Zoran,
il mio nipote scemo Un film di Matteo Oleotto
Articolo di Daniel Montigiani
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Paolo (Giuseppe Battiston) ha quarant’anni, un passato da giocatore di rugby e un presente di vita a Gorizia dove fa il cuoco nella mensa di un ospizio e dimostra in varie occasioni – come nella sua amata e assai frequentata osteria di Gustino – la sua personalità dalla sostanza piuttosto bastarda, seppur spesso irresistibilmente comica. Un giorno, a causa della morte di sua zia, Paolo è costretto piuttosto controvoglia e sgarbatamente a tenere con sé per almeno sei giorni lo strano, peculiarissimo nipote Zoran, in attesa che i servizi sociali siano in grado di affidarlo definitivamente a una nuova famiglia. Quasi per caso, però, Paolo scopre il talento quasi agghiacciante di Zoran nel tiro a segno con le freccette e, altrettanto per caso, gli giunge il suggerimento di farlo allenare ulteriormente per obbligarlo “dolcemente” a partecipare a un torneo mondiale a Glasgow con un’alta ricompensa in caso di vittoria.
In questo modo, all’insaputa dell’ingenuo Zoran che crede di ricevere affetto, Paolo spera di poter prendere completamente per sé i soldi in caso di trionfo.
In questo modo, all’insaputa dell’ingenuo Zoran che crede di ricevere affetto, Paolo spera di poter prendere completamente per sé i soldi in caso di trionfo.
Quando Zoran, il mio nipote scemo – opera prima di Matteo Oleotto, diplomato all’Accademia dell’attore di Udine e in seguito in regia al centro sperimentale di Roma – venne pre- sentato all’ultima mostra del Cinema di Venezia fu per lo più accolto con una certa quantità di lodi, fu ricevuto come una sorpresa piacevole da critica e pubblico.
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Effettivamente il film di Oleotto, per quanto talvolta sappia purtroppo ricoprirsi di non indifferenti difetti e ingenuità, ha tutto il diritto di farsi considerare come un’interessante e talvolta discretamente sorprendente opera prima. Si tratta di un film perfettamente, genuinamente onesto, che molto si basa sull’interpretazione di Giuseppe Battiston: è un’opera che si allunga, si (di)stende per permettere all’eccellente performance del protagonista di accomodarsi, di dilatarsi, di farsi spazio anche in maniera “devastante” fra le varie inquadrature. Battiston è una presenza mirabilmente laida e mostruosa con la P “cannibale”, che occupa come una fame continua l’area dello schermo e che come un Orson Welles ai limiti dell’esplosione fa fatica a essere contenuto all’interno dei quattro castranti lati dell’inquadratura, capace di una cattiveria succosa che lo potrebbe rendere una Bette Davis “enormizzata”, provinciale e post-se stessa senza il suo leggendario glamour-maniaco.

Sarebbe però ingiusto verso il regista considerare interessante il film quasi esclusivamente per il personaggio a cui Battiston dà vita. Difatti, con pochi elementi, Oleotto erige in più occasioni una descrizione dell’ambiente sinteticamente efficace, grazie principalmente ai bizzarri e divertenti canti friulani di alcuni allievi di una piccola scuola di musica del posto sovrapposti ad alcune riprese dettagliate o in campo lungo del verde e delle montagne. Questi canti, in apparenza utili “soltanto” ad arricchire ulteriormente il film di grossa ironia, sono anche in realtà un ottimo strumento per inserire lo spettatore all’interno dell’atmosfera ambientale e “mentale” del luogo. Inoltre, in un film come questo che si fa recepire essenzialmente come assolutamente narrativo, che non basa, insomma, la propria vita sull’importanza estetica, formale dell’immagine è perlomeno apprezzabile che inizi con un paio di accortezze visive di buona fattura, magari nemmeno notate dai più (la luce quasi caravaggesca che da una finestra in alto sulla destra entra obliquamente nella stanza poco illuminata della locanda che nell’inquadratura successiva si “trasforma” in una strada asfaltata nella natura ripresa obliquamente).

I pregi del film saranno probabilmente altri, ma è altrettanto vero che anche i difetti non sono pochi. Se, come già parzialmente detto, il Paolo di Giuseppe Battiston è ottimo non soltanto per la sua interpretazione ma anche per come il regista riesce a estrarre dalla sua presenza una buona costruzione del personaggio, è anche ben chiaro come il resto delle “presenze umane” (ad eccezione dell’ottima performanmance del ragazzo che interpreta Zoran) finisce per essere scarsamente rilevante, talvolta persino quasi “dannoso” alla riuscita complessiva dell’opera: un esempio su tutti è quello dell’ex compagna di Paolo, la quale, pur brava, viene fatta entrare da subito in una parte tutt’altro che incisiva, un po’ scialba, protagonista tra l’altro di una delle scene assolutamente meno riuscite, che quasi sembra appartenere a un ideale repertorio di cinema piuttosto borghesuccio da televisione, ovvero quando, ferma sulla soglia della porta di casa, di fronte a Paolo che le chiede di voler tornare con lei, gli risponde negativamente, dicendogli di essere innamorata del marito. Anche in quanto a regia vera e propria, dopo l’“audace” dimostrazione visiva delle prime due inquadrature, emergono scelte piuttosto scontate di rapporti fra immagini, come l’inquadratura con Paolo e Zoran che in mezzo primo piano parlano in macchina seguita da un campo lunghissimo in cui l’auto guidata dal protagonista sfreccia via sempre più piccola in mezzo alla strada con tanto di panorama delle montagne, il tutto accompagnato da una musica un po’ mielosamente risaputa, una scelta stilistica questa piuttosto abusata dai più. A ogni modo è giusto ripetere che, nonostante i difetti che bucano il percorso delle immagini, è indubbio che ci troviamo di fronte a un’opera prima promettente di un regista che potrebbe in futuro anche firmare eccellenti commedie in Italia di alto livello, prive di vera volgarità nonostante le parolacce, le bestemmie e le situazioni non esattamente cristalline, idilliache e raffinate.
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Daniel Montigiani
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