Lo scorso 6 e 7 dicembre si è svolto a Torino il Festival Insoliti, organizzato dall’Associazione Artemovimento, dedicato alla danza d’autore ma aperto alle possibili incursioni di altre performing arts.
Più che il programma mi aveva incuriosito il dispiegarsi dei luoghi di questo piccolo festival: il fatto che si svolgesse in totale assenza del teatro, del luogo dedicato e destinato ad accogliere tutto ciò che si fa scena. Insoliti Festival sceglie, probabilmente costretto da motivi economici, una via atipica benché ormai storicizzata: quella di portare l’evento scenico (sia esso danza, teatro, performing arts) fuori dalla cornice che inquadra l’evento scegliendo di frequentare luoghi altri. Questa scelta negli anni futuri dovrebbe divenire la cifra di questo festival, la direttrice artistica Monica Secco dovrebbe, a mio avviso, esplorare con più convinzione questa ricerca di un luogo insolito che porti spettatore, artista, critico e curatore di festival a esperire metodi insoliti, o per lo meno infrequenti, di fruizione e condivisione dell’evento. Il mio è un invito a superare la trovata che fa sopravvivere un evento per far divenire la necessità la cifra di un progetto, di ciò che distingue perché frutto di ricerca voluta e non subita. Sabato 6 il festival ci da appuntamento in due appartamenti in zona Vanchiglia. Il pubblico entra, un po’ timoroso, imbarazzato quasi di entrar in casa d’altri e sconosciuti. Ci si siede sui divani, sulle sedie e per terra timidi e rigidi quasi domandandosi se sia il caso. Ma via via l’atmosfera si riscalda: la prima performance (S)figura seduta e (S)dice di e con Erika Di Crescenzo c.ia La Bagarre ha preso avvio ed è così contigua al pubblico da far pensar che quasi si condivide lo spazio d’azione. Poi si cambia appartamento, si salgono le scale, si entra in un nuovo ambiente già pronto ad accogliere noi, pubblico, e la performance, Questa volta è una danzatrice francese Rozenn Dubreuil con il suo Mon Enhervé c.ia pour un soir. Il movimento extraquotidiano della danza e della performance si stagliano in una luce insolita in questi ambienti caldi e quotidiani dove si svolge la vita intima di chi ci ospita. Eppure questa contrapposizione di artificio e naturalezza sembra dar vita più vera all’arte che, a teatro, osserviamo in maniera più distratta e confezionata. La cornice ci dona un punto di vista. Certo l’arte da salotto non è cosa così insolita, ormai è fenomeno storicizzato che torna e ritorna sul piatto della storia. Ma non è questo il punto. Quello che importa è la relazione che si instaura tra artista, critico e pubblico in un contesto di condivisione degli spazi, in cui si mescolano fatalmente le idee e le impressioni, dove effettivamente si crea un circuito e un flusso che nel luogo istituzionale si perde, dove ogni ambito vive segregato inaridendo l’esperienza che l’arte ci propone. La frontiera possibile dei festival è proprio quella di bypassare l’ufficiale, il rituale dell’andare e frequentare le performance, per creare nuovi organismi irrorati di linfe vitali nate dall’incon-tro/scontro di pubblico/critico/curatore/artista. Relazionarsi sull’espe-rienza più che sull’estetica. La performance e i festival come nucleo di attrazione di un insieme di persone che condivide tramite l’arte delle esperienze sensibili sui nuclei problematici della comunità. Non più osservazione/ammirazione dell’estetico ma prassi di filosofia, indagine del reale, antropologia del contemporaneo. Il giorno successivo, 7 dicembre, il festival si trasferisce al Museo Ettore Fico, uno spazio museale nuovo in Torino, in una zona decentrata rispetto al nucleo cittadino, ma uno spazio incredibilmente atto ad ospitare delle performance. Locali ampi, illuminazioni sapienti, geometrie ricettive al movimento. La giornata propone tre perfor-mance: La quarta potenza di mille di Tommaso Serratore con Giorgio Bevilacqua al contrabbasso; Primo strato d’amore di Monica Secco con Monica Secco, Olga Cenavesio, Elena Valente; Non me lo spiegavo, il mondo di Francesca Cola con Francesca Cola e Giulia Ceolin. La performance in un museo è ancora meno insolita rispetto all’appartamento. Le performance frequentano da decenni i musei, eppure ancora una volta non si può fare a meno di notare come la mancanza di un edificio teatro, scombini le ritualità solite. Il pubblico partecipa con più agio a questo gioco di incontro nelle le varie stanze dove si svolgono le performance. Si naviga, si esplora, non si subisce. Ancora una volta è la relazione che viene innovata non tanto la tradizione. È quindi in questa direzione che bisogna lavorare se si vuole ritrovare un pubblico e una funzione di e per la scena. È necessario lavorare sulla relazione che l’arte oggi vuole instaurare con il suo pubblico e quale funzione vuole essa assumere nei confronti della comunità che la accoglie. Il problema finanziario viene dopo. In prima fila deve esserci la consapevolezza che le arti devono ritrovare innanzitutto una nuova funzione nel contemporaneo per ristabilire una rinnovata e rafforzata liaison con un pubblico attento e consapevole. Ovvio che questa ricerca si scontrerà fatalmente con la politica perché diventa politica culturale attiva. Innescare nuovi metodi di fruizione e condivisione del reale è ciò che vorrà anche la politica? Oppure ciò che cercano assessorati e fondazioni bancarie sono lo sfruttamento del consueto e del conosciuto che insista sul rapporto benefi-cante/beneficato? Un’arte che sposta le sue frontiere dall’estetico al relazionale pone nuove questioni anche alla politica, perché bisognerebbe rimettere in discussione luoghi, modalità, consuetudini e ciò è a dir poco difficile che avvenga in una paese come il nostro. Eppure è una frontiera da indagare e attaccare con forza per ritrovare energia e funzione alla creatività artistica. Enrico Pastore
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