Ciò che è ibrido è difficilmente qualificabile. Vi è qualcosa di equivoco in ciò che nasce dalla fusione di generi diversi appartenenti a famiglie dissimili. Ciò che non rientra nel canone inquieta e attrae allo stesso tempo. La metamorfosi dell’eterogeneo è l’epifania della possibilità, un annuncio della meraviglia.
L’arte dalle sue origini moderne, all’alba del Rinascimento, ha subito il fascino di queste generazioni equivoche. All’origine della concezione moderna dell’arte, gli artisti hanno intuito che la fissità dei generi e dei canoni fosse una gabbia dalla quale fuggire se si voleva sfiorare il miracolo della generazione. Il neoplatonismo fu il motore di questa trasformazione nel mondo dell’arte. L’intento di cogliere la fissità del mondo delle idee nel fluire arrembante delle cose. Il teatro era in un certo senso al centro di questa tendenza. Ogni cosa era teatro, persino i quadri, le sculture, le fontane, fino al trionfo del barocco laddove si magnificava il gran teatro del mondo. Ma questo fiorire era più evidente nelle forme minori, occasionali, nei trionfi, nei cortei, nelle grottescherie e nelle mascherate accompagnate da carri allegorici. In queste manifestazioni nate dalla volontà dei principi di magnificare la potenza delle proprie corti si metteva il luce una tendenza degli artisti a misurarsi con l’impermanente. E così l’acqua, il fuoco, la luce, il corpo vivente in movimento. Il trapassare costante delle immagini. L’azione del tempo che fugge e dissolve s’accompagna a una netta tendenza verso la teatralizzazione dell’agire, verso la spettacolarità. Il Novecento ha ripreso il contatto con l’ibrido. Per scalfire la fissità ideale del bello e dell’arte, ha ripreso a giocare con i miscugli improbabili, dapprima con le avanguardie storiche e infine nel secondo dopo guerra con gli happenings, le performance. Oggi, in questo momento di stanca delle arti, in cui l’abbondanza delle manifestazioni fa pensare più a un proliferare canceroso che a una vera e propria ricchezza, l’ibrido è la bandiera dietro cui tutti si rifugiano per sentirsi parte del nuovo che avanza. Nell’ultimo anno non ho visitato festival o rassegna in cui, come prima istanza in ogni catalogo o comunicato stampa, non si sbandierasse questo credo nella mescolanza. Il crossover è ormai divenuto canone. Non vi è più una spinta ideale che rappresenta l’immagine che l’arte ha del mondo, di se stessa e del suo operare, ma un prender posto tra i seggi del partito del nuovo a tutti i costi. Le improbabili categorie di classificazione animale proposte da un’antica enciclopedia cinese, L’emporio celeste di conoscimenti benevoli, è posta all’inizio del catalogo della Bologna Live arts week, proprio come un manifesto programmatico. Arti non difficilmente classificabili e che hanno in comune solo l’esser fatte dal vivo. Esperienze da fruire nella completa impermanenza. Chi non assiste non avrà memoria, le tracce scompariranno come impronte sulla sabbia. L’ibrido è fragile, vive la gloria di una notte per poi trapassare. I festival non fanno che mettere in evidenza questo fenomeno ricorrente. Il processo, l’azione viva nata nel momento dell’incontro con il pubblico è cifra di un incistarsi del pensiero artistico che non va al di là del momentaneo. Manca il progetto, manca l’influsso dell’ideale che spinge il transeunte ad agire. Durante quest’esperienza bolognese risultava evidente lo scarto di pensiero fondativo tra un’opera come HRPCHD, che era la manifestazione di un pensiero rivoluzionario che tendeva a scardinare concetti invalsi da secoli nell’arte occidentale, concetti fondativi come l’autoralità, la manifestazione dell’intenzione dell’artista, il libero esperire delle opere che stralcia d’un sol passo tutti i pensieri sull’opacità dell’arte, e alcuni gesti e pratiche artistiche contemporanee, nate più da un desiderio clinico di esprimer se stessi. Se Cage nel suo monumentale musicircus partorisce mondo e pensiero, in altri casi ci si trova di fronte a manifestazioni di sé alquanto imbarazzanti risultando nient’altro che patologiche messe in evidenza di casi clinici. Farò due semplici esempi che ho avuto modo di osservare in questa rassegna bolognese. Da una parte l’opera di un giovane compositore newyorkese, Adrian Rew, dall’altra la performance di Claudia Triozzi. Nel primo caso l’azione spalanca finestre sul mondo facendo prendere coscienza, ampliando la nostra consapevolezza di ciò che ci circonda, dall’altra una performance tesa a voler significare e che si dimostra nient’altro che un agire patologico. Andrian Rew fa un’operazione semplice. Va in un casino di New York e registra il suono emesso dalle macchine da gioco. Le migliori quattro registrazioni vengono emesse senza rielaborazione alcuna, in cicli di 40 min. Da quattro diverse fonti sonore. Il suono senza l’immagine genera un paesaggio d’inganno. Questa colonna sonora ammaliante fatta di suonini graziosi, voci delicate e invitanti, rumor di moneta che annuncia una vincita, jingle ammiccanti del mondo dei balocchi e infine la quasi totale assenza dell’umano. Quasi nessun chiacchiericcio. Solo il suono che ammalia e addormenta. Una sorta di calmante, di cattivo balsamo che avviluppa la frustrazione del gioco. In questa semplice operazione di Adrian Rew, nella piccola stanzetta, mal segnalata, dell’ex Ospedale dei Bastardini di Bologna, si mette in evidenza un mondo di follia dal sapore zuccheroso e perverso. Un mondo che torna al mondo senza giudizio, così per quello che è, illuminato dall’azione chirurgica dell’artista. In Boomerang ou “le retour à soi” di Claudia Triozzi invece si assiste a un fenomeno assolutamente inverso. Sulla scena una struttura intricata di tubi innocenti e due donne. Una sdraiata che urla, l’altra seduta in terra che incomincia a smontare la struttura. Due schermi proiettano dei video. Delle interviste a varie persone che parlano del proprio lavoro o di se stesse: un’attrice in pensione, un esperto di nodi, un archeologo, una giovane danzatrice. Nel loro dire si evince qualcosa dell’autrice più che una visione di insieme. Un accumulo di materiale spropositato e intessuto con immagini dal vivo che disturbano il segnale. Fiaccole incendiate, una donna in armatura che richiama un po’ Carmelo Bene (solo nel ricordo per carità), delle forme di danza. Il tutto accompagnato dallo smontaggio della struttura finché al fine non rimane nulla o quasi. Un accumulo e uno smontaggio. Come diceva Clov in Finale di partita: “i chicchi si aggiungono ai chicchi finché non resta che un mucchio, un piccolo mucchio, l’impossibile mucchio”. Nel cumulo qualcosa appare, è ovvio. In due ore di materiali esposti e sovrapposti, qualcosa traspare come le pagliuzze d’oro che restano nel setaccio dopo che il fango è filtrato via. Ma sembra tutto il frutto del caso. E soprattutto risplende che il dramma è tutto interno all’artista. Non si partecipa a questo mondo che nasce sulla scena. Si assiste a qualcosa di privato che sconciamente diventa manifesto. La scena è impermeabile, il pubblico condannato al ruolo di voyeur. L’io che si destruttura sulla scena è un io privato, un hortus clausus alla percezione e alla comprensione del pubblico. Un io che non dovrebbe esserci, perché come sapeva ogni poeta greco, l’io deve farsi da parte se si vuole che si manifesti l’azione del dio. Se dunque da un lato Adrian Rew, senza giudizio, mostra un mondo e una maschera con cui abbiamo a che fare volenti o nolenti, dall’altra si ostenta un sé di cui si può tranquillamente fare a meno. Se un’azione diventa necessaria al fine di avere una chiave per scoperchiare un mondo, dall’altro vorremmo veramente chiudere quella porta. Sia chiara una cosa: i festival in questo non sono colpevoli. Una vetrina mette in mostra l’ultima collezione. Se questa manca di buongusto è l’artista che ne porta il peso. Intervista a Daniele Gasparinetti, direttore artistico di Bologna Live Arts Week EP: Nel catalogo affermate di non avere tesi da dimostrare o da enunciare, eppure presentate una teoria di compresenze caratterizzate dalla produzione di processi effimeri di cui l’unico modo per averne ricordo è farne esperienza. Mi sembra in fondo che questa sia una forte presa di posizione. DG: Diciamo che ci sono due piani: quello delle pratiche e quello delle affermazioni che puoi fare su delle pratiche. Sul piano delle pratiche, su ciò che noi seguiamo quasi per statuto, è chiaro che c’è una presa di posizione perché facciamo solo un determinato tipo di cose. Quello che non abbiamo aggiunto è quello che viene definito uno statement, ossia un sistema dichiarativo che in qualche modo si sovrappone come strato alla semplice organizzazione di pratiche. Non facciamo affermazioni su quel meta-livello. Però il campo di azione è molto preciso. EP: Sembra comunque una presa di posizione anche politica quello di presentare delle pratiche che si costituiscano come esperienze che il pubblico condivide con l’artista. È come un mettere in discussione il un rapporto consuetudinario con il pubblico, tra performer e osservatore. DG: È impossibile disarticolare il rapporto percetto/percepiente. Lo puoi eludere, trasfigurare ma di fatto ma c’è sempre un agente e un occhio che osserva. Non è nostra intenzione eliminare questa frontiera. EP: Non intendevo dire che vi è una volontà di eliminare questo rapporto, ma solo di volerlo mettere in discussione. DG: Più che altro si indagano determinate frontiere. Come per esempio fa MK con Michele Di Stefano che fa una ricerca specifica su questo, affiancandola al suo operare classico di danzatore. Ma non è questo il punto. È comunque impossibile, c’è sempre uno spettatore e un evento questo rapporto non è destituibile. Piuttosto la scelta di lavorare fuori dal teatro, qui all’ex Ospedale dei bastardini, è una scelta radicale. Questo è un festival che avrebbe potuto benissimo essere stato organizzato nei teatri, invece abbiamo scelto di operare in questo posto che offre solamente delle stanze vuote, senza strutture tecniche. Non ci sono gli apparati dell’illusione. Poi c’è la questione che qui si elimina il palco, si crea un piano comune tra spettatore e performer e questa è una cosa che abbiamo indagato insistentemente fin dall’inizio in cui si è cercato di creare un organismo comune tra pubblico, tecnici e artisti che è il tentativo di costruire tutto una altro tipo di situazione. Ci interessa la parola condivisione. Pensiamo che i fenomeni culturali siano fondamentalmente dei fenomeni di condivisione. Gli artisti quindi messi in queste condizioni si trovano ad avere un altro tipo di interazione. Vi sono alcuni come Di Stefano che lo fanno di default, altri invece li forziamo. Vi è quindi un dato più di natura politico produttiva cercando di immaginare delle altre condizioni di vita delle live arts, in cui possano comunque esistere nella loro complessità ed eccellenza qualitativa anche in assenza di infrastrutture. EP: Cosa sono le live arts? Una forma radicale di pensiero artistico/filosofico fatto prassi? DG: Credo che questo sia un neologismo, un termine non stabilito. Bisogna vedere cosa si andrà a formare al di sotto e anche quanta gente lo adotterà. Come spessa accade con questi termini che non vanno a identificare una cosa che esiste essi diventano dei contenitori. È un altro modo per nominare la problematica dell’interdisciplinarietà o della transdisciplinarietà. È un nominare una specie di ordine superiore che contempla cose eterogenee. EP: Parliamo di HRPCHD: quel’è stata la molla che vi ha spinto a ricostruire questo musicircus di Cage? DG: Quello che ha fatto scattare l’operazione è stata una questione di passaggi generazionali. Era un’idea che abbiamo tenuto nel cassetto per molto tempo e alla fine è venuta alla luce come risonanza rispetto a certi discorsi che stanno facendo molti artisti visivi che vengono chiamati “Nativi digitali” che si confrontano a livello filosofico ed esistenziale con la questione dei Big Data. Quindi visto che è venuto fuori un panorama di persone che riflettono su questa questione, l’opera di Cage si è venuta a costituire come una sorta di pretesto per mettere insieme un gruppo di diciannove opere, che formano la parte visiva, di artisti che si confrontano con il problema dei big data. Enrico Pastore
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