Qualcuno da amare
Un film di Abbas Kiarostami Articolo di Daniel Montigiani Tokyo. Per pagarsi l’Università una studentessa di sociologia cerca di “arro-tondare” facendo la escort. |
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Una sera viene inaspettatamente mandata a casa di un nuovo cliente, un professore universitario ormai in pensione che, da subito, mostra di affezionarsi delicatamente alla ragazza. Ma la già fragile situazione viene resa ulteriormente, drasticamente sensibile dal poco pacifico ex-ragazzo della protagonista che non accetta tale “novità”. Abbas Kiarostami, considerato uno dei registi contemporanei più importanti, dopo aver trascorso anni e anni a creare pellicole nella sua patria (Iran), e dopo essere passato con bellezza misteriosa nel 2010 in Italia con Copia conforme, torna dopo circa due anni con un film girato per la prima volta in Giappone. E, proprio a proposito di Giappone, Akira Kurosawa, poco prima di morire disse che Kiarostami era uno dei cineasti emergenti che ammirava di più. Più che probabilmente, se Kurosawa potesse assistere a questo film, continuerebbe ad ammirarlo.
Difatti, anche se Qualcuno da amare non risulta a fine visione docilmente, in- cantevolmente perfetto alla pari di altre, alte opere del regista iraniano come Il vento ci porterà via o Il sapore della ciliegia, è comunque vero che ci troviamo di fronte a una pellicola assolutamente forte, capace di emanare – come spesso, del resto, succede con Kiarostami – un invisibile eppure così diffuso incrocio di delicatezza e spietatezza, soprattutto psicologica.
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Tutto
il film – o almeno la maggior parte di questo – sembra ricavare il
proprio innegabile fascino da una specie di grammatica (visiva, ma
anche nardegli opposti (opposti che, appunto, non sembrano che essere dei piccoli riflessi della già citata macro-dicotomia fra delicatezza e crudeltà). Per quanto riguarda gli opposti da un punto di vista filmico, proprio cominciando dall’inizio, abbiamo ad esempio l’immobilità dei personaggi seduti nel locale della prima scena che si scontra con il dinamismo della scena successiva, principalmente basata su una macchina che, di sera, trasporta la protagonista verso l’anziano e nuovo cliente.
Kiarostami attiva questa velata e affascinante “filosofia degli opposti” an- che per quanto riguarda i mezzi di co- municazione (e, di conseguenza, i rapporti fra i personaggi): nel corso della seconda scena, la protagonista, mentre si fa trasportare in macchina verso il nuovo cliente, accende il cel- lulare e ascolta passivamente i messaggi nella segreteria lasciati da sua nonna che la cerca (e la attende alla stazione)
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da ore, senza però poi
richiamarla; poco dopo, nella scena successiva, il nuovo cliente (l’ex
professore univeristario), non appena nota l’arrivo della ragazza, cerca di liberarsi al telefono di un conoscente, evitando la comunicazione. Il telefono, dunque, paradossalmente, in questo caso, più che una modalità di contatto sembra uno strumento lugubremente perfetto per evidenziare – forse antonionianamente – le più che pulsanti incomunicabilità fra molti dei personaggi. Altro interessante opposto ben rilevabile è quello dato dall’“aspetto” della prima parte del film piuttosto distante da quello della seconda. Nella prima parte della pellicola, infatti, Kiarostami non bada tanto alla narrazione ma, al contrario, fa prevalere l’atmosfera stilistica emessa dalle talvolta ipnotiche inquadrature immobili dove il “mondo” del fuori campo sembra essere persino più importante del visibile, dai densi ed eloquenti piani-sequenza.
In questa prima parte, insomma, Kiarostami, con la sottile classe di una persona consapevole delle proprie capacità registiche, pare voler ricordare allo spettatore che, anche se ci troviamo in Giappone e non nel suo Iran, le sue cifre stilistiche di battaglia sono più o meno sem- pre presenti. Nella seconda parte, invece, il regista sembra voler mettere un po’ da parte queste sue cifre registiche per concentrarsi mag-
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giormente sullo sviluppo e
sul proseguimento della storia che, per la sua sempre più notevole
tensione, getta diegeticamente addirittura quasi un senso di thriller, caratteristica quest’ultima in genere poco presente nella sua folta filmografia. Ma anche se, appunto, la seconda parte è più imbevuta di storia rispetto alla prima, grazie all’ultima inquadratura del film “che va in frantumi”, è chiaro come ci sia la possibilità di assentarsi almeno il tempo di un fotogramma dalla narrazione per dare spazio a un’immagine che, generosamente, si offre come vasta, enigmatica e inaspettata metafora assolutamente tutta da discutere.
Daniel Montigiani
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