È andato in scena Fino al 19 gennaio al Teatro Vascello di Roma Fratto X, il quarto ed ultimo spettacolo dell’Antologia di Antonio Rezza e Flavia Mastrella iniziata lo scorso 11 dicembre con Fotofinish, proseguita con Bahamuth e 7-14-21-28, tutti lavori prodotti dal duo artistico nel corso dei primi dieci anni del Duemila.
non solo dell’atto del ridere, dell’assistere alla realtà demenziale della società, ma anche della sorpresa, dell’inatteso scioccante. Infatti, l’aspetto del palcoscenico nei primi minuti dello spettacolo è apparentemente minimale, di un’esenzialità assolutamente calma: due teli bianchi sul fondo, quasi ai margini, poco distanziati l’uno dall’altro, simili a due insospettabili rettangoli, a due porte apaticamente inespressive poste a pochi metri di distanza da Rezza che ha già dato inizio al suo impegnativo caos. Fra i due teli, ancora più sul fondo, pulsa la visione di una sorta di sedia kitsch dotata di ruote. Ma, inaspettatamente, pochi minuti dopo l’inizio, i due tessuti vengono tirati e incrociati a formare le due parti di una ingombrante e sinuosa X che occuperà buona parte dello spettacolo, e con la quale l’artista instaura un rapporto visivamente e tattilmente piuttosto intimo, entrandoci, deformandone l’aspetto talvolta facendola assomigliare a un tesissimo eppure drasticamente buffo ritrovo di teli, facendosene inghiottire talora completamente o lasciando fuori soltanto il volto, in quest’ultimo caso finendo per assomigliare al personaggio di Igor di Frankenstein Junior di Mel Brooks. Quelli che dunque, sembravano bianchi, anonimi teli quasi decorativi, una volta assunta la movimentata forma di X, vanno a costituire insieme al corpo e alla recitazione di Rezza il motore principale di questo delirio articolato, elastico, gommoso, fagocitante e auto-fagocitante.
Si potrebbe paradossalmente e provocatoriamente affermare che nemmeno la stessa folle e persino talvolta disturbante presenza-Rezza - perlopiù abbigliato da metal sui generis con dei pantaloni neri e delle sorte di fasce scure sul petto - sappia che cosa, chi stia interpretando, se non, attraverso vari episodi, una mutante, terremotante galleria di svariati personaggi psicopatici (come gli anonimi Mario, Rocco e Rita, l’incarnazione dell’Ansia, una sindone…) che spesso niente hanno a che fare l’uno con l’altro, che sembrano essere da sempre nati sul palcoscenico con l’involontario fine di trovarsi all’interno di una marginalità sconvolgente.
Si potrebbe paradossalmente e provocatoriamente affermare che nemmeno la stessa folle e persino talvolta disturbante presenza-Rezza - perlopiù abbigliato da metal sui generis con dei pantaloni neri e delle sorte di fasce scure sul petto - sappia che cosa, chi stia interpretando, se non, attraverso vari episodi, una mutante, terremotante galleria di svariati personaggi psicopatici (come gli anonimi Mario, Rocco e Rita, l’incarnazione dell’Ansia, una sindone…) che spesso niente hanno a che fare l’uno con l’altro, che sembrano essere da sempre nati sul palcoscenico con l’involontario fine di trovarsi all’interno di una marginalità sconvolgente.
La recitazione-esposizione di Rezza è una sorta di ring su cui si sfidano il comico e anche sgradevole delirio dei gesti e quello delle parole, per poi arrivare ad una corroborante vittoria ex aequo. Ad accompagnare il suo essere bestiale e invasivo, infatti, vi sono delle comunissime frasi che espongono altrettanto comu- nissime, piccole situazioni – come quelle di Rocco e di Rita – ma che, grazie alla voce e alla recitazione di Rezza, finiscono per divenire pezzi di assurdità del quotidiano provenienti dagli universi di Tzara o Ionesco, un modo pericolosamente efficace di infastidire artisticamente l’arretratezza e la pericolosità del quotidiano della (nostra) società. L’espressività di Rezza, che si trovi sotto un’illuminazione bianca, gialla, surrealmente blu e rossa, emana sempre costruzioni ingombranti di sé per tutta l’atmosfera del palcoscenico,
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è così potente da poter persino essere considerata sinestesica, come se non si limitasse ad essere vista sul suo volto e sul suo corpo, sentita attraverso la sua voce che va dal cavernoso ad uno stridulare maschile e femminile che a momenti arriva persino a fare quella della sua “donna” e della bizzarra macchina bianca con palloncino, ma anche toccata, annusata nel suo tanfo beneficamente distruttore, catartico, anarchico. Il performer qui è portatore di un delirio-contenitore, che incorpora varie caratteristiche: da una parte, infatti, la presenza-recitazione di Rezza è un esempio di altissimo, persino sorprendente elogio dell’espressività e delle sue capacità, dall’altra, invece, attraverso la continua rappresentazione della demenzialità anche inquietante mette in mostra la distruzione e l’autodistruzione delle capacità intellettive dell’uomo, mortificandone la presenza. Del resto, il rapporto a dir poco corporale fra Rezza e i due tessuti che vanno a formare la X del titolo sembra andare concettualmente proprio in questa direzione: la X come setosa ma non per questo meno letale cancellazione dell’uomo, rappresentazione metaforica e terribilmente sintetica della società che applica con spietata indifferenza una croce sull’uomo, rendendolo esecrabile pazzia.
In questo senso, ad esempio, non è un caso forse che il primissimo elemento in movimento a “presentarsi” sul palcoscenico non sia Rezza o un altro attore, bensì una macchina bianca telecomandata simile a un corpo con in cima un palloncino vagamente somigliante a una testa morta, come se l’uomo, nella sua dimostrazione di esempio di eccesso di squallida e impazzita umanità, non fosse diventato ormai altro che una macchina, un uomo che si limita follemente ad essere una macchina che assomiglia a un uomo. A tal proposito, infatti, la demenzialità di Rezza è nutrita alla base da una potenza accusatrice non indifferente: attraverso le sue follie da comicità a momenti di una scurrilità quasi scandalosa il performer critica alcuni aspetti della società, di questa X cancellatrice dei suoi abitanti, come la televisione (un esempio su tutti è l’assurdità delle rapidissime puntate del serial surrealmente improponibile dei Fratelli Karamazov in cui Rezza interpreta lesto la parte di uno dei due fratelli che si lamenta per la mancanza dell’altro), la famiglia (“Rezza-madre” che spinge con ridente violenza psicologica lo spaurito figlio Peppe col corpo dentro i tessuti a eccezione della testa – l’ottimo e giovane Ivan Bellavista – a iscriversi alla Facoltà di Economia e Commercio perché è la più utile), la polizia (incarnata da Rezza e che risulta essere persino peggiore dell’Ansia).
In questo senso, ad esempio, non è un caso forse che il primissimo elemento in movimento a “presentarsi” sul palcoscenico non sia Rezza o un altro attore, bensì una macchina bianca telecomandata simile a un corpo con in cima un palloncino vagamente somigliante a una testa morta, come se l’uomo, nella sua dimostrazione di esempio di eccesso di squallida e impazzita umanità, non fosse diventato ormai altro che una macchina, un uomo che si limita follemente ad essere una macchina che assomiglia a un uomo. A tal proposito, infatti, la demenzialità di Rezza è nutrita alla base da una potenza accusatrice non indifferente: attraverso le sue follie da comicità a momenti di una scurrilità quasi scandalosa il performer critica alcuni aspetti della società, di questa X cancellatrice dei suoi abitanti, come la televisione (un esempio su tutti è l’assurdità delle rapidissime puntate del serial surrealmente improponibile dei Fratelli Karamazov in cui Rezza interpreta lesto la parte di uno dei due fratelli che si lamenta per la mancanza dell’altro), la famiglia (“Rezza-madre” che spinge con ridente violenza psicologica lo spaurito figlio Peppe col corpo dentro i tessuti a eccezione della testa – l’ottimo e giovane Ivan Bellavista – a iscriversi alla Facoltà di Economia e Commercio perché è la più utile), la polizia (incarnata da Rezza e che risulta essere persino peggiore dell’Ansia).
Ma l’onnipresenza di Rezza è tale anche quando non sembra, egli c’è anche quando non c’è: a pochi minuti dall’inizio dello spettacolo, ancora prima che “nasca” la X dai due teli, Rezza, a bordo della sedia kitsch a rotelle, se ne va addirittura quasi per cinque minuti, la- sciando così il palcoscenico surrealmente e quasi fastidiosamente vuoto. |
Tale assenza di Rezza, del suo corpo-presenza-performance, è però in realtà apparente, non soltanto perché per la maggior parte del tempo in cui si trova fuori si sente la sua voce (seppur in lontananza), ma anche perché l’originalità di tale gesto, la potenza di tale scelta lo fa quasi paradossalmente sembrare sul palcoscenico. In questo modo, dunque, la sua (momentanea) assenza prende le forme della presenza.
Anche quando Ivan Bellavista si trova al centro del palcoscenico a interpretare Peppe imprigionato al centro della X come reimpastata e deformata con la sola testa visibile e impaurita mentre Rezza interpreta attorno a lui l’Ansia, la Polizia, sua madre e suo padre è in realtà quest’ultimo ad essere il vero centro del luogo, e dunque del palcoscenico. Non solo perché il “personaggio-testa” di Peppe non parla mai (l’attore pronuncerà soltanto brevissimi suoni assurdi durante l’episodio delle due sindoni, ma sarà zittito due volte da Rezza, come se si volesse ribadire chi sia veramente l’attore Re), ma perché, fra i due, è pur sempre Rezza, con le sue assurde incarnazioni e con la sua debordante espressività, a costituire il personaggio più importante, ad avere la maggiore attenzione.
Anche quando Ivan Bellavista si trova al centro del palcoscenico a interpretare Peppe imprigionato al centro della X come reimpastata e deformata con la sola testa visibile e impaurita mentre Rezza interpreta attorno a lui l’Ansia, la Polizia, sua madre e suo padre è in realtà quest’ultimo ad essere il vero centro del luogo, e dunque del palcoscenico. Non solo perché il “personaggio-testa” di Peppe non parla mai (l’attore pronuncerà soltanto brevissimi suoni assurdi durante l’episodio delle due sindoni, ma sarà zittito due volte da Rezza, come se si volesse ribadire chi sia veramente l’attore Re), ma perché, fra i due, è pur sempre Rezza, con le sue assurde incarnazioni e con la sua debordante espressività, a costituire il personaggio più importante, ad avere la maggiore attenzione.
Le parti interpretate da Bellavista, insomma – come, ancora di più, le presenze maschili che compaiono quasi sul fondo insieme a Rezza saltando e urlando durante il “racconto” di Rita che tradisce suo marito – sembrano fungere fascinosamente da prezioso strumento che esalta l’assoluta centralità del performer principale. Nonostante la grandiosa invasività del palcoscenico da parte di Rezza, la reci- tazione-corpo di Ivan non è certo irrilevante, in primis perché è una presenza capace di emettere gesti leggiadri, perfino eleganti e parzialmente ridicoli (o comunque grotteschi) allo stesso tempo, quasi come se fosse stato estrapolato da alcuni pezzi del Satyricon di Fellini, dove buon gusto e ridicolo si in- trecciano con tronfia classe. Ma la sua presenza è comunque notevole anche perché giunge improvvisa e silenziosa durante la prima parte dello spettacolo, contrasta con il
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“rumore collettivo e generico” di Rezza e, almeno all’inizio, fa domandare allo spettatore chi sia, fungendo dunque indirettamente da elemento mutamente disturbatore, inquietante. Rezza si fa mostruosamente notare anche per il suo rapporto-non rapporto con il pubblico, riuscendo a risultare di una sgradevolezza per molti poco resistibile. In maniera memorabilmente goffa e grottesca accusa gli spettatori di non aver capito che le sue urla emesse mentre si trovava lontano, fuori dal palcoscenico altro non erano che richieste di soccorso. Più avanti, con una voce come presa in prestito da qualche sgradevole caverna, uscendo quasi dal palcoscenico, raggiunge la prima fila ed urla ad uno spettatore di smettere di guardarlo in continuazione, poiché in quel preciso momento non era lui a costituire l’elemento focale dello spettacolo.
E anche dopo il finale, quando, tra gli applausi sostanziosi, giunge fra il pubblico, dà l’ambi- gua eppure divertente impressione non tanto di essersi avvicinato per ringraziarlo, quanto di voler ulteriormente mostrargli il carisma atletico della sua presenza, il suo essere eccezionale e grandiosamente diverso, andando così a confermare la mirabile e composita distesa del suo ego.
E anche dopo il finale, quando, tra gli applausi sostanziosi, giunge fra il pubblico, dà l’ambi- gua eppure divertente impressione non tanto di essersi avvicinato per ringraziarlo, quanto di voler ulteriormente mostrargli il carisma atletico della sua presenza, il suo essere eccezionale e grandiosamente diverso, andando così a confermare la mirabile e composita distesa del suo ego.
Daniel Montigiani
Scrivono in PASSPARnous: o
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Aldo Pardi, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Alessandro Rizzo, Fabio Treppiedi, Silverio Zanobetti, Sara Maddalena, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Alessia Messina, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico
Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio
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