Boyhood Un film di Richard Linklater Articolo di Alessio Mida
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Se inizi le riprese di un film che dureranno 12 anni ci sono due possibilità: o non hai idea di ciò che stai facendo oppure fai parte di quel piccolo gruppo di persone che alla classica domanda da colloquio “come ti vedi tra dieci anni?” guarda fuori dalla finestra e accenna un sorriso sognante.
Linkater si guadagna giustamente l’Orso d’oro alla regia per Boyhood, probabilmente sognandoselo di notte per tutta la sua vita o almeno durante il periodo delle riprese. Cresciuto assieme agli attori, a parte della troupe, alla produzione e alla vita stessa che il film ha partorito, ha potuto davvero mettere al mondo un film che alla fine si rivela quasi come un figlio che cresce, si modifica, si responsabilizza, si fa grande. Ho pensato che per parlare di questo film non si possa evitare di menzionare il suo modus operandi, il concept della sua produzione. Ci sono altri casi nel cinema di produzione del film che diventa il film stesso, come se quello che succede sullo schermo sia un po’ una sorta di conseguenza di quello che succede in questo lunghissimo arco di tempo. I personaggi cambiano, ma cambiano soprattutto le persone che ci sono dietro, cambiano lo sceneggiatore e il copione, cambiano le idee del regista, la sua visionarietà, il suo stile. Non è un film che si presta facilmente a un commento, ad un’analisi classica, tutt’altro, bensì si sente il bisogno di rivederlo, di coglierne altre sfumature sicuramente non colte, quando in sala tutti si stavano chiedendo come potessero invecchiare così naturalmente quei personaggi, come sembrasse così normale e allo stesso tempo shoccante che Mason a 11 anni fosse davvero una versione più grande del Mason di 5 e non un attore meno giovane o un fratello. Sono dettagli che creano il discorso filmico, lo articolano in modo moderno, si percepisce il passare del tempo, ne consegue che ci troviamo di fronte ad una tecnica del cinema anticlassicista, quando si tendeva a mascherare quest’artificio. Adesso si mette quasi in vetrina, la sensazione è che lo voglia osservare meglio, si voglia spogliarlo del suo status di personaggio per avvicinarlo a quella di persona, attore, individuo, al di là del film e dal cinema. Ma non c’è solo questo. Mason e Lidia sono i figli di Maria, una ragazza senza partner, che passa la sua esistenza cercando di trovare un posto nel mondo, una professione, un compagno che possa essere un buon padre. Ci prova e ci riprova, ma il risultato è sempre lo stesso, deludente, fallimentare. I ragazzi, intelligenti e vivaci, cercano di ottenere una loro identità all’interno di una famiglia moderna, ma ovviamente le continue sovrapposizioni alla figura del padre, cui devono abituarsi, rendono complicato il compito. In realtà però entrambi riescono a portare avanti le loro personalità con discreto successo. Più vivace Lidia, più introverso Mason, ma entrambi si sfaccettano come ragazzi riflessivi e con acume, curiosi e vogliosi di vita. Ma parliamo dell’infanzia, chiaro, il discorso infatti si fa interessante quando Linkater ci presenta i due eroi sotto le spoglie della misteriosa età del titolo, l’età dei ragazzi, quando improvvisamente diventa difficile incontrarli, diventa raro poterli capire. Il titolo dice un po’ tutto il film, dice che le età, i momenti della vita, sono forse ancora più importanti delle scelte che facciamo, delle persone che incontriamo, che tutto questo non è uguale se l’età è diversa, l’età che ci sentiamo, l’età che abbiamo. Anche la mamma, che inizia il film come un’adolescente con figli, nonostante abbia sicuramente più di venti anni, la percepiamo come una teenager cresciuta appena un po’ che deve trovare ancora il suo posto e che prova a ribaltare il classico viaggio scuola – università – lavoro che era fallito a causa delle sue gravidanze. Tutto ciò di questi tempi è attuale come non mai. Il ridisegnare le tempistiche di vita, il poter cambiare le proprie prospettive in qualsiasi momento (grazie soprattutto alla velocità con cui si ottengono e si scambiano informazioni) la velocità con cui le persone si spostano, comunicano, l’apertura allo spostamento, la mortalità media che in molti paesi al mondo ha raggiunto i novanta anni, tutto ciò sta trasformando ormai da diversi anni il concetto di età (in senso plurale). Sempre più spesso sento dire a quarantenni-cinquantenni che da grandi vorrebbero fare questo o quello. La vita adulta è a questo punto, un secondo episodio di questo film del quale si può aspettare un capitolo di Linkater. Alessio Mida
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