:“La letteratura è salute” diceva Deleuze. Noi potremmo estendere tale assunto anche al teatro. È quasi un dovere perché anche nell’arte scenica laddove il delirio, il problema psichico, il trauma, non trova uno sbocco al di là dell’io, si creano solo vicoli ciechi, sentieri interrotti, abissi bui.
Deleuze dice, in quel libretto capitale che è Critica e Clinica: “Scrivere non è raccontare i propri ricordi, i propri viaggi, i propri amori e i propri lutti, i propri sogni e i propri fantasmi. Sarebbe come peccare per eccesso di realtà, o d’immaginazione: in ambedue i casi è l’eterno papà-mamma, struttura edipica che si proietta sul reale o s’introietta nell’immaginario”. Quanto più vere queste parole se al processo letterario sostituiamo l’arte scenica. Eppure in questo Padre di Vacis quello che si compie sulla scena è proprio un monumento a Edipo, come complesso non come mito. Le storie che le sei giovani attrici (peraltro molto brave) raccontano, continuano ad avvilupparsi intorno al rapporto complesso e a volte traumatico con i propri padri. Traumi che sono tutti loro e vengono rivissuti sulla scena più come in una seduta psichiatrica pubblica che come un ricostruire il vissuto in assunti mitici universali che includano il pubblico nell’affabulazione. Si può solo compatire, commuoversi per le disgrazie altrui, non essere coinvolti in un oscuro strappo dell’essere. A Ginevra, lo scorso settembre, ho potuto assistere a Father di Peeping Tom. In quell’occasione avveniva un potente scarto mitico, un’evocazione di forze oscure, a partire da quel padre abbandonato in quella strana casa di riposo. Il padre, non era un padre, era Kronos, evirato e depotenziato, scagliato nel Tartaro dal figlio/Zeus inconscio del fatto che presto sarebbe stato a sua volta Kronos e ne avrebbe condiviso la sorte. Il padre che mangia i figli, i padre che viene evirato dai figli. La lotta generazionale per il potere sulla realtà. Roba forte. Presentata con molta ironia, sfuggendo sempre al patologico, per evocare il mitico. Così come nel Lear di She She Pop, presentato proprio in questo festival delle colline Torinesi giusto la sera prima. Il rapporto padre/figli/e tra gli attori e i propri genitori, si illumina e si apre, proprio perché irrorato dall’affiorare del mitico suggerito dalla vicenda di Lear. Di questo spettacolo ne parleremo diffusamente in una recensione dedicata, qui ci serve solo come esempio di un processo virtuoso, aperto, comunicante, contrario alla chiusura verso il clinico, l’irrisolto, il trauma personale che attanaglia il lavoro di Vacis. :”La letteratura incomincia solo quando nasce in noi una terza persona che ci spoglia del potere di dire IO”. Così Deleuze. Noi potremmo correggere leggermente l’assunto e dire che il teatro nasce solo a quella condizione. E invece in questi racconti l’io delle attrici è protagonista, è tutto chiuso in loro nelle loro proprie vicende, non c’è lo scarto verso un’apertura che coinvolga. Manca, e questa mancanza produce un’inevitabile scivolare verso la clinica. Peccato. Peccato che nel teatro italiano si abbia così tanta fiducia nella parola capace di raccontare i drammi. Invece di cercare i buchi tra le parole, invece di usare corpo, movimento e immagine per dire ciò che non si può dire, si crede ciecamente nel verbale che spesso è solo verboso. Si ha fiducia nel dramma borghese o personale che sia. Non si cerca altra via d’uscita. Qualcuno nella critica ha evocato per questo spettacolo il theatre du reél. Non è questo il caso. Il theatre du reél possiede una certa distanza brechtiana che permette al caso singolo di universalizzarsi, perché non c’è rapporto emotivo ma solo critico. In questo caso si punta tutto sul patetico, sul sentimentale, sul commovente. Come se queste storie private potessero in qualche modo darci delle risposte. Ma come diceva Carmelo Bene, in teologia non si danno risposte, solo domande. È questo che dovrebbe fare il teatro, come lo fa il miglior teatro. Gli esempi di Peeping Tom e She She Pop servivano proprio a questo: a confrontare gli esiti su uno stesso tema comune. Nei primi casi vi è un emergere di un flusso di domande, paure, oscuri fantasmi che ci attanagliano benché si cerchi costantemente di rimuoverli seppellendoli sotto il tappeto della civiltà; d’altro il tentativo di toccare il facile sentimento, promuovendo ancora, benché non ce ne sia proprio bisogno, il patetico del dramma, del conflitto parentale irrisolto, l’imperio della clinica. Un’altra occasione persa per il teatro italiano di viaggiare verso nuovi orizzonti che ridiano a quest’arte dignità e funzione. Eppure in questo paese ci sono stati i grandi che hanno indicato la strada. Continuano però a restare sepolti e inascoltati. Enrico Pastore
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