Sezione Ecosofia - Alphaville Sezione diretta da Silverio Zanobetti
Rubrica Interviste e discussioni
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. Per una Ecosofia del futuro
Il sedicesimo numero della rivista PASSPARnous
propone la “Sezione Ecosofia”.
propone la “Sezione Ecosofia”.
per un ritorno al sentire naturale.
A cura di Silverio Zanobetti
Stefano Berni,
autore di Ritorno al sentire naturale. Arte, narrativa, filosofia, Aracne, 2013, pp. 148.
A cura di Silverio Zanobetti
Stefano Berni,
autore di Ritorno al sentire naturale. Arte, narrativa, filosofia, Aracne, 2013, pp. 148.
Stefano Berni è docente di Filosofia e scienze sociali presso il liceo Cicognini-Rodari di Prato. Attualmente è dottorando presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena e lavora su temi di storia dell’antropologia giuridica, dopo esser stato assegnista di ricerca dal 2002 al 2005 e professore a contratto presso la cattedra di Filosofa del diritto della stessa facoltà dal 2006 al 2008.
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Silverio Zanobetti: Il punto di partenza del tuo libro sembra essere il profondo legame tra la figura dell’artista e del filosofo, annunciata da Nietzsche nella Nascita della tragedia e ripresa da Foucault nell’ultima fase della sua ricerca, quella della Cura di sé e L’uso dei piaceri. Perché, ad esempio, Platone sarebbe un grandissimo letterato e artista più che un grande filosofo?
Stefano Berni: A mio avviso le tesi di Platone, Socrate e Paolo rappresentano la colonizzazione più nefasta della coscienza occidentale e diffondono le teorie pitagoriche e parmenidee, assurde dottrine per le quali vi sarebbe un’anima scissa dal corpo. Se prendiamo Platone come filosofo, non vale molto, soprattutto se pensiamo che non fa che registrare quello che aveva già detto il suo maestro, ma come letterato ci offre delle splendide pagine affascinanti e suggestive che mirano alla ricerca del sé. Sulla relazione tra arte e filosofia, poi, o meglio sul tema del filosofia come pratica di vita, intesa come opera d’arte, la teorizzazione è più complessa, ma sì, direi che è proprio in quella direzione che mira il mio lavoro.
S.Z.: Ci sono anche altri autori sullo sfondo di questo tuo lavoro, anche se mi sembra che tu abbia voluto basarti semplicemente sulla tua esperienza dell’arte contemporanea…
Stefano Berni: A mio avviso le tesi di Platone, Socrate e Paolo rappresentano la colonizzazione più nefasta della coscienza occidentale e diffondono le teorie pitagoriche e parmenidee, assurde dottrine per le quali vi sarebbe un’anima scissa dal corpo. Se prendiamo Platone come filosofo, non vale molto, soprattutto se pensiamo che non fa che registrare quello che aveva già detto il suo maestro, ma come letterato ci offre delle splendide pagine affascinanti e suggestive che mirano alla ricerca del sé. Sulla relazione tra arte e filosofia, poi, o meglio sul tema del filosofia come pratica di vita, intesa come opera d’arte, la teorizzazione è più complessa, ma sì, direi che è proprio in quella direzione che mira il mio lavoro.
S.Z.: Ci sono anche altri autori sullo sfondo di questo tuo lavoro, anche se mi sembra che tu abbia voluto basarti semplicemente sulla tua esperienza dell’arte contemporanea…
S.B.: La mia conoscenza dell’arte contempo- ranea è assai limitata, tuttavia il tipo di filosofia a cui penso di appartenere, l’indirizzo critico scettico della scuola di Francoforte, Nietzsche e Foucault, mi mette in guardia rispetto ai facili consumi, alle troppe similitudini tra sistema della moda, arte, pubblicità, cinema e così via. Mi insospettisce questa dualità tra arte di serie A e arte di serie B, come se vi fosse ormai un supermercato dell’arte al quale uno accede sulla base dei propri personali gusti. Qui mi fido più del mio gusto animale, certamente filtrato da secoli di cultura. Tuttavia, come anche recenti studi di psicologia tendono ad ammettere, anche in fatto di bellezza, l’evoluzione è importante. La scelta di un partner o di un cibo rientra in una categoria lato senso estetica ma che ne va delle nostre vite future. Perché l’essere anziché il nulla?
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Perché il bello anziché il brutto? Ebbene, perché anche
dell’arte noi scegliamo quello che ci permette un’immagine prospettica
migliore per la nostra vita.
S.Z.: Come comportarci oggi, dopo decenni di estetismo citazionista postmoderno, per ritrovare la fecondità della coincidenza nietzschiana di etica ed estetica, che sembra oggi persa laddove l’artista o si rinchiude autoreferenzialmente nel suo laboratorio alla ossessiva ricerca della novità, dell’originalità a tutti i costi o diventa un pubblicitario, un addetto al marketing che crea i suoi “concetti”? Cosa significa per te attuare una problematizzazione etica dell’estetica? Tornando a Nietzsche si potrebbe qui proporre un filosofo-artista che si ponga di nuovo come legislatore?
S.B.: Hai posto più domande, ognuna delle quali importante e complessa. Quello che propongo, è che l’arte e la filosofia debbano tornare a indicare comportamenti dirimenti e che abbiano un impatto sulle nostre vite. In questo senso parlo di un’est-etica che valorizzi il suo contenuto etico. Più volte si cita, spesso a sproposito, la frase secondo cui la bellezza salverà il mondo. In realtà, molti di coloro che la pronunciano, propongono delle vere e proprie brutture che impediscono agli uomini di vivere un mondo più bello. Immagina una città che riproduca all’infinito quello che un artista ha prodotto. In quale città vorresti vivere? Sappiamo dell’impatto dell’architettura sulla vita quotidiana delle persone, del tipo di case, di parchi, di giardini, di spazi sulla psiche dei cittadini. Penso che molti musei, soprattutto di arte contemporanea, siano spazi che ci salvano, nascondendole, dalle ossessioni di molti psicopatici. Forse hanno salvato loro ma non i loro potenziali fruitori. Ebbene, io vorrei che gli artisti riprendessero in mano la loro funzione guida di un tempo e imponessero un mondo più vivibile di quello che hanno trovato.
S.Z: A proposito dell’ossessione per la novità, per la creatività, mi è sembrata illuminante la tua tesi della cristianità ancora presente nell’arte contemporanea. Potresti spiegare questo concetto?
S.B.: Riconosco che la tesi che propongo è lapidaria e provocatoria ma è conseguente al ragionamento che svolgo. Molta dell’arte occidentale, anche quella contemporanea, eccede da un lato nella ricerca “spirituale” intesa come razionalizzazione, “concettualizzazione; dall’altro, e dualisticamente, nella “crocifissione” del corpo, nella sua autoflagellazione. Come ci ricorda Foucault, si è passati dalla confessione alla psicoanalisi, e l’arte è il risultato di questo racconto ossessivo del male, del peccato, della morte. Tali racconti mitologici sono certo affascinanti, il male ha la sua fascinazione, il bello annoia, non è originale, nel senso che non ci racconta l’origine della vita, la quale invece è dolore e fatica. Eppure bisognerebbe andare oltre a questa “mortificazione” dell’arte e spingerci a recuperare una pratica di vita più equilibrata, e qui la filosofia può insegnarci molto. Forse tu alludevi, nella tua domanda, al rapporto che mostro nel libro tra creatività e originalità. Ebbene, non è necessario che una pratica di vita migliore sia anche la più originale. La creatività deve mirare alla risoluzione di problemi quotidiani, altrimenti è mero divertissement.
S.Z.: Il titolo che hai scelto, Ritorno al sentire naturale, è molto rischioso: qualcuno potrebbe pensare a uno Stefano Berni che non ha letto Montaigne, Nietzsche, Kuhn, Foucault. Come riesci a conciliare il ritorno (nostalgico?) alla natura, alla corporeità con la seguente proposta, quasi costruttivista, che apre il tuo testo? «Che cosa abbiamo imparato oggi dall’estetica? Che l’arte non debba essere meramente imitativa, riflessiva del proprio tempo, bensì produttiva. Come la filosofia, come il pensiero, anche l’arte ha il compito di costruire la realtà, ma di costruirla per rendere più umano e vivibile il mondo che abitiamo». Non pensi che a causa delle dinamiche sociali ed economiche contemporanee, delle tecnologie morbide, accade ciò che aveva anticipato Nietzsche e cioè che il corpo diventa una pelle rivoltabile come un calzino e che ceda il confine tra organismo e macchina? E allora, mentre la parola “ritorno” fa pensare a un mero tentativo di ascoltare il corpo ( a un tentativo, come scrivi, di ri-conquista del naturale e del corporeo), non pensi sia meglio seguire l’indicazione di Nietzsche, e cioè la necessità di operare su di esso? Come può la ragione seguire le ragioni del corpo se il corpo stesso non è un porto stabile nei flussi e riflussi delle biotecnologie attuali, se il corpo non esiste più in quanto investito dai linguaggio dell’immaginario e della tecnoscienza, in quanto ormai diventato solo un «incrociarsi con il fattore tecnologico, il suo disporsi come una superficie d’incrocio di molteplici e mutevoli codici d’informazione, dal codice genetico fino a quelli dell’informativa»[1]?
S.B.: Ho pensato a lungo alla scelta del titolo. I miei scritti, che erano già circolati fra amici filosofi e artisti, sono stati tacciati di essere essenzialistici e reazionari. Ormai da più di trenta anni, sulla scorta delle intuizioni nietzscheane, rifletto sul tema della corporeità, ma ora le tesi scientifiche più avvertite, di stampo etologico ed evoluzionistico, confermano non solo la totale animalità dell’umano ma anche che le sue scelte dipendono in larga misura della parte del cervello più antica, emotiva, pulsionale, e che la razionalità, come intuì Nietzsche, non è che una piccola regione del corpo. Ciò non significa che l’ambiente e la tecnica non condizionino in larga misura l’agire umano, anzi, come comprese chiaramente il filosofo tedesco, la civiltà occidentale ha colonizzato quasi interamente la vita e ha reso l’uomo un soggetto addestrato, mansueto e mediocre. Ma come nel film di Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo, bisognerebbe lobotomizzare il soggetto perché questo smetta di uccidere, violentare, arrabbiarsi, imprecare, vendicarsi, amare, odiare, disprezzare, ribellarsi, sorridere e così via. Tuttavia la tecnica è inevitabile e probabilmente è una protesi naturale dell’uomo. Ma perché non usarla per vivere più serenamente? Per respirare aria più pulita, bere acqua più potabile, dormire di più e meglio senza rumori, fare sesso più facilmente e con meno stress, arrabbiarsi di meno e divertirsi di più, lavorare meno e occuparsi di più di scienza, arte e sapere. Questo io intendo per naturale: rispettare i ritmi del proprio corpo. Siamo esseri finiti, e de-finiti dalla nostra corporeità. Della conoscenza non ce ne facciamo niente se non migliora l’esistenza. Da sempre sappiamo che il maggior rischio del sapere è la hybris, fin da quando Adamo mangiò la mela; egli volle sfidare la sua fame di onnipotenza, sfidare Dio ovvero la natura per accedere alla conoscenza. Abbiamo barattato un po’ di conoscenza con l’infelicità. Ma ora la stessa conoscenza potrebbe restituirci un po’ di felicità. La costruzione di sé parte e deve partire dalla propria percezione corporea. Costruire per costruire ha poco senso. Non sono d’accordo con Sartre e Foucault su questo punto: inventare sé stessi per attingere all’originalità o all’autenticità è un movimento che non comprendo. Non siamo così liberi, non siamo liberi proprio a partire dal nostro corpo, che ci costringe a movimenti finiti, limitati, necessari.
S.Z.: Sostieni che le politiche culturali necessarie sono quelle che non cercano «tanto la Verità, quanto, piuttosto la Sanità. Ecco, noi vorremmo ridefinire il bello da un punto di vista della sanità fisica e psichica [...] Da questo punto di vista noi siamo moderni, cioè difendiamo ancora un valore: il valore della nostra corporeità, della nostra sanità, della nostra sopravvivenza»; «Sanità significa riappropriarsi del proprio corpo, riequilibrare il nostro modo di vita nelle città, ricercare ritmi più naturali, rispettare la natura, evitare le guerre, rispettare le generazioni future, se ci saranno, che verranno». Ora, è vero che per Nietzsche il risentimento nasce da un non riconoscimento delle istanze vitali e delle proprie virtù naturali, ma il discorso di Nietzsche acquista alcune volte un’ambiguità che evita giustamente di fare della sanità qualcosa di definito, fonte a cui tornare per disintossicarsi dalle patologie decadenti di una certa civiltà. In Nietzsche e la filosofia Deleuze ci avverte che Nietzsche vede nella malattia un punto di vista sulla salute; e sulla salute un punto di vista sulla malattia. Nietzsche riesce a cogliere nella malattia i sintomi di un'esuberanza vitale, di una sovrabbondanza di vita, qualcosa da utilizzare. «Con ottica di malato guardare a concetti e valori più sani[…]». Cosa pensi del tentativo da parte di Nietzsche di creare una grande salute politica per il domani nonostante (anzi, grazie alla)la sua malattia?
S.B.: Io leggo Nietzsche in una chiave “naturalistica” ma sappiamo che i suoi scritti sono stati spesso fraintesi, strumentalizzati. Io non voglio sostenere di avere la pretesa di leggere il vero Nietzsche; tutt’al più la mia sarà una delle tante interpretazioni. Se mi sono avvicinato a Nietzsche è perché avevo bisogno di un principio di autorità, perché forse non ero abbastanza forte o maturo per sostenere certe tesi. Ma l’interpretazione di Deleuze è molto condivisibile. Si può capire la salute solo se ci si ammala; l’amore quando si perde; la pace durante la guerra. Io direi che oggi il risentimento è presente nella maggior parte delle persone: Nietzsche lo definiva il nichilismo passivo. Gli artisti catalizzano questo stato d’animo e lo rappresentano, ma in realtà lo rialimentano e lo riproducono rafforzando questo sentimento distruttivo. Nietzsche è per me un grande psicologo; ha colto i meccanismi sociali che penetrano nell’individuo ma ha anche indicato i modi con cui liberarsi da tali pressioni sociali; Nietzsche da un punto di vista politico non ci dice niente se intendiamo la politica come la messa in forma delle relazioni sociali, ossia le istituzioni. Ma se crediamo, come io credo, che la politica passa attraverso i corpi, solo modificando i meccanismi psichici avremo la grande politica. Questa intuizione sarà raccolta dall’ultimo Foucault anche se non ha avuto il tempo di approfondirla.
S.Z.: Proprio a partire da queste tue considerazioni vorrei chiederti come vedi lo slogan che apre questa rivista Per un’ecosofia “contro natura”, che rimanda evidentemente alle “nozze contro natura” del testo Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, all’eterogenesi macchinica di Deleuze e Guattari[2]?
S.B.: Non conosco così bene questo testo; ma se guardo ad esempio a l’Anti-Edipo, ebbene vedo un tentativo, al di là di certo linguaggio ‘operaistico’, di naturalizzare l’animalità dell’umano, sottraendosi proprio alla macchina tecnologica della psicoanalisi, che vorrebbe normalizzare la legge, vorrebbe dare linguaggio al potere, per costruire corpi artificiali seriali, robotizzati, lobotizzati. Dare voce alla diversità, al molteplice, alla differenza, al relativo è proprio permettere alla schizofrenia, alla malattia di rispondere al potere e di ricomporre la ferita inferta dal sociale. Dobbiamo capire che la follia, come la violenza, è il prodotto del potere, ma ne è anche la risposta più sana; è la reazione immediata e più naturale del corpo; è ciò che resiste del corpo di fronte alla pretesa contro naturale di ammansire, omologare, non permettere un pensiero critico. Rispetto al vostro slogan, se leggiamo appunto la parola ecosofia intendendola come equilibrio tra ambiente e sapere, e per contro-naturale si intende, critica di un ritorno all’arcaico, ecco che potrei essere d’accordo con voi.
S.Z.: Tu scrivi: «Dimenticatevi della trasgressione. La trasgressione legittima inconsapevolmente il Potere. La vera trasgressione oggi sta nel ricercare il Bello». Ti riferisci anche all’effetto di autori come Bataille che fanno coincidere la trasgressione rispetto al reale e la fascinazione per il negativo con la stessa sostanza dell’esperienza estetica, ponendosi agli antipodi di quell’«estetismo etico» che proponi in questo testo nel momento in cui scrivi che «il tempo a nostra disposizione sta scadendo? Urgono politiche che non cerchino tanto la Verità, quanto, piuttosto la Sanità. Ecco, noi vorremmo ridefinire il bello da un punto di vista della sanità fisica e psichica»-«Questa capacità di equilibrio è ciò che Camus chiamerà ne L’uomo in rivolta «il pensiero meridiano: una misura che deve essere pura tensione [...]. Un pensiero che non deve dimenticare la crisi da cui si è originato, mantenendone viva la tensione ritornando spesso su se stesso: un pensiero critico e creativo capace di rinnovarsi, pronto a rovesciarsi e a spostarsi. Occorre uno sforzo, una lucidità critica, che mantenga la rivolta sempre all’interno della tensione tra pensiero e azione. La rivolta non è l’abbandonarsi alla distruzione, né tantomeno significa sfuggire la realtà chiudendosi nel pensiero: la rivolta non deve essere dismisura, ma capacità di mantenersi nella misura». È proprio una citazione da Camus (che non ho trovato nel tuo testo) che forse sintetizza bene queste tue parole: «La rivolta è essa stessa un'ascesi».
S.B.: Sì, la trasgressione è una dialettica senza sintesi, è una ribellione senza risultato. Ma è anche una rivoluzione, un rovesciamento, un capovolgimento che alla fine rimette tutto come prima. Camus l’aveva intuito molto tempo prima della fine del socialismo reale. Io invece non parlo di ascesi ma di feticismo delle idee. Per anni ci siamo innamorati dei concetti, delle concezioni del mondo, delle ideologie come se esse appartenessero alla stessa sostanza delle cose. Siamo ancora inconsapevolmente cristiani nella misura in cui abbiamo sostituito Dio alle ideologie. Il risultato oggi è l’abbandono delle idee per quello che Marx chiamava il feticismo delle merci. Insomma, il feticismo, come categoria psicologica, appartiene costitutivamente all’essere umano. I simboli del potere sono feticci da adorare, così l’arte, la pubblicità, il cinema, la fotografia, la musica sono sostituti di questa adorazione. Dall’ascesi siamo tornati all’adorazione degli oggetti, ma i risvolti psicologici sono gli stessi. Occorre procedere oltre il narcisismo, il sadismo, il totemismo ed affrontare un processo più evoluto, pragmatico, contingente, step to step in cui le energie corporee siano dispiegabili e comunicabili reciprocamente. Occorrono flussi di energia che colleghino, che armonizzino che creino ponti, anche tra uomo e natura, che permettano pratiche di libertà e felicità. Gli artisti e più in generale gli intellettuali si dovrebbero incaricare di essere le sinapsi di questo cervello collettivo, rappresentare quei neurotrasmettitori che stimolano l’attività creativa, di per sé felicitante, dell’agire umano.
S.Z.: Tu scrivi che: «L’arte deve diventare ricerca delle energie corporee dell’uomo, delle sue pulsioni vitali, di sublimazione e soddisfazione dei propri desideri, della propria gioia» per divenire creatore di noi stessi». C’è qualche esempio di artista o movimento contemporanei che stanno cercando di andare in questa direzione?
S.B.: Questa è certamente la domanda più difficile e cruciale. Temo di no. Oggi l’arte va in tutt’altra direzione. Come cerco di spiegare nel libro, l’attenzione è rivolta più al sublime che al bello. Si cerca il sentimento contrastante, angosciante, spaesante che rappresenta la società postmoderna contemporanea. Un’arte bella è considerata reazionaria, moderna, retrò, già vista. Inoltre, per me non vi può essere un movimento che incarni tale mio modo di pensare, perché i movimenti stessi rappresenterebbero proprio una contraddizione all’interno della pratica di libertà individuale. Un pensiero relativo deve mantenere le differenze, le tensioni, le ricerche di felicità personali. Tuttavia questo non dovrebbe condurre alle divisioni, alla diaspora, all’incommensurabilità. Da questo punto di vista mi piacerebbe un movimento artistico più politico, capace di incidere sulla società, e che riannodi con i fruitori, con i cittadini una dialettica di costruzione di un’identità più sana e naturale. Si è detto fin da Hegel, che l’arte è morta, ma è morta nel momento stesso della sua nascita quando ha scelto di prendere la morte come oggetto da rappresentare. Essa è sempre stata rappresentazione dei sacrifici umani, rappresentazione dei riti religiosi. Si è pensato di porre nell’arte, come per una sorta di farmaco e di rito purificatorio e catartico, il male, per liberarsene meglio; nella realtà, inscenando la morte, l’arte ha ottenuto il duplice scopo di essere mortifera e di non incidere assolutamente nel miglioramento della propria società.
S.Z.: Come comportarci oggi, dopo decenni di estetismo citazionista postmoderno, per ritrovare la fecondità della coincidenza nietzschiana di etica ed estetica, che sembra oggi persa laddove l’artista o si rinchiude autoreferenzialmente nel suo laboratorio alla ossessiva ricerca della novità, dell’originalità a tutti i costi o diventa un pubblicitario, un addetto al marketing che crea i suoi “concetti”? Cosa significa per te attuare una problematizzazione etica dell’estetica? Tornando a Nietzsche si potrebbe qui proporre un filosofo-artista che si ponga di nuovo come legislatore?
S.B.: Hai posto più domande, ognuna delle quali importante e complessa. Quello che propongo, è che l’arte e la filosofia debbano tornare a indicare comportamenti dirimenti e che abbiano un impatto sulle nostre vite. In questo senso parlo di un’est-etica che valorizzi il suo contenuto etico. Più volte si cita, spesso a sproposito, la frase secondo cui la bellezza salverà il mondo. In realtà, molti di coloro che la pronunciano, propongono delle vere e proprie brutture che impediscono agli uomini di vivere un mondo più bello. Immagina una città che riproduca all’infinito quello che un artista ha prodotto. In quale città vorresti vivere? Sappiamo dell’impatto dell’architettura sulla vita quotidiana delle persone, del tipo di case, di parchi, di giardini, di spazi sulla psiche dei cittadini. Penso che molti musei, soprattutto di arte contemporanea, siano spazi che ci salvano, nascondendole, dalle ossessioni di molti psicopatici. Forse hanno salvato loro ma non i loro potenziali fruitori. Ebbene, io vorrei che gli artisti riprendessero in mano la loro funzione guida di un tempo e imponessero un mondo più vivibile di quello che hanno trovato.
S.Z: A proposito dell’ossessione per la novità, per la creatività, mi è sembrata illuminante la tua tesi della cristianità ancora presente nell’arte contemporanea. Potresti spiegare questo concetto?
S.B.: Riconosco che la tesi che propongo è lapidaria e provocatoria ma è conseguente al ragionamento che svolgo. Molta dell’arte occidentale, anche quella contemporanea, eccede da un lato nella ricerca “spirituale” intesa come razionalizzazione, “concettualizzazione; dall’altro, e dualisticamente, nella “crocifissione” del corpo, nella sua autoflagellazione. Come ci ricorda Foucault, si è passati dalla confessione alla psicoanalisi, e l’arte è il risultato di questo racconto ossessivo del male, del peccato, della morte. Tali racconti mitologici sono certo affascinanti, il male ha la sua fascinazione, il bello annoia, non è originale, nel senso che non ci racconta l’origine della vita, la quale invece è dolore e fatica. Eppure bisognerebbe andare oltre a questa “mortificazione” dell’arte e spingerci a recuperare una pratica di vita più equilibrata, e qui la filosofia può insegnarci molto. Forse tu alludevi, nella tua domanda, al rapporto che mostro nel libro tra creatività e originalità. Ebbene, non è necessario che una pratica di vita migliore sia anche la più originale. La creatività deve mirare alla risoluzione di problemi quotidiani, altrimenti è mero divertissement.
S.Z.: Il titolo che hai scelto, Ritorno al sentire naturale, è molto rischioso: qualcuno potrebbe pensare a uno Stefano Berni che non ha letto Montaigne, Nietzsche, Kuhn, Foucault. Come riesci a conciliare il ritorno (nostalgico?) alla natura, alla corporeità con la seguente proposta, quasi costruttivista, che apre il tuo testo? «Che cosa abbiamo imparato oggi dall’estetica? Che l’arte non debba essere meramente imitativa, riflessiva del proprio tempo, bensì produttiva. Come la filosofia, come il pensiero, anche l’arte ha il compito di costruire la realtà, ma di costruirla per rendere più umano e vivibile il mondo che abitiamo». Non pensi che a causa delle dinamiche sociali ed economiche contemporanee, delle tecnologie morbide, accade ciò che aveva anticipato Nietzsche e cioè che il corpo diventa una pelle rivoltabile come un calzino e che ceda il confine tra organismo e macchina? E allora, mentre la parola “ritorno” fa pensare a un mero tentativo di ascoltare il corpo ( a un tentativo, come scrivi, di ri-conquista del naturale e del corporeo), non pensi sia meglio seguire l’indicazione di Nietzsche, e cioè la necessità di operare su di esso? Come può la ragione seguire le ragioni del corpo se il corpo stesso non è un porto stabile nei flussi e riflussi delle biotecnologie attuali, se il corpo non esiste più in quanto investito dai linguaggio dell’immaginario e della tecnoscienza, in quanto ormai diventato solo un «incrociarsi con il fattore tecnologico, il suo disporsi come una superficie d’incrocio di molteplici e mutevoli codici d’informazione, dal codice genetico fino a quelli dell’informativa»[1]?
S.B.: Ho pensato a lungo alla scelta del titolo. I miei scritti, che erano già circolati fra amici filosofi e artisti, sono stati tacciati di essere essenzialistici e reazionari. Ormai da più di trenta anni, sulla scorta delle intuizioni nietzscheane, rifletto sul tema della corporeità, ma ora le tesi scientifiche più avvertite, di stampo etologico ed evoluzionistico, confermano non solo la totale animalità dell’umano ma anche che le sue scelte dipendono in larga misura della parte del cervello più antica, emotiva, pulsionale, e che la razionalità, come intuì Nietzsche, non è che una piccola regione del corpo. Ciò non significa che l’ambiente e la tecnica non condizionino in larga misura l’agire umano, anzi, come comprese chiaramente il filosofo tedesco, la civiltà occidentale ha colonizzato quasi interamente la vita e ha reso l’uomo un soggetto addestrato, mansueto e mediocre. Ma come nel film di Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo, bisognerebbe lobotomizzare il soggetto perché questo smetta di uccidere, violentare, arrabbiarsi, imprecare, vendicarsi, amare, odiare, disprezzare, ribellarsi, sorridere e così via. Tuttavia la tecnica è inevitabile e probabilmente è una protesi naturale dell’uomo. Ma perché non usarla per vivere più serenamente? Per respirare aria più pulita, bere acqua più potabile, dormire di più e meglio senza rumori, fare sesso più facilmente e con meno stress, arrabbiarsi di meno e divertirsi di più, lavorare meno e occuparsi di più di scienza, arte e sapere. Questo io intendo per naturale: rispettare i ritmi del proprio corpo. Siamo esseri finiti, e de-finiti dalla nostra corporeità. Della conoscenza non ce ne facciamo niente se non migliora l’esistenza. Da sempre sappiamo che il maggior rischio del sapere è la hybris, fin da quando Adamo mangiò la mela; egli volle sfidare la sua fame di onnipotenza, sfidare Dio ovvero la natura per accedere alla conoscenza. Abbiamo barattato un po’ di conoscenza con l’infelicità. Ma ora la stessa conoscenza potrebbe restituirci un po’ di felicità. La costruzione di sé parte e deve partire dalla propria percezione corporea. Costruire per costruire ha poco senso. Non sono d’accordo con Sartre e Foucault su questo punto: inventare sé stessi per attingere all’originalità o all’autenticità è un movimento che non comprendo. Non siamo così liberi, non siamo liberi proprio a partire dal nostro corpo, che ci costringe a movimenti finiti, limitati, necessari.
S.Z.: Sostieni che le politiche culturali necessarie sono quelle che non cercano «tanto la Verità, quanto, piuttosto la Sanità. Ecco, noi vorremmo ridefinire il bello da un punto di vista della sanità fisica e psichica [...] Da questo punto di vista noi siamo moderni, cioè difendiamo ancora un valore: il valore della nostra corporeità, della nostra sanità, della nostra sopravvivenza»; «Sanità significa riappropriarsi del proprio corpo, riequilibrare il nostro modo di vita nelle città, ricercare ritmi più naturali, rispettare la natura, evitare le guerre, rispettare le generazioni future, se ci saranno, che verranno». Ora, è vero che per Nietzsche il risentimento nasce da un non riconoscimento delle istanze vitali e delle proprie virtù naturali, ma il discorso di Nietzsche acquista alcune volte un’ambiguità che evita giustamente di fare della sanità qualcosa di definito, fonte a cui tornare per disintossicarsi dalle patologie decadenti di una certa civiltà. In Nietzsche e la filosofia Deleuze ci avverte che Nietzsche vede nella malattia un punto di vista sulla salute; e sulla salute un punto di vista sulla malattia. Nietzsche riesce a cogliere nella malattia i sintomi di un'esuberanza vitale, di una sovrabbondanza di vita, qualcosa da utilizzare. «Con ottica di malato guardare a concetti e valori più sani[…]». Cosa pensi del tentativo da parte di Nietzsche di creare una grande salute politica per il domani nonostante (anzi, grazie alla)la sua malattia?
S.B.: Io leggo Nietzsche in una chiave “naturalistica” ma sappiamo che i suoi scritti sono stati spesso fraintesi, strumentalizzati. Io non voglio sostenere di avere la pretesa di leggere il vero Nietzsche; tutt’al più la mia sarà una delle tante interpretazioni. Se mi sono avvicinato a Nietzsche è perché avevo bisogno di un principio di autorità, perché forse non ero abbastanza forte o maturo per sostenere certe tesi. Ma l’interpretazione di Deleuze è molto condivisibile. Si può capire la salute solo se ci si ammala; l’amore quando si perde; la pace durante la guerra. Io direi che oggi il risentimento è presente nella maggior parte delle persone: Nietzsche lo definiva il nichilismo passivo. Gli artisti catalizzano questo stato d’animo e lo rappresentano, ma in realtà lo rialimentano e lo riproducono rafforzando questo sentimento distruttivo. Nietzsche è per me un grande psicologo; ha colto i meccanismi sociali che penetrano nell’individuo ma ha anche indicato i modi con cui liberarsi da tali pressioni sociali; Nietzsche da un punto di vista politico non ci dice niente se intendiamo la politica come la messa in forma delle relazioni sociali, ossia le istituzioni. Ma se crediamo, come io credo, che la politica passa attraverso i corpi, solo modificando i meccanismi psichici avremo la grande politica. Questa intuizione sarà raccolta dall’ultimo Foucault anche se non ha avuto il tempo di approfondirla.
S.Z.: Proprio a partire da queste tue considerazioni vorrei chiederti come vedi lo slogan che apre questa rivista Per un’ecosofia “contro natura”, che rimanda evidentemente alle “nozze contro natura” del testo Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, all’eterogenesi macchinica di Deleuze e Guattari[2]?
S.B.: Non conosco così bene questo testo; ma se guardo ad esempio a l’Anti-Edipo, ebbene vedo un tentativo, al di là di certo linguaggio ‘operaistico’, di naturalizzare l’animalità dell’umano, sottraendosi proprio alla macchina tecnologica della psicoanalisi, che vorrebbe normalizzare la legge, vorrebbe dare linguaggio al potere, per costruire corpi artificiali seriali, robotizzati, lobotizzati. Dare voce alla diversità, al molteplice, alla differenza, al relativo è proprio permettere alla schizofrenia, alla malattia di rispondere al potere e di ricomporre la ferita inferta dal sociale. Dobbiamo capire che la follia, come la violenza, è il prodotto del potere, ma ne è anche la risposta più sana; è la reazione immediata e più naturale del corpo; è ciò che resiste del corpo di fronte alla pretesa contro naturale di ammansire, omologare, non permettere un pensiero critico. Rispetto al vostro slogan, se leggiamo appunto la parola ecosofia intendendola come equilibrio tra ambiente e sapere, e per contro-naturale si intende, critica di un ritorno all’arcaico, ecco che potrei essere d’accordo con voi.
S.Z.: Tu scrivi: «Dimenticatevi della trasgressione. La trasgressione legittima inconsapevolmente il Potere. La vera trasgressione oggi sta nel ricercare il Bello». Ti riferisci anche all’effetto di autori come Bataille che fanno coincidere la trasgressione rispetto al reale e la fascinazione per il negativo con la stessa sostanza dell’esperienza estetica, ponendosi agli antipodi di quell’«estetismo etico» che proponi in questo testo nel momento in cui scrivi che «il tempo a nostra disposizione sta scadendo? Urgono politiche che non cerchino tanto la Verità, quanto, piuttosto la Sanità. Ecco, noi vorremmo ridefinire il bello da un punto di vista della sanità fisica e psichica»-«Questa capacità di equilibrio è ciò che Camus chiamerà ne L’uomo in rivolta «il pensiero meridiano: una misura che deve essere pura tensione [...]. Un pensiero che non deve dimenticare la crisi da cui si è originato, mantenendone viva la tensione ritornando spesso su se stesso: un pensiero critico e creativo capace di rinnovarsi, pronto a rovesciarsi e a spostarsi. Occorre uno sforzo, una lucidità critica, che mantenga la rivolta sempre all’interno della tensione tra pensiero e azione. La rivolta non è l’abbandonarsi alla distruzione, né tantomeno significa sfuggire la realtà chiudendosi nel pensiero: la rivolta non deve essere dismisura, ma capacità di mantenersi nella misura». È proprio una citazione da Camus (che non ho trovato nel tuo testo) che forse sintetizza bene queste tue parole: «La rivolta è essa stessa un'ascesi».
S.B.: Sì, la trasgressione è una dialettica senza sintesi, è una ribellione senza risultato. Ma è anche una rivoluzione, un rovesciamento, un capovolgimento che alla fine rimette tutto come prima. Camus l’aveva intuito molto tempo prima della fine del socialismo reale. Io invece non parlo di ascesi ma di feticismo delle idee. Per anni ci siamo innamorati dei concetti, delle concezioni del mondo, delle ideologie come se esse appartenessero alla stessa sostanza delle cose. Siamo ancora inconsapevolmente cristiani nella misura in cui abbiamo sostituito Dio alle ideologie. Il risultato oggi è l’abbandono delle idee per quello che Marx chiamava il feticismo delle merci. Insomma, il feticismo, come categoria psicologica, appartiene costitutivamente all’essere umano. I simboli del potere sono feticci da adorare, così l’arte, la pubblicità, il cinema, la fotografia, la musica sono sostituti di questa adorazione. Dall’ascesi siamo tornati all’adorazione degli oggetti, ma i risvolti psicologici sono gli stessi. Occorre procedere oltre il narcisismo, il sadismo, il totemismo ed affrontare un processo più evoluto, pragmatico, contingente, step to step in cui le energie corporee siano dispiegabili e comunicabili reciprocamente. Occorrono flussi di energia che colleghino, che armonizzino che creino ponti, anche tra uomo e natura, che permettano pratiche di libertà e felicità. Gli artisti e più in generale gli intellettuali si dovrebbero incaricare di essere le sinapsi di questo cervello collettivo, rappresentare quei neurotrasmettitori che stimolano l’attività creativa, di per sé felicitante, dell’agire umano.
S.Z.: Tu scrivi che: «L’arte deve diventare ricerca delle energie corporee dell’uomo, delle sue pulsioni vitali, di sublimazione e soddisfazione dei propri desideri, della propria gioia» per divenire creatore di noi stessi». C’è qualche esempio di artista o movimento contemporanei che stanno cercando di andare in questa direzione?
S.B.: Questa è certamente la domanda più difficile e cruciale. Temo di no. Oggi l’arte va in tutt’altra direzione. Come cerco di spiegare nel libro, l’attenzione è rivolta più al sublime che al bello. Si cerca il sentimento contrastante, angosciante, spaesante che rappresenta la società postmoderna contemporanea. Un’arte bella è considerata reazionaria, moderna, retrò, già vista. Inoltre, per me non vi può essere un movimento che incarni tale mio modo di pensare, perché i movimenti stessi rappresenterebbero proprio una contraddizione all’interno della pratica di libertà individuale. Un pensiero relativo deve mantenere le differenze, le tensioni, le ricerche di felicità personali. Tuttavia questo non dovrebbe condurre alle divisioni, alla diaspora, all’incommensurabilità. Da questo punto di vista mi piacerebbe un movimento artistico più politico, capace di incidere sulla società, e che riannodi con i fruitori, con i cittadini una dialettica di costruzione di un’identità più sana e naturale. Si è detto fin da Hegel, che l’arte è morta, ma è morta nel momento stesso della sua nascita quando ha scelto di prendere la morte come oggetto da rappresentare. Essa è sempre stata rappresentazione dei sacrifici umani, rappresentazione dei riti religiosi. Si è pensato di porre nell’arte, come per una sorta di farmaco e di rito purificatorio e catartico, il male, per liberarsene meglio; nella realtà, inscenando la morte, l’arte ha ottenuto il duplice scopo di essere mortifera e di non incidere assolutamente nel miglioramento della propria società.
Silverio Zanobetti
Note:
[1] S. Berni, U. Fadini, Linee di fuga. Nietzsche, Foucault, Deleuze, p. 128.
[2]“Non c’è più né uomo né natura, ma unicamente processo che produce l’uno nell’altra e accoppia le macchine […]. E quando consideriamo quel che c’è di profondamente artificiale nelle riterritorializzazioni perverse, ma anche nelle riterritorializzazioni psicotiche ospedaliere, oppure nevrotiche familiari, esclamiamo: ancora più perversioni, ancor più artificio, finché la terra diventi talmente artificiale che il movimento di deterritorializzazione crei necessariamente da se stesso una nuova terra […]. È questo il compimento del processo: non una terra promessa e preesistente, ma una terra che si crea via via colla propria tendenza, col suo decollo, con la sua stessa deterritorializzazione.”
[1] S. Berni, U. Fadini, Linee di fuga. Nietzsche, Foucault, Deleuze, p. 128.
[2]“Non c’è più né uomo né natura, ma unicamente processo che produce l’uno nell’altra e accoppia le macchine […]. E quando consideriamo quel che c’è di profondamente artificiale nelle riterritorializzazioni perverse, ma anche nelle riterritorializzazioni psicotiche ospedaliere, oppure nevrotiche familiari, esclamiamo: ancora più perversioni, ancor più artificio, finché la terra diventi talmente artificiale che il movimento di deterritorializzazione crei necessariamente da se stesso una nuova terra […]. È questo il compimento del processo: non una terra promessa e preesistente, ma una terra che si crea via via colla propria tendenza, col suo decollo, con la sua stessa deterritorializzazione.”
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