Apparizioni rubrica diretta da Francesco Panizzo
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Venti chilometri dalla frontiera tedesca. Marienbad è un paradiso termale, ancora oggi, dopo aver ospitato nel XIX secolo Goethe, Ibsen, Dvorak e Chopin. E Marienbad è il punto dello spazio raggelato dell’omonimo film di Alain Resnais: un uomo e una donna sembrano incontrarsi. E si amano. La donna che poi sparisce, in un continuo sovrapporsi di ricordi bloccati e visioni spazio-temporali dilazionate. Il ghiaccio stesso che sembra abitare il cuore delle cose. Quattro stazioni spazio-temporali marcano dei falsi riconoscimenti: era lei la donna amata? O il ricordo tradisce il protagonista del puzzle di Resnais?
Ma, soprattutto, chi aveva visto il protagonista? Nel 1936, Jacques Lacan, ad un congresso a Marienbad, formulerà per la prima volta quello che lui stesso definirà come “Le stade du miroir”, lo stadio dello specchio. Questa breve comunicazione, interrotta da Jones per lo scadere dei dieci minuti canonici nell’esposizione sarà ripresa da Lacan in molti dei suoi scritti e in alcuni seminari, ma troverà la sua forma compiuta in una comunicazione al XVI Congresso Inter-nazionale di Psicoanalisi a Zurigo nel 1949 che prenderà il titolo, nella raccolta degli Scritti “Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io” Questo stadio, apparentemente semplice nella sua formulazione ed evoluzione, riunisce, nelle poche pagine in cui è formulato, un’ampia serie di concetti che lo rendono altamente complesso e tortuoso. Lo stadio dello specchio, infatti, contempla all’interno del suo sviluppo, concetti come quelli di: identificazione, narcisismo, specchio, imago, immagine, immaginario, corpo. Nel 1936, Jacques Lacan, ad un con- gresso a Marienbad, formulerà per la prima volta quello che lui stesso definirà come “Le stade du miroir”, lo stadio dello specchio. Questa breve comunicazione, interrotta da Jones per lo scadere dei dieci minuti canonici nell’esposizione sarà ripresa da Lacan in molti dei suoi scritti ed in alcuni seminari, ma troverà la sua forma compiuta in una comunicazione al XVI Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Zurigo nel 1949 che, nella raccolta degli Scritti, prenderà il titolo, “Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io”. Questo stadio, apparentemente, semplice nella sua formulazione ed evoluzione, riunisce, nelle poche pagine in cui è formulato, un’ampia serie di concetti che lo rendono altamente complesso e tortuoso. Lo stadio dello specchio, infatti, contempla all’interno del suo sviluppo, concetti come quelli di: identificazione, narcisismo, specchio, imago,immagine, immaginario, corpo.
Ma, soprattutto, chi aveva visto il protagonista? Nel 1936, Jacques Lacan, ad un congresso a Marienbad, formulerà per la prima volta quello che lui stesso definirà come “Le stade du miroir”, lo stadio dello specchio. Questa breve comunicazione, interrotta da Jones per lo scadere dei dieci minuti canonici nell’esposizione sarà ripresa da Lacan in molti dei suoi scritti e in alcuni seminari, ma troverà la sua forma compiuta in una comunicazione al XVI Congresso Inter-nazionale di Psicoanalisi a Zurigo nel 1949 che prenderà il titolo, nella raccolta degli Scritti “Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io” Questo stadio, apparentemente semplice nella sua formulazione ed evoluzione, riunisce, nelle poche pagine in cui è formulato, un’ampia serie di concetti che lo rendono altamente complesso e tortuoso. Lo stadio dello specchio, infatti, contempla all’interno del suo sviluppo, concetti come quelli di: identificazione, narcisismo, specchio, imago, immagine, immaginario, corpo. Nel 1936, Jacques Lacan, ad un con- gresso a Marienbad, formulerà per la prima volta quello che lui stesso definirà come “Le stade du miroir”, lo stadio dello specchio. Questa breve comunicazione, interrotta da Jones per lo scadere dei dieci minuti canonici nell’esposizione sarà ripresa da Lacan in molti dei suoi scritti ed in alcuni seminari, ma troverà la sua forma compiuta in una comunicazione al XVI Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Zurigo nel 1949 che, nella raccolta degli Scritti, prenderà il titolo, “Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’Io”. Questo stadio, apparentemente, semplice nella sua formulazione ed evoluzione, riunisce, nelle poche pagine in cui è formulato, un’ampia serie di concetti che lo rendono altamente complesso e tortuoso. Lo stadio dello specchio, infatti, contempla all’interno del suo sviluppo, concetti come quelli di: identificazione, narcisismo, specchio, imago,immagine, immaginario, corpo.
“Questo sviluppo - secondo le parole di Lacan - è vissuto come una dialettica temporale che in modo decisivo proietta in storia la formazione dell’individuo: lo stadio dello specchio è un dramma la cui spinta interna si pre- cipita dall’insufficienza all’anticipazione – e che per il soggetto, preso nell’inganno dell’identificazione spaziale, macchina fantasmi che si succedono da un’immagine frammentata del corpo ad una forma, che chiameremo ortopedica, della sua totalità – ed infine all’assunzione dell’armatura di un’identità alienante che ne segnerà con la sua rigida struttura tutto lo sviluppo mentale.” Dalla visione di un corpo-in-frammenti si passa a quella che Lacan definisce la “forma ortopedica” di questo. A questo proposito, basti pensare, ad esempio, al ruolo della scarpa orto- pedica che cerca di adattare il piede infermo ad una forma corretta. Allo stesso modo, il soggetto, identificandosi (parzialmente) con l’immagine riflessa, è come se imparasse a mettere i piedi nella posizione corretta, ovvero impara a mettere l’Io nello stampo immaginario. A riconoscersi, a identificarsi. A essere visto e a vedersi in maniera ortope- dica. Ma l’occhio è sempre qualcosa di inquietante. Freud direbbe perturbante. Un occhio è un organo, è familiare, eppure ha in sé tutta la forza della maschera, di ciò che è al di là della funzione che crea l’organo: lo sguardo. Un occhio, che sia vero o sia simulato, è sempre la traccia di una presenza. Gli ocelli, dice Caillois “in effetti assomigliano a degli occhi, ma non credo intimoriscano a causa di questa somiglianza […] gli occhi possono intimidire perché asso- migliano agli ocelli. L’aspetto più importante, in entrambi i casi, è la forma circolare, fissa e brillante, strumento tipico di fascinazione”. Ogni visione che eccede l’occhio e rimanda allo sguardo comprende un’altravisione: nel rapporto con il mondo e con le immagini, è possibile condurre lo sguardo verso un residuo altro, differente, eccedente. Il protagonista de L’Année dernière à Marienbad è un uomo in cammino; l’inquietudine del suo sguardo si riflette sulla realtà apparente delle cose, tanto da alterare il rapporto tra presenza/assenza.
L’impianto del film, inoltre, non ruota intorno al filtro della memoria, come invece potrebbe sembrare a causa della insistenza del personaggio X (Giorgio Albertazzi) nei confronti della donna A (Delphìne Seyrig) di essersi gia incontrati e amati un anno prima in un luogo chiamato Marienbad. La memoria chiamata in causa da Marienbad non riguarda più, come annota Gilles Deleuze, la “facoltà d’avere ricordi” ma si manifesta come un territorio, una terra di nessuno, una cartilagine spaziale, una “membrana che, nei modi più diversi (continuità, ma anche discon-tinuità, avvolgimento, eccetera), fa corrispondere le falde di passato con gli strati di realtà” [Deleuze, 1985]. Per quanto il film sembri vibrare in “attesa di una organizzazione temporale” non sarà un referente temporale che potrà tracciare coordinate di senso, se mai un senso è possibile in questa vicenda. Infatti “nel racconto moderno si potrebbe dire che il tempo si ritrova avulso dalla sua temporalità. […] La descrizione ristagna, si contraddice, gira in tondo. L’istante nega la continuità”(Robbe-Grillet, 1964). Del resto non è opportuno rimproverare alla pellicola ambiguità o mancanza di chiarezza, o dichiarare smarrimento per l’impossibilità di attribuire un significato a quello che vediamo svolgersi davanti ai nostri occhi. È quanto esprime a chiare lettere ancora Robbe Grillet: “il buffo è che la gente ammette molto volentieri di incontrare nella vita quotidiana un mucchio di elementi della realtà che sono irrazionali o ambigui, ma si lamenta di incontrarli anche nell’opera d’arte, romanzo o film, che dovrebbe presumibilmente presentare qualcosa di più rassicurante del mondo reale. Come se l’opera d’arte fosse fatta per spiegare il mondo, per rassicurare l’uomo sul mondo. Non credo affatto che l’arte sia fatta per rassicurare. Se il mondo è veramente così complesso si deve riflettere la sua complessità, ancora una volta per amore di realismo […] Rimproverare al film di non essere chiaro, vuol dire rimproverare le passioni umane di essere sempre un poco opache.” Il “senso” di Marienbad è direzione da seguire e non significato da individuare. Un senso inteso in termini di segnaletica, di percorso ad ostacoli, costruito attraverso una continua metamorfosi spaziale: ci riferiamo alle infrazioni degli attraversamenti o dei passaggi da un ambiente all’altro in modo tale da alimentare una logica formale che diventa l’unica manifesta performance visiva.
Resnais fa dello spazio di Marienbad più che un universo autoreferenziale, uno “stile ottico”: tratteggia un percorso visivo che proprio nelle infrazioni, nelle permutazioni e nel gioco linguistico (del linguaggio filmico) esplora e propone una vivacità introspettiva per uno spettatore multiplo, collettivo, non chiuso all’interno della personalità soggettiva del singolo osservatore. La visione formale di Resnais si indirizza a una statua guardata secondo una simultanea molteplicità di angolazioni: un’angolazione piuttosto che un’altra permette di scrivere e di mostrare una storia sempre diversa. Un inganno per l’occhio, una possibilità per lo sguardo. D’altra parte, in preda alla fascinazione per una scultura perfetta, da ammirare sotto tutti gli angoli, Resnais realizza un film del quale non si saprà mai quale sia la prima bobina. Resnais chiama in causa un osservatore partecipante o addirittura performante dal momento che Marienbad, in quanto “opera aperta”, si concentra sull’uso dello spazio e non sulla semplice lettura dello spazio da parte dello spettatore che diventa, secondo François Truffaut, un soggettista propositivo. Trent’anni dopo, Smoking no smoking condivide con lo spettatore l’atto di creazione visiva: gioco di fiammiferi o di carte disposti secondo quat- tro fila di 7, 5, 3 e 1. Ciascuno, a turno, può prendere quanti fiammiferi desidera, ma secondo un’unica disposizione.
Quello che conserva l’ultimo fiammifero ha perso. C’è dunque un big bang narrativo da cui tutto ha inizio: la signora che esce in giardino; e c’è un narratore demiurgo innamorato, d’un amore impossibile, di tutte le storie possibili, non solo di quelle che ci racconta ma anche di tutte le altre che avrebbe potuto raccontarci. Celia Tesadale esce di casa e si mostra sul palcoscenico-set. Dopo cinque secondi, si incontra la prima biforcazione: fumare o non fumare. Presa una strada, cinque giorni dopo, si incontra un altro bivio; cinque settimane dopo, un altro ancora; cinque anni dopo, un provvisorio punto di arrivo oltre il quale Resnais non si azzarda a procedere. Resnais ha disegnato in uno schema ad albero il percorso esplorato dal film: l’inizio e le due strade, che cinque giorni dopo diventano quattro, che cinque settimane dopo sono sei (due vengono lasciate cadere), che cinque anni dopo portano a dodici situazioni conclusive. In tutto: 25 posizioni. Le troppe storie ci rintronano. Il narratore è onnipotente e noi ci sentiamo abbandonati. Non sappiamo come sono davvero andate le cose, non possiamo paragonare ad un percorso “vero” tutti gli altri soltanto “possibili”: il risultato è la sensazione che tutto è sempre uguale in qualsiasi modo le cose vadano (in uno dei 25 modi che i film gemelli mostrano, o in uno degli altri infiniti modi che non ci vengono raccontati ma che siamo lasciati liberi di immaginare). La più completa libertà narrativa, invece che al regno di cuccagna dove tutte le storie sono a nostra disposizione, ci conduce alla confusione e allo stordimento. Eppure un vincitore c’è: ed è il luogo dove le storie avvengono, un luogo che è palcoscenico e insieme (ou bien) set cinematografico. Il giardino di casa Teasdale (che non è l’unico luogo delle narrazioni ma è quello che torna più spesso) è il vincitore vero della sfida, spazio infinito e insieme (ou bien) stretta prigione di tutte le storie. Ancora una volta, e lo fa da sempre, Resnais assegna la vittoria al cinema (ou bien al teatro).
L’impianto del film, inoltre, non ruota intorno al filtro della memoria, come invece potrebbe sembrare a causa della insistenza del personaggio X (Giorgio Albertazzi) nei confronti della donna A (Delphìne Seyrig) di essersi gia incontrati e amati un anno prima in un luogo chiamato Marienbad. La memoria chiamata in causa da Marienbad non riguarda più, come annota Gilles Deleuze, la “facoltà d’avere ricordi” ma si manifesta come un territorio, una terra di nessuno, una cartilagine spaziale, una “membrana che, nei modi più diversi (continuità, ma anche discon-tinuità, avvolgimento, eccetera), fa corrispondere le falde di passato con gli strati di realtà” [Deleuze, 1985]. Per quanto il film sembri vibrare in “attesa di una organizzazione temporale” non sarà un referente temporale che potrà tracciare coordinate di senso, se mai un senso è possibile in questa vicenda. Infatti “nel racconto moderno si potrebbe dire che il tempo si ritrova avulso dalla sua temporalità. […] La descrizione ristagna, si contraddice, gira in tondo. L’istante nega la continuità”(Robbe-Grillet, 1964). Del resto non è opportuno rimproverare alla pellicola ambiguità o mancanza di chiarezza, o dichiarare smarrimento per l’impossibilità di attribuire un significato a quello che vediamo svolgersi davanti ai nostri occhi. È quanto esprime a chiare lettere ancora Robbe Grillet: “il buffo è che la gente ammette molto volentieri di incontrare nella vita quotidiana un mucchio di elementi della realtà che sono irrazionali o ambigui, ma si lamenta di incontrarli anche nell’opera d’arte, romanzo o film, che dovrebbe presumibilmente presentare qualcosa di più rassicurante del mondo reale. Come se l’opera d’arte fosse fatta per spiegare il mondo, per rassicurare l’uomo sul mondo. Non credo affatto che l’arte sia fatta per rassicurare. Se il mondo è veramente così complesso si deve riflettere la sua complessità, ancora una volta per amore di realismo […] Rimproverare al film di non essere chiaro, vuol dire rimproverare le passioni umane di essere sempre un poco opache.” Il “senso” di Marienbad è direzione da seguire e non significato da individuare. Un senso inteso in termini di segnaletica, di percorso ad ostacoli, costruito attraverso una continua metamorfosi spaziale: ci riferiamo alle infrazioni degli attraversamenti o dei passaggi da un ambiente all’altro in modo tale da alimentare una logica formale che diventa l’unica manifesta performance visiva.
Resnais fa dello spazio di Marienbad più che un universo autoreferenziale, uno “stile ottico”: tratteggia un percorso visivo che proprio nelle infrazioni, nelle permutazioni e nel gioco linguistico (del linguaggio filmico) esplora e propone una vivacità introspettiva per uno spettatore multiplo, collettivo, non chiuso all’interno della personalità soggettiva del singolo osservatore. La visione formale di Resnais si indirizza a una statua guardata secondo una simultanea molteplicità di angolazioni: un’angolazione piuttosto che un’altra permette di scrivere e di mostrare una storia sempre diversa. Un inganno per l’occhio, una possibilità per lo sguardo. D’altra parte, in preda alla fascinazione per una scultura perfetta, da ammirare sotto tutti gli angoli, Resnais realizza un film del quale non si saprà mai quale sia la prima bobina. Resnais chiama in causa un osservatore partecipante o addirittura performante dal momento che Marienbad, in quanto “opera aperta”, si concentra sull’uso dello spazio e non sulla semplice lettura dello spazio da parte dello spettatore che diventa, secondo François Truffaut, un soggettista propositivo. Trent’anni dopo, Smoking no smoking condivide con lo spettatore l’atto di creazione visiva: gioco di fiammiferi o di carte disposti secondo quat- tro fila di 7, 5, 3 e 1. Ciascuno, a turno, può prendere quanti fiammiferi desidera, ma secondo un’unica disposizione.
Quello che conserva l’ultimo fiammifero ha perso. C’è dunque un big bang narrativo da cui tutto ha inizio: la signora che esce in giardino; e c’è un narratore demiurgo innamorato, d’un amore impossibile, di tutte le storie possibili, non solo di quelle che ci racconta ma anche di tutte le altre che avrebbe potuto raccontarci. Celia Tesadale esce di casa e si mostra sul palcoscenico-set. Dopo cinque secondi, si incontra la prima biforcazione: fumare o non fumare. Presa una strada, cinque giorni dopo, si incontra un altro bivio; cinque settimane dopo, un altro ancora; cinque anni dopo, un provvisorio punto di arrivo oltre il quale Resnais non si azzarda a procedere. Resnais ha disegnato in uno schema ad albero il percorso esplorato dal film: l’inizio e le due strade, che cinque giorni dopo diventano quattro, che cinque settimane dopo sono sei (due vengono lasciate cadere), che cinque anni dopo portano a dodici situazioni conclusive. In tutto: 25 posizioni. Le troppe storie ci rintronano. Il narratore è onnipotente e noi ci sentiamo abbandonati. Non sappiamo come sono davvero andate le cose, non possiamo paragonare ad un percorso “vero” tutti gli altri soltanto “possibili”: il risultato è la sensazione che tutto è sempre uguale in qualsiasi modo le cose vadano (in uno dei 25 modi che i film gemelli mostrano, o in uno degli altri infiniti modi che non ci vengono raccontati ma che siamo lasciati liberi di immaginare). La più completa libertà narrativa, invece che al regno di cuccagna dove tutte le storie sono a nostra disposizione, ci conduce alla confusione e allo stordimento. Eppure un vincitore c’è: ed è il luogo dove le storie avvengono, un luogo che è palcoscenico e insieme (ou bien) set cinematografico. Il giardino di casa Teasdale (che non è l’unico luogo delle narrazioni ma è quello che torna più spesso) è il vincitore vero della sfida, spazio infinito e insieme (ou bien) stretta prigione di tutte le storie. Ancora una volta, e lo fa da sempre, Resnais assegna la vittoria al cinema (ou bien al teatro).
“Un mondo senza passato, un mondo che è autosufficiente ad ogni momento e che oblitera sé stesso man mano che procede. Quest’uomo, questa donna cominciano ad esistere
solo quando appaiono sullo schermo per la prima volta; prima di questo
essi non sono niente; e una volta che la proiezione è finita,
essi non sono nulla di nuovo. La loro esistenza dura
solamente per quel tanto che dura il film”
Alain Robbe- Grillet
Viviana Vacca
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