Rivista d'arte
diretta da F. Panizzo |
Festival dei Popoli - Firenze -
Cos’è il cinema? Normalmente è identificato con l’azione del guardare, ma ogni volta che siamo lì, aspettiamo che racconti qualcosa, che lanci un messaggio preciso. Chi è realmente dis- posto ad ascoltare e accettare che un’unica risposta non ci sia, senza chiedere ‘troppe’ spiegazioni? L’interrogarsi sta nella na- tura dell’umanità. Personalmente mi piace pensare al cinema come una suggestione ipnotica, un rituale che viene da tempi remoti e ha cambiato modi e forma nel tempo.
L’immagine, assieme al suono, è l’agire della sostanza filmica. |
Qual è lo stile-documentario? Non esiste un unico modo di indagare il reale. Il cinema dispiega così tutte le sue possibilità, mescolando immagini reali in un racconto filmico. Lo sguardo risulta talvolta più scientifico, altre volte la realtà è colta nella sua poesia.
A encomio di questo festival e visto l’editoriale di questo mese, ho deciso di parlarvi di Indignados, un film di Toni Gatlif e di Tibesti Too, un film di Raymond Depardon.
A encomio di questo festival e visto l’editoriale di questo mese, ho deciso di parlarvi di Indignados, un film di Toni Gatlif e di Tibesti Too, un film di Raymond Depardon.
Indignados - diretto da Toni Gatlif, Francia, 2012, 90’.
All’interno del festival, questo film-documentario ha fatto parte del cosiddetto movimento critico, un tipo di cinematografia che assume il punto di vista popolare, dando voce alla protesta che sta attraversando l’Europa. Gatlif ha iniziato il lavoro nel 2010, a seguito della lettura del libro Indignez Vous! di Stéphane Hessel. Da qui, prende ispirazione per molte frasi del film, trascritte visivamente all’interno del quadro cinematografico, come per fargli acquistare quell’impatto che hanno le scritte sui muri dei writers di strada. Lo stesso Tony Gatlif afferma di essere rimasto profondamente colpito da uno di questi muri parlanti in Grecia, dove vi era scritto: «E voi fino a quando continuerete a dormire?». Si tratta di un film sulla crisi: ha a che fare chiaramente con la storia politica europea contemporanea, l’attuale rimonta della xenofobia, in relazione alla situazione degli immigrati e la sempre più pressante dittatura economica. Il regista assume una posizione in modo più che esplicito riguardo a uno dei deliri degli “ultimi vent’anni” in occidente, che è stato designare come nemico l’immigrato. Il film racconta la storia di una ragazza che è simbolo di ciò, unica nota di fiction nel film-documentario. Emigrata clandestinamente dall’Africa, inizia per lei un calvario da nomade senza alcun diritto, ma è piena di una forza e speranza fuori dal comune, al limite tra la fede in Dio e una totale fiducia nella provvidenza della natura. Attraversa un’Europa spaccata e in crisi, viaggiando dalla Grecia alla Spagna, dove incontra un sistema burocratico e politico che non riesce, né vuole tutelarla e alla fine, il movimento degli indignados. Sono mostrate scene reali delle manifestazioni, momenti in cui il popolo si sente vivo, unito e riafferma la propria appartenenza al paese. Nello stesso tempo è anche mostrato il fallimento di ciò: la polizia appare negativa nei confronti di una manifestazione pacifica, usando la violenza per sgomberare strade e piazze, che rimangono vuote, inabitate. La ragazza africana, che aveva partecipato unendosi agli altri, rimane sola. Trionfa l’individualismo. Il senso del finale, in cui lei rimane chiusa dietro i cancelli di un fabbricato in costruzione, è una metafora della sua situazione in Europa: non capisce in che luogo si trova, è intrappolata, non può andarsene e nemmeno restare, ma l’ultima parola è la sua ed è quella della speranza che tutto andrà per il meglio. In tutto il film è costante la contraddizione tra i fatti negativi che accadono alla protagonista e la sua voce interiore, che manifesta forza e speranza; contrasto dato anche dall’accostamento di scene in b/n ad altre con colori forti, da immagini docu- mentarie più crude ad altre create poeticamente. Accanto al popolo manifestante, vive il sentimento artistico come protesta e quest’ultimo è mostrato in una scena non documentaria ma costruita, in cui si vedono dei musicisti e una ballerina di flamenco, che vestita di rosso, acquista movenze simili a quelle di un matador, nel crescendo della musica e sotto una pioggia di volantini colorati. Al di là della ribellione, della poesia e della riflessione su quanto un’insur-rezione possa essere pacifica, il film si pone come strumento di critica sociale e di denuncia, mettendo in rilievo l’urgenza di occuparsi della situazione degli immigrati. Non solo garantendo loro il cibo e un tetto ma, in senso politico, rendendogli un potere che ogni cittadino ed essere umano non dovrebbe mai scordarsi di avere.
Tibesti too - diretto da Raymond Depardon, Francia, 1976, 36’.
La retrospettiva sul materiale visivo passato del regista, giornalista e fotoreporter, Raymond Depardon, è stata oltre che un omaggio alla sua opera, un’occasione interessante per approfondire alcune realtà inesplorate, mostrate con l’occhio attento di chi vuole restare il più fedele possibile ad esse, con una volontà descrittiva paragonabile a quella del neorealismo cinematografico. La singolarità del film, è che si tratta dell’unico documento sulla vita dei Tades, nel Tibesti, Nord del Chad, una delle aree più difficilmente accessibili del pianeta, ma anche di uno dei posti più affascinanti della Terra: i territori del Sahara. Le tracce di vita umana sono poche, ma proprio su di esse il regista ha concentrato l’attenzione, anche se il vero protagonista è il paesaggio. Il deserto offre di per sé visioni spettacolari, dei monumenti naturali, scavati dal vento e dalla pioggia e resi ancor più emblematici dall’utilizzo del b/n. La scelta e il taglio dato a queste immagini, rivela la sapienza nella tecnica fotografica, elegante e veritiera allo stesso tempo. Un tipo di ripresa che mescola fotografia artistica e reportage, emerge negli scorci prospettici dei paesaggi, nelle inquadrature fisse sui personaggi, a volte in posa su un telone bianco che fa da sfondo; sono immagini piene di luminosità. Si può definire questo, un film contemplativo, con una forma documentaria e un forte elemento paesag-gistico, il deserto come protagonista. L’umanità che vi abita, è colta nell’atto di vivere, dove il tempo viene ad assumere un’importante funzione per chi guarda: lo sguardo dello spettatore deve farsi capace di andare in profondità e di attendere, disinnescando i meccanismi di fruizione della velocità e della superficialità. Il regista non manca di specificare l’isolamento in cui questa popolazione vive, che sembra sia il prezzo pagato per la libertà, dopo la rivoluzione per l’indipendenza in Chad (nel 1965). Le riprese dei volti in primo piano o dei personaggi che svolgono alcune attività, nonostante siano accompagnate dalla voce narrante, rimangono circondate da un alone misterioso, connaturato nel tipo d’immagine stessa: uomini avvolti dal fumo e dai turbanti, bambini che giocano nell’acqua, donne prese dal rituale collettivo della danza. Le scene che mostrano parte delle loro giornate, nelle tende delle oasi, o nascosti nelle anfrattuosità delle montagne, rivelano ancora una volta che si tratta di un popolo vivo, in sintonia col territorio in cui abita. Il genere documentario è luogo di riflessione, poiché quello che racconta è la storia di uno sguardo.
All’interno del festival, questo film-documentario ha fatto parte del cosiddetto movimento critico, un tipo di cinematografia che assume il punto di vista popolare, dando voce alla protesta che sta attraversando l’Europa. Gatlif ha iniziato il lavoro nel 2010, a seguito della lettura del libro Indignez Vous! di Stéphane Hessel. Da qui, prende ispirazione per molte frasi del film, trascritte visivamente all’interno del quadro cinematografico, come per fargli acquistare quell’impatto che hanno le scritte sui muri dei writers di strada. Lo stesso Tony Gatlif afferma di essere rimasto profondamente colpito da uno di questi muri parlanti in Grecia, dove vi era scritto: «E voi fino a quando continuerete a dormire?». Si tratta di un film sulla crisi: ha a che fare chiaramente con la storia politica europea contemporanea, l’attuale rimonta della xenofobia, in relazione alla situazione degli immigrati e la sempre più pressante dittatura economica. Il regista assume una posizione in modo più che esplicito riguardo a uno dei deliri degli “ultimi vent’anni” in occidente, che è stato designare come nemico l’immigrato. Il film racconta la storia di una ragazza che è simbolo di ciò, unica nota di fiction nel film-documentario. Emigrata clandestinamente dall’Africa, inizia per lei un calvario da nomade senza alcun diritto, ma è piena di una forza e speranza fuori dal comune, al limite tra la fede in Dio e una totale fiducia nella provvidenza della natura. Attraversa un’Europa spaccata e in crisi, viaggiando dalla Grecia alla Spagna, dove incontra un sistema burocratico e politico che non riesce, né vuole tutelarla e alla fine, il movimento degli indignados. Sono mostrate scene reali delle manifestazioni, momenti in cui il popolo si sente vivo, unito e riafferma la propria appartenenza al paese. Nello stesso tempo è anche mostrato il fallimento di ciò: la polizia appare negativa nei confronti di una manifestazione pacifica, usando la violenza per sgomberare strade e piazze, che rimangono vuote, inabitate. La ragazza africana, che aveva partecipato unendosi agli altri, rimane sola. Trionfa l’individualismo. Il senso del finale, in cui lei rimane chiusa dietro i cancelli di un fabbricato in costruzione, è una metafora della sua situazione in Europa: non capisce in che luogo si trova, è intrappolata, non può andarsene e nemmeno restare, ma l’ultima parola è la sua ed è quella della speranza che tutto andrà per il meglio. In tutto il film è costante la contraddizione tra i fatti negativi che accadono alla protagonista e la sua voce interiore, che manifesta forza e speranza; contrasto dato anche dall’accostamento di scene in b/n ad altre con colori forti, da immagini docu- mentarie più crude ad altre create poeticamente. Accanto al popolo manifestante, vive il sentimento artistico come protesta e quest’ultimo è mostrato in una scena non documentaria ma costruita, in cui si vedono dei musicisti e una ballerina di flamenco, che vestita di rosso, acquista movenze simili a quelle di un matador, nel crescendo della musica e sotto una pioggia di volantini colorati. Al di là della ribellione, della poesia e della riflessione su quanto un’insur-rezione possa essere pacifica, il film si pone come strumento di critica sociale e di denuncia, mettendo in rilievo l’urgenza di occuparsi della situazione degli immigrati. Non solo garantendo loro il cibo e un tetto ma, in senso politico, rendendogli un potere che ogni cittadino ed essere umano non dovrebbe mai scordarsi di avere.
Tibesti too - diretto da Raymond Depardon, Francia, 1976, 36’.
La retrospettiva sul materiale visivo passato del regista, giornalista e fotoreporter, Raymond Depardon, è stata oltre che un omaggio alla sua opera, un’occasione interessante per approfondire alcune realtà inesplorate, mostrate con l’occhio attento di chi vuole restare il più fedele possibile ad esse, con una volontà descrittiva paragonabile a quella del neorealismo cinematografico. La singolarità del film, è che si tratta dell’unico documento sulla vita dei Tades, nel Tibesti, Nord del Chad, una delle aree più difficilmente accessibili del pianeta, ma anche di uno dei posti più affascinanti della Terra: i territori del Sahara. Le tracce di vita umana sono poche, ma proprio su di esse il regista ha concentrato l’attenzione, anche se il vero protagonista è il paesaggio. Il deserto offre di per sé visioni spettacolari, dei monumenti naturali, scavati dal vento e dalla pioggia e resi ancor più emblematici dall’utilizzo del b/n. La scelta e il taglio dato a queste immagini, rivela la sapienza nella tecnica fotografica, elegante e veritiera allo stesso tempo. Un tipo di ripresa che mescola fotografia artistica e reportage, emerge negli scorci prospettici dei paesaggi, nelle inquadrature fisse sui personaggi, a volte in posa su un telone bianco che fa da sfondo; sono immagini piene di luminosità. Si può definire questo, un film contemplativo, con una forma documentaria e un forte elemento paesag-gistico, il deserto come protagonista. L’umanità che vi abita, è colta nell’atto di vivere, dove il tempo viene ad assumere un’importante funzione per chi guarda: lo sguardo dello spettatore deve farsi capace di andare in profondità e di attendere, disinnescando i meccanismi di fruizione della velocità e della superficialità. Il regista non manca di specificare l’isolamento in cui questa popolazione vive, che sembra sia il prezzo pagato per la libertà, dopo la rivoluzione per l’indipendenza in Chad (nel 1965). Le riprese dei volti in primo piano o dei personaggi che svolgono alcune attività, nonostante siano accompagnate dalla voce narrante, rimangono circondate da un alone misterioso, connaturato nel tipo d’immagine stessa: uomini avvolti dal fumo e dai turbanti, bambini che giocano nell’acqua, donne prese dal rituale collettivo della danza. Le scene che mostrano parte delle loro giornate, nelle tende delle oasi, o nascosti nelle anfrattuosità delle montagne, rivelano ancora una volta che si tratta di un popolo vivo, in sintonia col territorio in cui abita. Il genere documentario è luogo di riflessione, poiché quello che racconta è la storia di uno sguardo.
Alessia Messina
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