Blue
Jasmine Un film di Woody Allen
Articolo di Daniel Montigiani
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L’affascinante Jasmine, trovandosi improvvisamente a subire la distruzione del matrimonio con il ricchissimo uomo d’affari Hall, abbandona la sua vita newyorchese a base di feste, raffinatezze e serate esclusive per trasferirsi a San Francisco nell’umile appartamento della sorella. Da questo inaspettato inizio, Jasmine proverà a dare vita a un vero, nuovo ripartire. Con Blue Jasmine Allen si allontana in maniera evidente dalle sue due pellicole precedenti, un “fuggire cinematograficamente” in primis da Midnight in Paris, dalla sua leggerezza riuscita e affascinante proprio perché assolutamente apparente, dalla sua riflessiva e stimolante Joie de vivre, ma anche dalla leggerezza purtroppo inconsistente, incapace di dotarsi di una struttura coerente e robusta del (comunque divertente) delirio di To Rome with love. Casomai, se proprio vogliamo fare dei paragoni, Blue Jasmine può maggiormente avvicinarsi a più cupe pellicole alleniane come Match point e Cassandra’s dream. Come spesso accade in Allen, uno dei suoi più fini, felicemente sottili meriti che ben si presenta in Blue Jasmine è un invisibile eppur saldo equilibrio fra dramma/nevrosi e ironia, ma, appunto, similmente alle sue due pellicole londinesi sopracitate la parte del drammanevrosi che si mostra talvolta attraverso incasellate ma ben percepibilii implosioni di diretti scoppi (d’ira) vince su quella nutrita dalla risata (qui rigata, volutamente priva della dolce fertilità della leggerezza).
All’eccellente Cate Blanchett è dato il mirabile e trasformista compito di incarnare in maniera per- fettamente centrale l’importanza di questo equilibrio di opposti. L’essere e il porgersi di Jasmine, emette una continua incatenante, scatenante nevrosi secca, sprovvista di fertili spunti e riflessioni, come se viaggiasse continuamente nel proprio interno sgra- devolmente asciutto eppure febbrile.
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“Quando Jasmine non vuole vedere qualcosa ha l’abitudine di voltarsi dall’altra parte” è una frase interna al film che ben caratterizza e in parte sintetizza spietatamente il suo personaggio, il suo comportamento.
La donna, a causa di una continua serie di atteggiamenti contraddittori ora di stimabile ironia ora deprimenti, ma anche a causa del caso, della semplice sfortuna di aver avuto a che fare con pessime persone o di averne incontrate altre ottime ma alle quali dovrà rinunciare, suscita nello spettatore sentimenti contrastanti: non dispiacerebbe affatto consolarla, ma allo stesso tempo, è assolutamente da biasimare per alcuni “corridoi” del suo comportamento pieni di errori, di ripetizioni che avrebbe dovuto evitare.
La donna, a causa di una continua serie di atteggiamenti contraddittori ora di stimabile ironia ora deprimenti, ma anche a causa del caso, della semplice sfortuna di aver avuto a che fare con pessime persone o di averne incontrate altre ottime ma alle quali dovrà rinunciare, suscita nello spettatore sentimenti contrastanti: non dispiacerebbe affatto consolarla, ma allo stesso tempo, è assolutamente da biasimare per alcuni “corridoi” del suo comportamento pieni di errori, di ripetizioni che avrebbe dovuto evitare.
In molti momenti il volto della Blanchett, da essere sano portatore di un piglio caustico diviene a causa del suo nervosismo una specie di rischiosa zona bergmaniana, fumante nella sua duttile espressivià. Ma in Blue Jasmine si alza ben chiara anche la peculiarità di Allen di potersi permettere – un po’, ad esempio, come in certi film di Rohmer – di fingere di essere “naif”. |
Nei primi minuti del film,
immediatamente dopo l’establishing shot/inquadratura dall’alto
dell’aereo in viaggio vediamo la protagonista (inizialmente intenta
soltanto a un “delizioso nervosismo”) durante il volo parlare
gentilmente e con discreto entusiasmo con una sconosciuta, per poi
successivamente venir inclusa in campi lunghi mentre si entusiasma in
modo quasi banale con il marito della nuova casa.
Questa iniziale parte di film può, appunto, sembrare naif, ingenua, persino sciatta ma – con tutti i limiti che può certamente avere Allen con il ripetersi di atmosfere di film in film e il suo “citarsi addosso”- si tratta di un’apparente, quasi eccessiva “perfezione” che funge da inaspettato preludio a quello che presto diventerà il continuo e spiacevolmente sorprendente disastro nevrotico-esistenziale della protagonista. In questo senso, dunque, potremmo affermare che, soprattutto nella prima parte, le zone cinematografiche visibilmente ricche come, ad esempio, la villa con vista sull’oceano del marito della protagonista ripresa in campo lungo vanno al di là di quello che realmente sono: grazie alla sua regia “invisibile” e all’abile sistemazione/scelta di luoghi di cui Allen è capace, immagini-inquadrature come quella della villa sul mare sono a prima vista quasi “confortevoli”, “calde” per il lusso di cui sono pregne, ma, parallelamente, anche un po’ disgustose, indigeste nel loro eccesso sterile opulento, come se rappresentassero nemmeno poi tanto ermeticamente il corrispettivo visivo della “lussuosa corruzione” del marito di Jasmine. In questo senso, forse, Allen sembra anche fare con discrezione la parte del borghese che critica il mondo borghese (si noti a tal proposito il talvolta selvaggio product placement disseminato vocalmente da Jasmine).
Un film, insomma, dove tutti gli elementi silenziosi e non si riuniscono per erigire una solidissima, disgraziata costruzione di una grande, amara desolazione.
Questa iniziale parte di film può, appunto, sembrare naif, ingenua, persino sciatta ma – con tutti i limiti che può certamente avere Allen con il ripetersi di atmosfere di film in film e il suo “citarsi addosso”- si tratta di un’apparente, quasi eccessiva “perfezione” che funge da inaspettato preludio a quello che presto diventerà il continuo e spiacevolmente sorprendente disastro nevrotico-esistenziale della protagonista. In questo senso, dunque, potremmo affermare che, soprattutto nella prima parte, le zone cinematografiche visibilmente ricche come, ad esempio, la villa con vista sull’oceano del marito della protagonista ripresa in campo lungo vanno al di là di quello che realmente sono: grazie alla sua regia “invisibile” e all’abile sistemazione/scelta di luoghi di cui Allen è capace, immagini-inquadrature come quella della villa sul mare sono a prima vista quasi “confortevoli”, “calde” per il lusso di cui sono pregne, ma, parallelamente, anche un po’ disgustose, indigeste nel loro eccesso sterile opulento, come se rappresentassero nemmeno poi tanto ermeticamente il corrispettivo visivo della “lussuosa corruzione” del marito di Jasmine. In questo senso, forse, Allen sembra anche fare con discrezione la parte del borghese che critica il mondo borghese (si noti a tal proposito il talvolta selvaggio product placement disseminato vocalmente da Jasmine).
Un film, insomma, dove tutti gli elementi silenziosi e non si riuniscono per erigire una solidissima, disgraziata costruzione di una grande, amara desolazione.
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Daniel Montigiani
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