano).
Carla, con un marito accanto la cui volgarità gli fa chiedere perché mai lei debba far investire soldi per il recupero di un teatro storico ormai a pezzi della provincia, unica presenza a tentare di ricordare e di ricordarsi che l’Arte (teatrale, in questo caso) può avvelenare beneficamente lo squallore, lei che si trova perennemente circondata in famiglia e fuori spesso da persone che riescono ad essere
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rozze con pochi gesti; lei che con il suo
rapporto “colto-amoroso” con il docente di teatro (un ottimo Luigi Lo
Cascio) tenterà di applicare una epoqué, una sospensione della condizione comoda ma in realtà rugginosa della propria borghesia. Lei che, insieme al personaggio interpretato da Lo Cascio, all’interno di un contesto in realtà avvilente, grazie soprattutto ai fertili muscoli facciali della sua voglia di recitazione, riesce almeno per un poco a fondare momenti di poesia e delicatezza. Virzì, inoltre, riesce con discreto successo a mostrare lo spietato talento glaciale di cui un luogo, una zona – la Brianza, appunto, in questo caso – è capace nonostante la ricchezza rassicurante e monotona del lusso, delle ville a schiera, dei negozi di valore, dimostrandosi persino una sorta di Chabrol italiano nella descrizione di queste atmosfere provinciali.
Il Capitale umano marcia con un corpo di cinema essenzialmente
classico, “pulito”, che si basa però su una certa finezza compositiva data, ad
esempio, da alcune riprese collettive dall’alto dal fare maestoso, da una tesa
struttura riscaldata da sospensioni, dal fastidioso e strozzante fascino del
non detto che fa emergere nello spettatore desiderosi punti interrogativi, ma
anche e soprattutto da una peculiare struttura temporale,
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che si basa sulla ripetizione degli stessi accadimenti ma ripresi e riproposti da diversi punti di vista, da un uso del flashforward e delle elissi, una peculiarità questa che non confonde, ma, al contrario, progressivamente aiuta a chiarire i fatti e a generare ulteriore tensione. Magari non proprio un capolavoro (le dinamiche dei rapporti fra la figlia degli Ossola - Carla - e il “dark” e sregolato Luca nell’ultima parte sembrano sciupare un poco la maestosità grottesca del film), ma con Il capitale umano il cinema italiano inizia indubbiamente con una certa fine consistenza questo 2014.
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Daniel Montigiani
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Scrivono in PASSPARnous: k
Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Alessandro Rizzo, Fabio Treppiedi, Silverio Zanobetti, Sara Maddalena, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Alessia Messina, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Enrico Pastore, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Francesco Panizzo.
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