Una sala. Grande, anche se non come avrebbe dovuto. Cinque clavicembali, cinquantuno casse di diversa potenza e discordi orientamenti distribuite nello spazio. Grandi e piccoli schermi sparsi anch’essi. Finestre verso mondi artistici lontani. Il pubblico, infine. Viaggiatore. Più viandante, perché il viaggiatore ha una meta precisa, e qui, una meta non esiste. Esiste solo l’esplorazione di uno spazio sonoro e visivo in cui innumerevoli processi sono in moto, ognuno indipendente dagli altri. Allo spettatore il compito di costruirsi un percorso, crearsi un’esperienza della complessità.
Questo è HRPCHD: uno dei più complessi Musicircus ideati da John Cage e composto insieme a Lejaren Hiller, uno dei padri della musica al computer. Questo happening musicale di Cage fu eseguito per la prima volta in una palestra dell’Università dell’Illinois nel lontano 1969. In quell’occasione parteciparono dalle settemila alle novemila persone. Questo per dare l’idea dell’ampiezza di questa composizione decisamente sui generis. Cage ha dato voce a diverse istanze nella composizione di questo gigante sonoro. Da una parte una richiesta, quella di Antoinette Vischer, di comporre un lavoro per clavicembalo. Cage non amava questo strumento che, a suo dire, gli ricordava il suono di una macchina da cucire. Poi vi era l’idea di complessità, di un ambiente in cui potessero avvenire più cose contemporaneamente, non necessariamente legate e comunicanti tra loro, dove ogni cosa avesse lo spazio e il modo di crescere autonoma e indipendente. Era un pensiero che lo assillava dal 1952, da quel Untitled Event al Black Mountain College che diede il via a molte cose oltreoceano e non solo. Ma vi era anche un’altra urgenza. Quella di creare non oggetti d’arte ma processi artistici privi di intenzione comunicativa. Per meglio dire, privi di intenzione totalmente. Anche questa era un’ossessione di Cage. Soprattutto da quando i vari movimenti artistici dall’Happening a Fluxus si rifacevano a lui obliando, consapevolmente o meno, questo punto cruciale del suo pensiero. Nel 1960 aveva composto Theatre Piece, proprio come risposta ai primi Happening sorti a New York dopo il primo storico evento di Allan Kaprow nel 1958. Molti dei fautori dell’Happening erano proprio allievi di Cage e si rifacevano, chi più, chi meno, alla sua opera e al suo pensiero. Sempre evitando accuratamente il principio di non intenzionalità di Cage. Creare complessi processi artistici non intenzionali, questa era la vera rivoluzione di Cage. Scardinare una delle chiavi di volta del pensiero artistico occidentale, ossia che l’arte sia la manifestazione dell’intenzione dell’artista che ha qualcosa da dire al mondo. Per Cage invece il compito dell’arte era scoprire dei processi esperienziali in cui esplorare il mondo, prenderne coscienza, incrementare la nostra consapevolezza delle dinamiche in cui la natura e la vita operano: “Quando creo un happening faccio del mio meglio per rimuovere le intenzioni, in modo che quello che viene fatto non obblighi l’ascoltatore in nessuna maniera. Io penso che non siamo più interessati alla validità della composizione: siamo interessati all’esperienza delle cose”. Non l’artista al centro, ma il processo di scoperta, l’esperienza dinamica e consapevole di nuovi sentieri di fruizione del mondo e delle sue meraviglie. La libertà di poter scegliere, di montare la propria visione del mondo grazie all’esperienza artistica. Per questo la complessità, a volte abnorme, nei suoi lavori. In HRPCHD tale ricerca della molteplicità è inoltre un omaggio a Mozart: “Mi piace Mozart perché è orientato verso la molteplicità […] in due o tre misure scritte da lui possono coesistere più modi di fare le cose, anziché uno solo”. E Mozart fa proprio parte di HRPCHD sia come materiale da cui sono desunte alcune sezioni delle partiture solistiche dei clavicembalisti, sia proprio come metodo compositivo per il fatto che Cage utilizzò, oltre all’I Ching, il Gioco di Dadi di Mozart per determinare la composizione composizione. Lo scorso 21 aprile a Bologna, durante la quarta edizione della Live Arts Week, nelle sale del Mambo, il Museo d’arte moderna, si è ricostruito questo colossale Musicircus. Lo spazio è stato l’unico difetto di questa realizzazione bolognese, peraltro molto accurata. Per quanto la sala fosse vasta non era ampia abbastanza per permettere al pubblico di scoprire dei veri e propri percorsi personali. La grande quantità di fonti sonore nello spazio finivano per impastarsi, creando un unico effetto sonoro risultante dal melange delle sorgenti. È stato comunque un’esperienza unica per rivedere/riascoltare (in Cage è difficile distinguere l’esperienza sonora da quella auditiva) un lavoro capitale nella storia delle arti performative e non. L’ampiezza della sala è un difetto da non imputare a nessuno. Si fa con quello che si ha a disposizione. É encomiabile invece lo sforzo di ricostruire questo lavoro estremamente complesso, soprattutto per la riproduzione delle tracce sonore. Anche la parte visiva è stata curata nei minimi particolari. Numerosi e ricchi gli interventi di svariati artisti visivi da Ogino Knaus a David Horvitz, da Jennifer Chan a Jaakko Pallasvuo. E molti altri che non nomino perché la lista sarebbe troppo lunga. L’accuratezza e la disciplina di esecuzione è un dei più comuni modi di fraintendere Cage. Il fatto che l’esecutore e il curatore godano di ampie libertà di intendere la partitura porta molto spesso a esecuzioni lontane dallo spirito cageano. In questo caso invece i realizzatori si sono messi al servizio di Cage e delle sue idee riproponendo una ricostruzione accurata e fedele. HRPCHD è un elogio della complessità e della fruizione libera, attiva e consapevole che è giusto riproporre. É un ritorno agli albori di un modo nuovo di comporre e di intendere le live arts, che invita alla riflessione su cosa siano diventate oggi le live arts, se sussista ancora traccia di quello spirito rivoluzionario e innovativo, se le funzioni siano cambiate, se bisogna attuare una rimessa in discussioni delle procedure. Un lavoro come HRPCHD è non solo un’esperienza artistica indimenticabile, è anche un modo per porsi delle domande sull’oggi che a volte si riappropria del passato senza averlo veramente capito e metabolizzato, usandolo come vuota citazione, senza essersi appropriati di istanze e consapevolezze necessarie per procedere nel contemporaneo. HRPCHD è non solo una via per rivedere o riascoltare il passato artistico che ha fatto storia, è una via intelligente per rimettere in discussione il presente, in modo da poter immaginare e realizzare dei futuri possibili. Enrico Pastore
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