La grande
bellezza Un film di Paolo Sorrentino Recensione di Daniel Montigiani Da giovane l’enigmatico Jep Gambar- della aveva pubblicato un romanzo – L’apparato umano – che gli aveva portato subito soldi e fama.
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Nonostante questo luminoso esordio sotto tutti i punti di vista, Jep Gambardella non è ancora arrivato all’opera seconda. Gambardella, oggi, invece, si occupa di giornalismo e, soprattutto, assiste quotidianamente alla mondanità romana a base di pacchiane feste e appuntamenti ad alto tasso di ricchezza, un agglomerato vivo e semovente che non può che far pensare a un ingombrante, rumoroso e gigantesco Nulla. Questa pellicola di Sorrentino è stata più volte pubblicizzata, salutata come una dolce vita felliniana di oggi. Tuttavia, dopo aver ben inglobato la maestosità delle tragiche, divertite, divertenti, spettacolari meschinerie offerte dalle immagini, dalle sequenze del film e dalla sua “storia”, con un minimo meccanismo di approfondita riflessione, può essere in realtà chiaro come questa Grande bellezza non sia poi così avvicinabile alla Dolce vita, anche se è vero che, effettivamente, ci possono essere degli interessanti paralleli tra le due opere, a partire dal protagonista che, come Mastroianni nel ‘60, svolge il “ruolo” un po’ passivo di osservatore discretamente disincantato e che, allo stesso tempo, funge da personaggio-punto saldo, stabile nella caotica sequenza di eventi.
In
questo senso, dunque, ad esempio, è possibile sostenere che, nella
seconda, ricca sequenza, la cubista dai vestiti riccamente carnevaleschi
che danza con movenze quasi teatrali nel cubo-rettangolo di vetro
nella discoteca ricorda momenti dei balli inquietanti e grotteschi di certe sequenze del Satyricon;
oppure abbiamo la “notturna passeggiata” di Ramona (Sabrina Ferilli),
di Jep e del maggiordomo fra le stanze (anche) inquietanti piene di
statue unicamente illuminate da una sontuosa luce di candela che può
ricordare le sequenze torbidamente scure degli scavi sotterranei di Roma. E ancora, impossibile – sembra – non (far) notare, sempre assistendo al film da una prospettiva di citazioni felliniane, come le corse silenziosamente frenetiche delle figure nere delle suore ricordino quelle ancora più inquietanti di Giulietta degli spiriti (ma, ancora rimanendo in questo “tema”, anche l’oscura eppure divertente e compiaciuta risata verso la macchina da presa da parte di un’anziana suora fa pensare a certe grottesche e scure figure religiose che macchiano la delirante catena onirica di Otto e mezzo). E, infine, come, forse, non pensare all’intensa e carismatica comparsa di Fanny Ardant che augura a Jep “Bonne nuit” come a una aristocratica e aggiornata versione dell’Anna Magnani che compare in Roma dando la buonanotte a Fellini?
Il delicato e non facile confronto fra Sorrentino e Fellini, al di là
delle citazioni più o meno precise e dettagliate, può essere
utilizzato anche per quanto riguarda la modalità di trattamento visivo e
“morale” di Roma, di alcune sue zone e della sua “fauna umana”.
Nella prima sequenza de La grande bellezza, ad esempio, similmente a Fellini, Sorrentino sembra da subito voler presenta- |
re,
distribuire un’immagine più o meno globale di Roma fatta di contrasti:
in questa prima sequenza, infatti, si dà il via alla mostrazione di una
Roma sia rozza, “ruttona” che orgogliosamente opulenta nella sua
eleganza e bellezza (si pensi al grasso e rozzo uomo che si lava nella
splendida fontana con vista sulla città). Come spesso accade in Fellini, insomma, Sorrentino sembra mostrare sia con intenzionalità stilistica che in maniera assolutamente spontanea e naturale una Roma “barocca” sia nel senso più nobile del termine dal punto di vista artistico (rappresentato dalla bellezza architettonica e monumentale della città) che in senso di eccesso negativo, ovvero della rozzezza (anche pseudoculturale) delle persone che la abitano, che la percorrono come delle più o meno esplicite incarnazioni di schifezze viventi. La seconda, stilisticamente altissima sequenza che si caratterizza in particolar modo per un “rozzume” di persone simili alla parte più squallida del dionisiaco che si dimenano in una discoteca è piuttosto emblematica in tal senso: qui Sorrentino, forse, sembra suggerire che spesso, nei contesti più popolani della mondanità, non c’è bisogno di parlare per far capire che si fa schifo, ma sono sufficienti dei gesti tristemente espressivi.
Cercando
di voler fare dei paragoni con un altro regista (vivente, questa
volta), potremmo sostenere che Sorrentino, come Pappi Corsicato, è fra i pochi registi italiani contemporanei a essere poco “italiano”, a essere dotato di un impianto stilistico perlopiù personale, dunque riconoscibile.
Nella sequenza iniziale, infatti, i personali, quasi elettrici movimenti della macchina da presa fanno subito riconoscere allo spettatore accorto la presenza sanamente barocca e movimentata di Sorrentino. Da notare, inoltre, come in maniera perfettamente emblematica, la prima immagine – un cannone che spara un colpo ripreso in maniera vorticosa – dia subito l’idea di una Roma assimilabile a un gigantesco caos, un gigantesco rumore sotto forma di città.
Ma Sorrentino, come Corsicato, da abile soggetto e manipolatore del postmoderno, non si limita a covare e a “rilasciare” citazioni felliniane. Sempre rimanendo in ambito cinematografico, assistiamo a echi visivamente lynchiani, ma anche a ricordi di Freaks di Tod Browning. Dal punto di vista più ampio delle arti visive, il regista sembra ricordare atmosfere metafisiche à la De Chirico grazie allo spiazzante e insolito trattamento di alcuni spazi che da “normali” si trasformano in bizzarre sedi (come la scena in cui la “donna-nana” con la parrucca blu si aggira per la discoteca spettralmente e inverosimilmente vuota) ed evoca gli scatti fotografici di Guy Bourdin (si pensi alla donna-comparsa che si agita con frenetica sensualità di fronte a un ventilatore). In più, Sorrentino getta uno sguardo su certa arte contemporanea talvolta con intenzione di tributo (vi sono echi delle opere perfettamente visionarie di Bill Viola ben visibili, ad esempio, nel primo piano monumentale della bambina poco prima che questa si esibisca nella sua rabbiosamente bizzarra performance di secchiate di colori) e altre volte, invece, con una voglia di divertita presa di giro (la donna “artista” che in una delle prime sequenze va a sbattere volontariamente la testa contro il muro per poi gridare agli spettatori perplessi “Io non vi amo!” dà l’idea di una parodia degli eccessi delle performance, ad esempio, di Marina Abramovic o comunque di certa Body Art).
Nella sequenza iniziale, infatti, i personali, quasi elettrici movimenti della macchina da presa fanno subito riconoscere allo spettatore accorto la presenza sanamente barocca e movimentata di Sorrentino. Da notare, inoltre, come in maniera perfettamente emblematica, la prima immagine – un cannone che spara un colpo ripreso in maniera vorticosa – dia subito l’idea di una Roma assimilabile a un gigantesco caos, un gigantesco rumore sotto forma di città.
Ma Sorrentino, come Corsicato, da abile soggetto e manipolatore del postmoderno, non si limita a covare e a “rilasciare” citazioni felliniane. Sempre rimanendo in ambito cinematografico, assistiamo a echi visivamente lynchiani, ma anche a ricordi di Freaks di Tod Browning. Dal punto di vista più ampio delle arti visive, il regista sembra ricordare atmosfere metafisiche à la De Chirico grazie allo spiazzante e insolito trattamento di alcuni spazi che da “normali” si trasformano in bizzarre sedi (come la scena in cui la “donna-nana” con la parrucca blu si aggira per la discoteca spettralmente e inverosimilmente vuota) ed evoca gli scatti fotografici di Guy Bourdin (si pensi alla donna-comparsa che si agita con frenetica sensualità di fronte a un ventilatore). In più, Sorrentino getta uno sguardo su certa arte contemporanea talvolta con intenzione di tributo (vi sono echi delle opere perfettamente visionarie di Bill Viola ben visibili, ad esempio, nel primo piano monumentale della bambina poco prima che questa si esibisca nella sua rabbiosamente bizzarra performance di secchiate di colori) e altre volte, invece, con una voglia di divertita presa di giro (la donna “artista” che in una delle prime sequenze va a sbattere volontariamente la testa contro il muro per poi gridare agli spettatori perplessi “Io non vi amo!” dà l’idea di una parodia degli eccessi delle performance, ad esempio, di Marina Abramovic o comunque di certa Body Art).
Ma la Roma mostrata da Sorrentino non si divide soltanto in
quella splen-didamente barocca e sontuosa e quella emanatrice di un
panorama (soprattutto umano) disperatamente squallido e senza speranza;
il regista, infatti, (ci) mostra e (ci) offre anche una Roma da due
altre opposte prospettive: una è quella della mostrazione degli interni,
degli esterni e delle persone della capitale puramente da un punto di
vista baroccamente visivo, senza parole (o quasi), attraverso vortico-
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si), e
seducenti movimenti della macchina da presa, e l’altra è quella che si
basa invece quasi iesclusivamente isu i(anche lunghe) conversazioni fra i vari personaggi, sia maggiori che minori. In quest’ultimo caso, scompaiono i sapientemente studiati barocchismi della regia e vengono fatti emergere i caratteri delle varie persone (si pensi a quelli eccellentemente riusciti di Iaia Forte e Roberto Herlitzka). L’alternanza di scene orgogliosamente visionarie ad altre perlopiù stabili e basate su conversazioni/discussioni di vario genere dà luogo a una “storia” che in realtà è più “non-storia”. Il film, infatti, non sembra avere una gran voglia di mostrarsi e di essere riassunto da un punto di vista narrativo, poiché più volte sembra contare la cosiddetta “atmosfera”.
Tuttavia, anche se in più occasioni sembra non succedere niente di particolare o comunque di non ben descrivibile, quasi paradossalmente, c’è sempre da aspettarsi qualche cosa. Quando lo spettatore crede di aver acciuffato il film, quando pensa di poterlo trattenere, di poterlo tenere fermo magari per un’inquadratura più chiara e “narrativa” di altre, ecco che il film gli sfugge di mano, grazie anche e soprattutto alla potenza delle svariate sorprese che propone.
Questa sorta di senso della sorpresa è ben notevole nella scena del lancio dei coltelli (una delle più belle del film).
In questa, vediamo Iaia Forte che, vestita in maniera pacchianamente sgargiante e scintillante, è grottescamente e quasi demenzialmente terrorizzata e tremante, mentre una forte luce rotonda, quasi da palcoscenico, la inonda. Questa delicata peculiarità del suo primo piano, insieme all’elemento della luce, può inizialmente far pensare che la donna stia recitando una pièce teatrale su un piccolo palcoscenico e che, forse, si stia preoccupando perché ha dimenticato alcune battute. Ma un repentino cambio di inquadratura mostra come, in realtà, la donna faccia rischiosamente parte di un gioco da circo: attorno a lei, infatti, poco dopo, notiamo dei palloncini pieni di vernice a cui un lanciatore di coltelli sta puntando con le sue “armi affilate”. La donna, dunque, teme “semplicemente” che il giocoliere possa sbagliare mira e colpirla.
E, a proposito di colpire, questo film di Sorrentino, con la “grande bellezza” di molte sequenze, non può che colpire lo spettatore. E, a ogni modo, come nel caso del già citato Corsicato, sarebbe esteticamente ingiusto non riconoscere almeno la sua originalità e la sua impronta personale.
Tuttavia, anche se in più occasioni sembra non succedere niente di particolare o comunque di non ben descrivibile, quasi paradossalmente, c’è sempre da aspettarsi qualche cosa. Quando lo spettatore crede di aver acciuffato il film, quando pensa di poterlo trattenere, di poterlo tenere fermo magari per un’inquadratura più chiara e “narrativa” di altre, ecco che il film gli sfugge di mano, grazie anche e soprattutto alla potenza delle svariate sorprese che propone.
Questa sorta di senso della sorpresa è ben notevole nella scena del lancio dei coltelli (una delle più belle del film).
In questa, vediamo Iaia Forte che, vestita in maniera pacchianamente sgargiante e scintillante, è grottescamente e quasi demenzialmente terrorizzata e tremante, mentre una forte luce rotonda, quasi da palcoscenico, la inonda. Questa delicata peculiarità del suo primo piano, insieme all’elemento della luce, può inizialmente far pensare che la donna stia recitando una pièce teatrale su un piccolo palcoscenico e che, forse, si stia preoccupando perché ha dimenticato alcune battute. Ma un repentino cambio di inquadratura mostra come, in realtà, la donna faccia rischiosamente parte di un gioco da circo: attorno a lei, infatti, poco dopo, notiamo dei palloncini pieni di vernice a cui un lanciatore di coltelli sta puntando con le sue “armi affilate”. La donna, dunque, teme “semplicemente” che il giocoliere possa sbagliare mira e colpirla.
E, a proposito di colpire, questo film di Sorrentino, con la “grande bellezza” di molte sequenze, non può che colpire lo spettatore. E, a ogni modo, come nel caso del già citato Corsicato, sarebbe esteticamente ingiusto non riconoscere almeno la sua originalità e la sua impronta personale.
Daniel Montigiani
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