La sedia
della felicità. Un film di Carlo Mazzacurati Articolo di Daniel Montigani
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Non è certo un caso che Mazzacurati abbia voluto inserire la parola “felicità” nel titolo del suo (purtroppo) ultimo film. Per il suo elettrico contenuto di continuo brio e debordante vitalità che sfocia addirittura in un happy end, questa è infatti sicuramente una pellicola atipica all’interno di una filmografia spesso pessimista e “ferita” come quella del regista padovano.
La sedia della felicità fa scintillare bizzarrie comiche, è un bel gioiello di piacevole (e talvolta tesa) eccentricità in cui bislacchi incontri danno frenetica vita ad avvenimenti improbabili. In un luogo non precisato del Veneto non lontano dal capoluogo, un’estetista (Isabella Ragonese) e un timido e impacciato tatuatore (Valerio Mastandrea) si conoscono per caso e, inaspettatamente, cominciano con metodi strampalati a “rincorrere” una sedia all’interno della quale si dovrebbe nascondere un tesoro di grande valore. Ecco dunque spiegato (in parte) il grazioso titolo: la felicità per i due dipende da una sedia, dal suo interno imbottito che potrebbe contenere ricchezza. E se, in seguito, però, quella che si chiama felicità fosse causata anche e soprattutto dall’inattesa nascita di una storia d’amore? In questa pellicola in cui succede molto – davvero tanto, ma mai troppo - in poco tempo vige la potenza di una leggerezza in parte soltanto apparente e, in realtà, molto sofisticata, di grande classe. Appunto, leggerezza sofisticata, proprio come la sophisticated comedy americana degli anni Trenta. Non sarà infatti difficile notare ben presto come i due protagonisti, pronti a muoversi per situazioni deliziosamente assurde, assomiglino a delle squisite versioni aggiornate (e più “popolane”) di Katharine Hepburn e Cary Grant. Ma è proprio tutto il film che, in maniera personale, prende materiale e ispirazione dai succhi, dagli umori e dai punti forti e più irresistibili di certe commedie, ad esempio, di Cukor o di Hawks come Susanna: c’è qui difatti tutta l’eccentricità importante e rara che rende la vita un posto in cui subìre la piacevolezza improbabile e ricca delle sorprese, degli eventi che meno ti aspetti. Con inquadrature e un montaggio limpidi, al servizio della narrazione, Mazzacurati dirige una sorta di “zoo di cose” che si dispiega progressivamente nel suo irresistibile caos, costruisce via via una galleria di personaggi, comici grotteschi e memorabili, come l’archivista ninfomane-sadomaso, il prete interpretato dal sempre eccellente Giuseppe Battiston, o la presenza felliniana di Milena Vukotic, qui sensitiva sghemba e in fin di vita che non avrebbe affatto sfigurato da qualche parte in Giulietta degli spiriti. Ma gli stessi protagonisti sono ben tratteggiati, soprattutto Valerio Mastandrea, tutto fatto di un understatement di perfetta bravura e sottintesi. Mazzacurati non poteva forse dare l’addio al cinema, al suo pubblico e al resto della vita in maniera migliore, esprimendo nel suo genere alla perfezione un invidiabile gusto per la delicatezza e del sospeso che accarezza il buffo e alla fine piacevole delirio del tutto.
Daniel Montigiani
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