La venere
in pelliccia Un film di Roman Polanski
Articolo di Daniel Montigiani
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Il drammaturgo Thomas (Mathieu Amalric) non riesce a trovare la protagonista per portare finalmente in scena un testo ispirato a Venere in pelliccia di Sacher Masoch. Inaspettatamente, in una grigia giornata di pioggia in maniera pacchianamente buffa, naturalmente, distrattamente insolente si presenta la volgarotta “bitch” Vanda (Emmanuelle Seigner) – incarnazione di tutto ciò che Thomas detesta – convinta di essere perfetta per la parte. Thomas, dopo un’iniziale serie di dubbi tanto profondi quanto scocciati, non soltanto si renderà conto delle effettive capacità dell’attrice, ma dal disprezzo svilupperà per lei un’irta, terremotante ossessione.
Si comincia con una violenta, bizzosa carrellata in avanti che include un piccolo, anonimo viale alberato di una zona non centrale di Parigi. Subito dopo, alla stessa bislacca velocità, la carrellata “si sposta” bruscamente verso destra, attraversa la strada, “apre” l’ingresso principale del teatro dove si svolgerà l’azione (forse una personale citazione della soggettiva dell’assassino di Profondo rosso quando entra nel teatro rosso?).
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L’incipit del film, nella sua schiaffeggiante immediatezza che si versa nello spettatore, che costringe quest’ultimo all’attivazione dell’attenzione e dell’emozione, è come un ricco contenitore di riflessioni in contrasto fra di loro: da una parte, infatti, l’“interessante spigliatezza” di questa sorta di movimento a L della macchina da presa (che potrebbe benissimo coincidere con la soggettiva stilistica della protagonista che sta per entrare nella futura “zona di guerra”) si presenta come un ottimo inizio, facendo magari attendere chissà quali altre affascinanti acrobazie di regia. Dall’altra, invece, tale carrellata iniziale a L costituisce un’ottima sintesi della sofisticata giocosità “dark” che entro pochi secondi ricoprirà il film per tutto il resto della sua durata.
Tuttavia, purtroppo, questa peculiare atmosfera della pellicola fra l’oscuro e il perversamente giocoso non dà l’impressione di funzionare particolarmente, ma non (tanto) perché i film di Polanski di impronta grottesca-ironica non hanno mai raggiunto la bellezza di quelli quasi unicamente più torbidi ed “estremi” (Per favore, non mordermi sul collo! non potrà certo mai essere considerato alla pari di altezze come Repulsion o L’inquilino del terzo piano), ma anche perché questo incontro fra oscurità scabrosa che progressivamente svela il proprio sadismo e giocosa, grottesca ironia sembra assomigliare, ad esempio, al Tim Burton meno interessante.
Con questa peculiare, grottesca unione Polanski dà vita a una “darkness” di gomma, pacchianamente scherzosa, un po’ sterile, alimentata dall’innocua atmosfera del “fascino” del piccolo teatro un po’ malandato e dai discorsi talvolta noiosi dei due protagonisti. Appunto: la direzione da parte di Polanski dei discorsi dei due è forse il punto assolutamente più labile (e più pesante allo stesso tempo), quello che non permette al film di imporsi veramente: nel precedente Carnage Polanski era riuscito a trasformare i dialoghi dei personaggi nel ristretto spazio dell’appartamento parigino in una zona nervosamente discussa, assolutamente cinematografica, dove le frasi davano alle inquadrature e alle scene un qualche moto di corsa tesa, dove si autonutriva progressivamente un movimento originato dai rapporti spaziali e interpersonali fra i personaggi.
Tuttavia, purtroppo, questa peculiare atmosfera della pellicola fra l’oscuro e il perversamente giocoso non dà l’impressione di funzionare particolarmente, ma non (tanto) perché i film di Polanski di impronta grottesca-ironica non hanno mai raggiunto la bellezza di quelli quasi unicamente più torbidi ed “estremi” (Per favore, non mordermi sul collo! non potrà certo mai essere considerato alla pari di altezze come Repulsion o L’inquilino del terzo piano), ma anche perché questo incontro fra oscurità scabrosa che progressivamente svela il proprio sadismo e giocosa, grottesca ironia sembra assomigliare, ad esempio, al Tim Burton meno interessante.
Con questa peculiare, grottesca unione Polanski dà vita a una “darkness” di gomma, pacchianamente scherzosa, un po’ sterile, alimentata dall’innocua atmosfera del “fascino” del piccolo teatro un po’ malandato e dai discorsi talvolta noiosi dei due protagonisti. Appunto: la direzione da parte di Polanski dei discorsi dei due è forse il punto assolutamente più labile (e più pesante allo stesso tempo), quello che non permette al film di imporsi veramente: nel precedente Carnage Polanski era riuscito a trasformare i dialoghi dei personaggi nel ristretto spazio dell’appartamento parigino in una zona nervosamente discussa, assolutamente cinematografica, dove le frasi davano alle inquadrature e alle scene un qualche moto di corsa tesa, dove si autonutriva progressivamente un movimento originato dai rapporti spaziali e interpersonali fra i personaggi.
Qui, invece, la parola non diventa cinema: a eccezione degli ultimi venti minuti, durante i quali, con un notevole climax, il contenuto dello schermo si fa inaspettata piattaforma di scoppi non previsti, Venere in pelliccia quasi da subito si sistema e si crogiola nella poco interessante (e comune) malattia del teatro filmato. |
Ma ciò che si distende in modo certamente mirabile nella casa-teatro un po’ malandata di questo film è l’interpretazione di Emmanuelle Seigner: nel giro di scarsi istanti con schiuso, devastante e sorprendente entusiasmo esce dalla dimensione di ragazzotta qualunque, di classica bitch per raggiungere quella più ampia e grandiosamente estenuante della maitresse che impone la propria cifra baudeleriana, persino colta, “sociologica” della femme fatale, della dark lady.
Insomma, il film di Polanski pare accontentare non tanto chi si attende dell’erotismo, perversione o chissà quale rigogliosa analisi sociologica, bensì chi si lascia camminare sugli occhi dalle ottime performance degli attori (Seigner in primis) e, secondariamente, da chi vuole avere a che fare con discorsi sulla decadenza dei tempi odierni.
Insomma, il film di Polanski pare accontentare non tanto chi si attende dell’erotismo, perversione o chissà quale rigogliosa analisi sociologica, bensì chi si lascia camminare sugli occhi dalle ottime performance degli attori (Seigner in primis) e, secondariamente, da chi vuole avere a che fare con discorsi sulla decadenza dei tempi odierni.
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Daniel Montigiani
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