IV Numero della rivista PASSPARnous
Altri 12 nuovi mesi d’arte e di evoluzione intellettuale. Un 2013 con i nostri pubblicisti
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Scrivono
nella rivista: Daniel Montigiani Viviana Vacca Alessandro Rizzo Fabio Treppiedi Sara Maddalena Daniele Vergni Mariella Soldo Martina Lo Conte Fabiana Lupo Roberto Zanata Bruno Maderna Marco Dotti Alessia Messina Miso Rasic Mohamed Khayat Pietro Camarda Tommaso Dati Francesco Panizzo |
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Lacan inizia a interrogarsi sulla schisi tra occhio e sguardo. La distinzione di queste due funzioni viene effettuata da Caillois, il quale ci porta l’esempio degli ocelli presenti sulle ali della farfalla Caligo Prometheus che simulano la civetta: gli ocelli sono terrificanti non per effetto di una simulazione ma perché rimandano a un’iridescenza, qualcosa che eccede l’occhio. Lacan stesso chiarisce la natura di tale eccedenza: lo sguardo elude, è la parte sfuggente e non collocabile in ogni rapporto con la visione e con le cose. Partecipa insieme del soggetto vedente e dell’oggetto che viene guardato. È lo sguardo che cattura il mio occhio nella visione attraverso la luce ed il colore. Quindi ciò che è sguardo, lo è attraverso giochi di luce e di ombre, è ciò che Lacan chiama il “punto di sguardo”. Come afferma Merleau-Ponty: “La visione del pittore impara solo vedendo, impara solo da se stessa. L’occhio vede il mondo, ciò che manca al mondo per essere quadro, e ciò che manca al quadro per essere se stesso”. Il pittore chiede all’oggetto di fargli vedere il visibile che si nasconde.
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Lo sguardo è nell’oggetto che si mostra e la visione gli chiede il segreto della propria immagine affinché si trasformi in rappresentazione. Con un esplicito riferimento a Cézanne, il pittore interroga gli oggetti della visione (luce, colore, ombra e riflessi) i quali non hanno un’essenza reale, ma, ricorda Merleau-Ponty, sono “fantasmi” e “lo sguardo del pittore li interroga per sapere come possano far sì che esista all’improvviso qualcosa e proprio quella cosa, per comporre questo talismano del mondo, per farci vedere il visibile”. È chiaro che vedere il visibile (latente) significa cogliere l’invisibile laddove esso potrebbe mostrarsi come sguardo. Questa è l’operazione che fa Cézanne quando cerca di riprodurre la montagna, solo quella montagna si mostra all’occhio come sguardo, lo sguardo, per così dire, cattura l’occhio, la montagna stabilisce come sguardo un rapporto speculare con l’occhio (che è specchio) del pittore. La raffigurazione, la sua immagine nell’occhio del pittore deriva dal movimento speculare che stabilisce tra soggetto e oggetto, tra immagine e raffigurazione.
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Il movimento speculare che crea la montagna nell’occhio del pittore, in cui il pittore stesso da soggetto della visione si trasforma, si metamorfizza, in oggetto guardato, è lo stesso movimento in cui forma il grande Altro della fase dello specchio. È l’Altro che diviene soggetto (alienato) della raffigurazione. Il pittore, dunque non vede la montagna, ma è nel quadro. Questa specularizzazione tra soggetto vedente/oggetto guardato e soggetto visto/oggetto raffigurato non può che lasciare sempre un resto, un residuo, un desiderio, che il pittore domanda, brama di vedere. Il tentativo di Cézanne è, dunque, quello di dipingere, di esprimere la distanza ed è per questo che l’unica emozione possibile del pittore è un sentimento di estraneità sempre rinnovato. Detto in altra maniera: che cosa e come dipingerebbe la mia immagine allo specchio se volesse fare un quadro con me come soggetto? Uno qualunque dei quadri della montagna Sant-Vic-toire è l’immagine allo specchio di Cézanne?
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Vorremmo dare una risposta affermativa e vorremmo sostenere che il sentimento di estraneità che caratterizza la distanza da sé, costitutiva del soggetto della percezione, nasce da qua. Cézanne sa di essere guardato dall’invisibile, ma non può riprodurlo perché esso è lo scarto, non speculare, né specularizzabile che si inscrive nella dialettica vedente/visibile come oggetto di desiderio rispetto al quale è possibile la rappresentazione, ma solo come ciò che inganna. Se prendiamo la strada dello sguardo come qualcosa che va al di là dell’occhio è per decostruire il problema stesso dell’occhio, nella dinamica del visibile e dell’invisibile. Poiché lo sguardo è questo qual- cosa che rovescia la coscienza, esso è inafferrabile, ma non perché invisibile, quanto piuttosto perché partecipa dell’invisibile nel momento stesso in cui si dispone dalla parte del soggetto della percezione. L’occhio va collocato tra sguardo e desiderio, cioè tra sguardo e ciò che vorrei vedere, che poi è un visto che partecipa della mancanza.
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È per questo motivo che nella dialettica tra occhio e sguardo, c’è, fondamentalmente, inganno. “Quando, nell’amore, domando uno sguardo, quello che c’è di fondamentalmente insoddisfacente e di sempre mancato è che tu non mi guardi mai là dove io ti vedo. Inversamente, ciò che guardo non è mai ciò che voglio vedere.” È per questo che ciò che guardo non è mai ciò che voglio/vorrei vedere: perché l’inganno, la trappola per lo sguardo si annida nell’invisibile, perché l’oggetto-causa-di-desiderio non può essere afferrato che con uno spostamento, come ad esempio nel caso dell’anamorfosi. Ogni visione che eccede l’occhio e rimanda allo sguardo comprende un’altra visione: nel rapporto con il mondo e con le immagini, è possibile condurre lo sguardo verso un residuo altro, differente, eccedente.
Buona lettura..
Viviana Vacca
Toujours des murs, toujours des couloirs, toujours des portes, |
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Eventuali visualizzazioni scorrette del testo, come gli a capo, non dipendono dalla redazione degli articoli.
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