Hanna
Arendt la chiamava “la banalità del male”. In fondo è questo che siamo venuti a
vedere: la quotidianità di uno sterminio di massa. Non vi sono solo le
uccisioni, le torture, gli stupri. Un genocidio avviene anche grazie a tutta
una pletora di attività banalmente quotidiane che però, nella loro apparente
innocua efficienza oliano a dovere il meccanismo di violenza. È il caso delle
trasmissioni de la Radio des Milles Collines (RMC) che divenne la voce degli
Hutu durante lo sterminio dei Tutzi in Ruanda nel 1994.
È questo che vediamo in Hate Radio: la riproduzione esatta di poco più di un’ora di trasmissione della RMC comprensive di telefonate da casa, quiz a premi, dediche e canzoni, il tutto tra due tranche di testimonianze di sopravvissuti che raccontano come sono scampati a quest’olocausto africano. Un’ora e un quarto di trasmissione tipo che si svolge davanti ai nostri occhi, così com’era, senza aggiunte o commenti. La realtà così com’era. Così se per un momento ci dimentichiamo della questione: genocidio (difficile bisogna ammetterlo), e guardiamo il tutto con distacco osservando il teatro che si sta agendo davanti a noi, abbiamo la sensazione che manchi qualcosa a questa piece. Nonostante le cuffie date in dotazione per simulare l’effetto radio, l’esattezza della riproduzione, i particolari minimi come la birra, il vestiario etc. qualcosa manca. Si ha la percezione di osservare un virus letale ormai inoffensivo, dormiente, tranquillamente sigillato nel suo vetrino. La simulazione di vita che vediamo scorrere davanti ai nostri occhi manca della pericolosità della vita. È un po’ come guardare una riproduzione perfetta di un pirana. Sappiamo che quello vero è letale, ma quello che stiamo vedendo e toccando è finto e inoffensivo. Probabilmente è questo l’intento: mostrare il meccanismo, riprodurre un fenomeno con la fedeltà maniacale dei Meininger. Ma vediamo di spiegarci meglio. Quello a cui assistiamo è un fenomeno importante nella cultura di lingua tedesca. Quello del cosiddetto Teatro documentario, o theatre du reel, di cui Milo Rau è un esponente di assoluto rilievo, è un fenomeno comunque che scuote le coscienze come da molto non succedeva. Le critiche che qui si avanzano sono impressioni, riflessioni avanzate con intento costruttivo. L’intervista che segue a questa piccola recensione chiarirà ai lettori italiani che ancora non conoscono quest’artista, le profonde motivazioni che lo spingono a creare lavori molto discussi. Quando assistiamo alla vicenda di Iago o di Macbeth, alle loro terribili macchinazioni o ai loro efferati delitti, benché di fronte a una maschera che incarna ciò che di nero e malvagio è insito nell’animo umano, siamo però certi di trovarci di fronte a qualcosa di vivo. Pensiamo all’Otello di Nekrousius, che riesce a rendere così evidenti e toccanti le raffinate tele tessute da Iago per spingere il suo comandante al delitto. Quando Iago appare siamo certi di trovarci di fronte a qualcosa di pericoloso. Quando invece ci troviamo di fronte alla scatola trasparente che contiene al suo interno l’esatta riproduzione dello studio radiofonico della RMC, con gli attori che riproducono parola per parola un’ora e mezza di trasmissione tipo, beh ecco, si ha l’impressione di osservare dei topi da laboratorio! È ciò è più evidente nelle pause, nei gesti quotidiani, nei tic, in tutte quelle banali movenze che dovrebbero simulare la vita quotidiana. In questa simulazione della vita manca la vita. Resta lo sproloquio propagandistico continuo, terribile per carità, ma alla fine noioso e questa monotonia ci anestetizza e si diviene, nostro malgrado, sordi alle parole. Tutto il contrario di ciò che dovrebbe fare il teatro: renderci svegli e coscienti di fronte al male che si nasconde sotto il tappeto della civiltà. Quello che manca è la sensazione di pericolo, la percezione reale che quello che si compiendo sulla scena potrebbe succedere anche a noi, non c’è la coscienza che le voci udite sulla scena potrebbero essere le nostre o potrebbero essere rivolte contro di noi, che noi stessi potremmo essere vittime di questa stessa propaganda. Insomma non c’è risveglio dopo la scossa della coscienza. Resta lo scandalizzarsi un po’ borgeois e molto civile verso qualcosa capitato ad altri molto lontani da noi. La stessa reazione che proviamo di fronte ai video di violenza e di guerra che quotidianamente ormai ci scorrono davanti. Il teatro però è presa di coscienza che noi tutti siamo Iago, che quello che lo spinge verso la vendetta e l’omicidio è qualcosa che si annida nell’animo di noi tutti, perchè tutti noi potremmo venir messi da parte in favore di quello che giudichiamo un parvenu! Nessuno è escluso, nessuno scappa alla miseria umana. È la presa di coscienza che sia la vittima sia il carnefice sono nascosti in ognuno di noi, potrebbero essere il nostro stesso destino. Ecco perché Shakespeare sparisce dietro ciascuno dei suoi personaggi, perché sono tutti dentro di lui, sono tutti pezzi della sua anima. Questo non avviene con Hate Radio. Di fronte a questa performance è subito chiaro chi sono le vittime e chi i carnefici, chi ha sbagliato, chi ha subito. Nella vita non tutto è così chiaro, il tutto è un po’ più confuso. Ma appunto siamo di fronte a una simulazione, fredda, razionale come un dato scientifico. Ciò che è controllato da l’impressione di poter essere dominato, mentre la sensazione che si dovrebbe provare è quella di essere testimone di un nero ribollente e incontrollato che s’agita sotto la pelle della civiltà e pronta a esplodere in ogni istante. Esattamente come per la gelosia di Otello. Tutti possono esserne posseduti. Enrico Pastore
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