Codice ISSN: 2281-9223 Rivista d’arte diretta da F. Panizzo - Numero XI mese di Settembre, 2013 - Anno II
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La fotografia non può ancora essere letta in una sua accezione moderna, in quanto è un’arte nuova, ma può essere vista sotto una chiave sperimentale che gli conceda quell’aspetto con- temporaneo, sempre flessibile e sempre dinamico, di una visione della realtà destrutturata e rielaborata.
Chi dovesse liquidare questa arte come una riproposizione fedele e asettica del vero, del tangibile, del concreto, sbaglia, nel momento in cui proceda verso una lettura più approfondita della medesima, senza cambiare ottica e punto di vista in merito, rimanendone inalterato l’oggetto di partenza: la produzione di Daniele Vannini ci fornisce un esempio chiaro e concreto di questa asserzione. Daniele nasce a Milano, è molto giovane, nasce nel 1984, e si appassiona di fotografia fin da subito, tanto da investire sempre più tempo alla produzione di opere, in una poetica sempre differente e in una tecnica sempre più dinamica, non fossilizzandosi in un’ottica specifica o in un concetto monolitico di concetto di arte.
La criticità è la linfa che alimenta la variabilità della produzione di Daniele: una variabilità che stupisce sempre, che rinnova sempre, che ridefinisce un ruolo e un obiettivo, una finalità, a cui la fotografia risulta essere funzionale, senza esserne strumentalizzata. La centralità del soggetto è il fondamento di una ritrattistica e di una produzione di un fotografo che non vuole essere licenziato come post moderno, in quanto assume una propria autonomia concettuale e tecnica, né pop, in quanto il soggetto è parte integrante del contesto, quasi vivendone e ricevendone l’essenza di un contenuto più generale e universale, e non, invece, immerso in una dimensione a temporale e quasi secondaria.
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Il tempo è presente, lo si percepisce nelle ore di una giornata che vengono impresse nell’ambiente che accoglie il soggetto; lo si percepisce nella visione di insieme di un panorama naturale, pulsante e presente. La fotografia di Daniele Vannini ci porta a indagare le pieghe dell’animo umano: non lo fa per adesione, quasi fideistica e stanca, a un modo di essere forzato, ma lo fa per una convinzione e con conoscenza approfondita, mai didattica, tanto meno didascalica negli effetti, ma per una naturale capacità introspettiva dell’individuo nella sua soggettività. L’impatto emotivo viene suscitato dalla calibratura attenta, non artificiale, dell’incontro tra luce e ombra, in un cromatismo spesso scuro, bianco e nero campeggiano in modo primario in diverse sue produzioni, con sfumature ricche e variegate, che affidano al soggetto quasi una plasticità ma, allo stesso tempo, una sua rappresentazione evanescente e irreale. I contorni delle figure non limitano, né delimitano, ma creano e aprono nuovi spazi e scenari prospettici, utili a dare una profondità, in un certo senso, e un’esaltazione non finta di un carattere surreale, iperreale, possiamo anche dire concettuale, all’opera. Lo spettatore non rimane estraneo alla fotografia di Vannini, ma viene necessariamente coinvolto, diventando complice di un percorso, che ha voluto intraprendere nella sua ideazione l’autore, accompagnandolo in modo autonomo e indipendente verso un’indagine dell’essere umano e della sua relazione con l’ambiente, affidata in modo più netto e convinto attraverso una percezione del movimento, dell’immagine in movimento, della sua mobilità, della sua esistenza, della sua vitalità.
Come è visibile nella fotografia di un cavallo che corre, i colori sono sobri e si mescolano, dando uno sguardo quasi pittorico alla cromaticità dell’opera nel suo sviluppo, in uno sguardo di confusione di linee e di figure all’interno del contenuto di una fotografia concettuale e, allo stesso tempo, reale, astratta e, in eguale dose, concreta, contrasto contraddittorio unico che ci può garantire una lettura emozionale nella visione complessiva dell’opera. |
La sperimentazione in Vannini prosegue, tanto da non fissarne un campo di applicazione delineato, in un gioco incessante con i colori, naturali ed esistenti, che l’ambiente offre e solo può offrire, rendendo allegorico ciò che a un primo sguardo apparirebbe semplicemente realistico.
E se alcuni suoi autoritratti risultano divertenti e autoironici, originali, espressivi come in un’arte ritrattistica che appartiene alla storia di tanta arte visiva, i diversi reportage che compie non si sciolgono, né si esauriscono in una semplice e rutinante ripetizione di un fatto, di una realtà, di un angolo di quotidianità, che spesso rischia di diventare banale, scontato, inespressivo. Nel reportage di Vannini si trovano delle vere e proprie narrazioni, storie che si intrecciano, in una dinamicità che conduce verso un’evoluzione della storia, una sua conclusione che non vede una fine chiusa, non esistendo l’esaurimento nella limitata e limitante descrizione di un dato di fatto esaltato, elemento, questo, che mai viene avvertito come sufficiente ed essenziale.
E se alcuni suoi autoritratti risultano divertenti e autoironici, originali, espressivi come in un’arte ritrattistica che appartiene alla storia di tanta arte visiva, i diversi reportage che compie non si sciolgono, né si esauriscono in una semplice e rutinante ripetizione di un fatto, di una realtà, di un angolo di quotidianità, che spesso rischia di diventare banale, scontato, inespressivo. Nel reportage di Vannini si trovano delle vere e proprie narrazioni, storie che si intrecciano, in una dinamicità che conduce verso un’evoluzione della storia, una sua conclusione che non vede una fine chiusa, non esistendo l’esaurimento nella limitata e limitante descrizione di un dato di fatto esaltato, elemento, questo, che mai viene avvertito come sufficiente ed essenziale.
La produzione di Vannini non si accontenta dello scontato, dell’oggettivismo, della documentazione: vuole procedere, andare oltre, ottenendo attraverso lo stile, molto diversificato e in continua evoluzione, ma con una mano e un’ispirazione sempre specifiche e costanti, la poetica, una lettura del reale che va oltre il reale, che lo trascende senza diventare metafisico, assumendo caratteristiche metaforiche, quindi emozionali, quindi sensazionali, tramite una tecnica cromatica, fondamentale, mai appesantita, ricca di sfumature omogenee e non contrastanti, mai stridenti, ma amalgamate in una visione naturale e generale, e un utilizzo spesso del bianco e del nero che si intrecciano e che danno una visione chiara e, allo stesso tempo, fluida del reale descritto e non iscritto.
È così nel “Reportage di Gardone”, dove angoli di vita reale si uniscono e frammenti di paesaggio si tuffano in un movimento che parte da un elemento oggettivo statico, in questo caso la banchina, verso un altro scenario, il lago, in un percorso emotivo e sensazionale sempre nuovo, mai concluso, mai liquidabile come completo, l’attesa di un’azione che sta per avvenire: un romanzo realista senza una fine chiusa, sembra quasi l’opera di Vannini, suggerendo un’evocazione allo spettatore, che è partecipe alla rappresentazione, di nuove prospettive e di nuovi ambienti che diano visioni sempre più evolute e sempre più coinvolgenti.
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Alessandro Rizzo
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