L’origine sono tavole anatomiche. Il mettere in evidenza plateale la natura corpo sordo e nascosto dalla pelle. Queste visioni sottocutanee vengono incollate sul corpo vivo di Silvia Costa e fotografate da Silvia Boschiero. Questo è l’incipit. Una mostra fotografica esposta nel foyer alto del teatro Franco Parenti.
Poi vi è una performance. Una donna su una sorta di cassa di legno, un’altra donna sdraiata supina sotto, come cadavere in una bara. Carte accartocciate con immagini di anatomia rendono soffocante questo spazio minimo. La luce è basilare, un po’ soffusa a causa di un telo fotografico che spande una luce uniforme, di taglio, laterale. Si diffonde nella sala una traccia di suoni elettronici composta da Lorenzo Tormio, compositore che affianca spesso i lavori della Costa. Incomincia una sorta di danza, estremamente elementare, che conduce a un incontro tra le due donne: quella sepolta e quella danzante. La prima prende le carte, le svolge sul corpo della seconda rivelando le tavole anatomiche che vengono sovrapposte al corpo vivo. Due, tre volte. Forse più non ricordo. Tutte ugualmente immortalate da un flash come se si fosse sotto una macchina a raggi X. Poi la danza riprende in un unisono composto dai doppi corpi delle due danzatrici, fino a un lento scambio di posizioni rispetto all’inizio. Un sovrapporsi un po’ scontato dell’organico all’inorganico, un cercare un transito da l’uno a l’altro un po’ troppo elementare. Il tutto si svolge a ritmo constante, con un tactus identico dall’inizio alla fine, i segni chiari non danno possibilità di cercare altro in questa performance. Il tutto è troppo elementarmente basilare e scontato. I gesti un po’ retorici, quasi sovietici nelle pose. L’evocazione dei doppi, la dissoluzione dei corpi, la morte meriterebbe immagini più evocative. O forse una grande ironia, quella di Kantor, per trattare di massimi sistemi. Invece c’è un lavoro povero, non so se umile, un presentare con sufficienza senza troppa meditazione. Una sufficienza imperdonabile in contesti di questa importanza. Il titolo in fondo era un destino: A sangue freddo. E infatti l’insieme è algido, frigido, assolutamente poco empatico, ciò che avviene nello spazio performativo non coinvolge, non incuriosisce essendo il percorso già scontato dopo le prime mosse, come in certi finali di scacchi che è quasi inutile giocare perché già si sa dove conducono. Ero curioso di vedere un lavoro di Silvia Costa. Da molto ne sento parlare ma non ne avevo mai avuto l’occasione. La delusione è stata tanto grande quanto intensa era la mia curiosità. I lavori non sempre riescono. Sono ovviamente stato sfortunato, anche se devo registrare che questo lavoro mi sconcerta per la pochezza compositiva, la banalità dei gesti, la poca solidità del lavoro. Ha un che di immaturo e naif che non mi aspettavo. Spero in un’altra occasione, perché speravo in effetti nella sua giovinezza e nelle sue capacità. L’intervista che segue avrei preferito farla dopo aver visto la performance in modo da approfondire con lei queste critiche al lavoro chiedendole magari le ragioni delle sue scelte. Purtroppo non è stato possibile. Intervista a Silvia Costa: EP: Silvia mi racconti del tuo lavoro, com’è nato? Quale idea ti ha condotto a realizzarlo? SC: Questo è il secondo progetto fotografico in cui collaboro con Silvia Boschiero. Queste foto fanno parte di una pubblicazione legata a uno spettacolo teatrale eseguito nell’aprile scorso in un festival a Bergen (N) con un artista norvegese e una compagnia di Ravenna, gli Ortograph. Questo lavoro è diviso in capitoli e ogni artista ne ha curato uno. L’ultimo capitolo era una pubblicazione in cui ognuno di noi produceva delle immagini. Mi sono domandata cosa fare, così ho tirato fuori una mia vecchia idea di utilizzare queste stampe anatomiche, che mi affascinavano ma non riuscivo bene a capire perché e come usarle, così ho sfruttato questa occasione coinvolgendo Silvia e così abbiamo realizzato questi scatti. SB: Secondo me, la tematica è un po’ quella del corpo femminile. Tutti, prima o poi, arriviamo a una ricerca sul corpo, e io volevo visualizzare quello che stava all’interno. Si percepisce sempre il corpo come un limite, come un involucro, come un confine. Avevo cominciato con il fare degli autoscatti, dei nudi, e lavorare poi in postproduzione, ma il lavoro non è stato soddisfacente. Poi ho ripreso in mano il lavoro con Silvia. SC: Sì, quello che volevamo fare era di rendere il corpo come una sorta di lente di ingrandimento che fa vedere ciò che c’è all’interno, utilizzando però la tematica dello strato e del rivestimento. Così siamo confluite nell0idea di stampare semplicemente su della carte le immagini delle tavole anatomiche a misura del mio corpo. Poi abbiamo cercato di capire come adattare questo materiale, come poter dare matericità. Ciò che mi pare bello di questo lavoro è che le immagini in sé sanguinolente, con vene e muscoli, diventano sul corpo una sorta di pizzo, di decoro che applichi sulla pelle. Così abbiamo realizzato questi scatti, in un lavoro sperimentale sul set perché avevamo capito che la materia giusta era la carta ma non riuscivamo a capire come metterla sul corpo.A volte era demoralizzante capire che non c’era verso. Poi in qualche modo alla fine ci siamo riuscite, soprattutto con i movimenti, perché in questi scatti la cosa più importante è la posa, il gesto che rende questo strato. Ho mostrato in seguito le foto al direttore di Uovo, a cui sono piaciute e abbiamo deciso di fare questa mostra e di accompagnarla con una performance. Nel lavorare live ho capito che non potevo utilizzare quello che facevo sul set, ma ho dovuto, per fortuna, operare scelte diverse ed è stato interessante capire come trasformare un’altra volta l’idea di strato, questa idea di corpo. Così ho deciso di non lavorare su una sovrapposizione ma su uno sdoppiamento. Il tentativo dunque, insieme alla danzatrice Laura Pante, è di dare tempo e corpo a questi scatti. EP: Alcune pratiche performative tendono a riformulare, a ridefinire il rapporto tradizionale con il pubblico, a sovvertire la dinamica io agisco/tu osservi, in modo da inserire dei contesti di indeterminazione, che porti il pubblico a partecipare della realizzazione dell’opera facendone reale esperienza e l’artista a cedere parte del controllo sul risultato. Pensi che bisogna lavorare in questo senso, cercando di rivitalizzare un rapporto pubblico/artista un po’ usurato e rassicurante per entrambi? SC: Io quando vado a teatro o a vedere una performance ricerco una netta separazione tra artista e pubblico. Io voglio vedere qualcosa e darmi il mio tempo per interpretarlo. Normalmente vivo sempre come una violenza quando devo essere coinvolta. Io sono lì per essere seduta sulla mia sedia e farmi il mio viaggio personale. Tante volte mi è capitato in pratiche performative che mi coinvolgevano in maniera attiva, magari a sorpresa perché se so che è così evito, mi mettono in imbarazzo. O uno ricerca questo come spettatore, ma è una ricerca specifica se no io voglio rimanere nel mio, non voglio essere messa sul palcoscenico quando non l’ho scelto. Io comunque penso che i ruoli debbano essere separati. Il critico scrive, l’attore fa, il pubblico guarda. C’è un confine che bisogna rispettare. È un discorso che ho affrontato quando mi hanno chiesto dei blog, del fatto che tutti possono scrivere, fare il loro commento, questa libertà. Ecco, ci ho messo veramente tanto a rispondere a questo ma io penso che i ruoli debbano restare distinti. Penso che questa sorta di decadenza culturale che stiamo vivendo è dovuta anche alla non separazione dei ruoli. Ciò che fa il critico quando scrive su un blog, fa il suo lavoro, ed è molto diverso dall’esprimere un’opinione personale. Anch’io come artista faccio il mio lavoro e a meno che il mio lavoro non si rafforzi con l’intervento del caso e del pubblico non cerco questo. Io sono per la separazione dei ruoli, perché rafforza quei ruoli.Vengono invece svenduti se tutti possono fare tutto. EP: Secondo te è possibile oggi fare ricerca in Italia? Ci sono le condizioni per poter lavorare? SC: Io ho rinunciato completamente a lavorare in certi contesti. Ho avuto la fortuna di incontrare delle persone che hanno creduto in me e che mi hanno dato delle opportunità. Adesso, per quel che mi riguarda, la possibilità di lavorare mi vengono da fuori. Ti faccio un esempio: sono appena stata due mesi a lavorare alla Schaubühne di Berlino. Lì in lavoro dell’attore esiste. Le persone recitano cinque, sei giorni la settimana, anche gli attori giovani. Loro lavorano e cresceranno un sacco. Un attore in Italia invece chi è? Cosa fa? Come può formarsi? Ti ho fatto l’esempio dell’attore, ma è lo stesso per i registi. Come faccio a diventare quello che sogno se non ho la possibilità di mettermi alla prova? Bisogna avere anche la possibilità di sbagliare. Il teatro non è mentale è empirico, bisogna stare negli spazi, con gli elementi. E poi con questa riforma ministeriale, con i finanziamenti in tre anni, ecco io la leggo e mi chiedo se colui che l’ha fatta abbia una minima idea delle condizioni in cui si lavora in Italia. Se si rendano conto di come siamo sopravvissuti in Italia. La linfa per i giovani artisti sono i festival e questa riforma farà si che i festival verranno tagliati. Io non ho mai avuto una produzione nella mia vita, vivo grazie alle partecipazioni ai festival. Per fare un lavoro c’è bisogno di tempo. La conseguenza di questa riforma sarà che la gente mollerà. Finché sei giovani magari ti adatti, vai in strada, accetti ogni condizione, poi però a lungo andare fai i conti con te stesso. Per altro fai conti con un dimensione sociale, non con le tue vere capacità. Sono molto triste per questa riforma perché veramente è stata fatta da qualcuno che non sa cosa sia successo in questi anni in Italia. Oppure vuole uccidere quel poco che c’è stato. Enrico Pastore
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