Sacro Gra Un film di Gianfranco Rosi
Articolo di Daniel Montigiani
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Sacro Gra – titolo maestoso soltanto in apparenza che costituisce in realtà un delizioso gioco di parole fra “Gra” (il grande raccordo anulare di Roma) e Graal – sembra aver assunto discretamente le caratteristiche della sacralità anche al di fuori del suo titolo, ovvero da quando, inaspettatamente e in maniera sorprendente per molti, si è guadagnato la vittoria col più sacro premio della Mostra del Cinema di Venezia, riuscendo a battere anche Stray dogs di Tsai Ming Liang, uno dei registi più ammirati dal presidente della Giuria Bernardo Bertolucci.
Per la prima volta, dunque, un documentario non soltanto viene ammesso all’interno della sempre movimentata sezione dei film in concorso, ma, allo stesso tempo e in maniera curiosa, lo si è fatto volare al punto più alto della vittoria della Mostra, il Leone D’oro. |
In questo modo, Rosi – che, nonostante la superficie del cognome, non ha alcun tipo di legame parentale col ben più famoso regista Francesco Rosi -, finora non particolarmente conosciuto in Italia, è riuscito a calamitare (almeno temporaneamente) l’attenzione della critica e del pubblico.
Ma è anche una frase detta da Gianfranco Rosi poco dopo aver preso in mano a statuetta del Leone d’oro che, forse, dovrebbe richiedere una certa attenzione e che meriterebbe almeno una breve parentesi di riflessione, ovvero: non bisogna avere paura di questa parola, documentario.
Tale affermazione, effettivamente, pare toccare in pieno la pregna essenza di questa pellicola, permettendo così di meditare in breve sulla sua natura. Oseremmo infatti dire a tal proposito (in maniera anche innocentemente provocatoria) che è giusto che lo spettatore (diciamo qualsiasi tipo di spettatore) non debba affatto temere almeno questo film documentario proprio perché, paradossalmente e ironicamente, si tratta di un’opera che fa davvero pochi sforzi per essere considerata un vero e proprio documentario. Sacro Gra assomiglia in maniera tale a un film che si dimentica quasi immediatamente di essere un documentario, che si distrae dal suo essere documentario per rappresentare ed esprimere qualcos’altro, per, insomma, assomigliare quasi in toto a quello che si chiamerebbe di solito film di finzione.
Ma è anche una frase detta da Gianfranco Rosi poco dopo aver preso in mano a statuetta del Leone d’oro che, forse, dovrebbe richiedere una certa attenzione e che meriterebbe almeno una breve parentesi di riflessione, ovvero: non bisogna avere paura di questa parola, documentario.
Tale affermazione, effettivamente, pare toccare in pieno la pregna essenza di questa pellicola, permettendo così di meditare in breve sulla sua natura. Oseremmo infatti dire a tal proposito (in maniera anche innocentemente provocatoria) che è giusto che lo spettatore (diciamo qualsiasi tipo di spettatore) non debba affatto temere almeno questo film documentario proprio perché, paradossalmente e ironicamente, si tratta di un’opera che fa davvero pochi sforzi per essere considerata un vero e proprio documentario. Sacro Gra assomiglia in maniera tale a un film che si dimentica quasi immediatamente di essere un documentario, che si distrae dal suo essere documentario per rappresentare ed esprimere qualcos’altro, per, insomma, assomigliare quasi in toto a quello che si chiamerebbe di solito film di finzione.
Detto banalmente, insomma, ci troviamo di fronte a un (falso) documentario sui generis, a un documentario—non documentario. Bertolucci ha fra le varie cose affermato che uno dei più vasti meriti di questo film è la sua cosiddetta forza poetica. Anche se, forse, tale frase bertolucciana può risultare un po’ esagerata – e, sicuramente in questo caso lo è, benché si abusi ormai da tempo dell’aggettivo “poetico” tout court – non c’è dubbio che questo Sacro Gra, nel suo essere sui generis, finisce nel complesso per fare una figura sicuramente interessante. |
Difatti, Gianfranco Rosi, con il pretesto di esplorare tramite camper l’anatomia e l’imponente presenza del grande raccordo anulare di Roma (Gra, appunto), finisce (o meglio, inizia quasi da subito) a mettere per inquadrature le varie storie di varie persone (talvolta così peculiari e grottesche che paiono dei veri e propri personaggi bell’e pronti) che vivono e si trovano attorno al raccordo, su quelle che potrebbero essere chiamate le sue sponde.
Di conseguenza, un secondo interessante aspetto che Rosi riesce ad attivare in particolar modo grazie a un buon incastro di montaggio è il seguente: tale popolare e vasto raccordo anulare riesce con glaciale indifferenza ad abbracciare come una sorta di cerchio dalle pose immobilmente serpentine persone/personaggi estremamente diversi fra loro (il movimento a trecentosessanta gradi della macchina da presa della prima scena, in effetti, fa pensare ad un rotondissimo abbraccio meccanico da parte dell’inamovibile grande raccordo anulare che, non a caso, viene da subito paragonato all’anello del pianeta Saturno): dunque, dal punto di vista della distribuzione della psicologia umana che abita le zone attorno al grande raccordo anulare abbiamo i personaggi più diversi e disparati, come, ad esempio, l’eccentrico nobile torinese e sua figlia studentessa universitaria che vivono in un monolocale drasticamente a ridosso del raccordo, il bizzarro, ossessivo eppur delicato “palmologo” dal fare fascinosamente filosofico che cerca di proteggere le piante dalle larve, il ridicolo attore agé di fotoromanzi, prostitute perennemente in macchina.
Da ciò dunque non può che derivare il maggior prego di questo film forse eccessivamente premiato: non tanto la sua supposta capacità poetica, quanto l’abilità da parte del regista di riuscire a servire negli occhi dello spettatore una divertente, divertita e tragicomica compenetrazione di eleganza, riflessività visiva e filosofica (si pensi al già citato personaggio del “palmologo-filosofo”) e talvolta irresistibile comicità stracciona proveniente da una buffa miseria umana.
Di conseguenza, un secondo interessante aspetto che Rosi riesce ad attivare in particolar modo grazie a un buon incastro di montaggio è il seguente: tale popolare e vasto raccordo anulare riesce con glaciale indifferenza ad abbracciare come una sorta di cerchio dalle pose immobilmente serpentine persone/personaggi estremamente diversi fra loro (il movimento a trecentosessanta gradi della macchina da presa della prima scena, in effetti, fa pensare ad un rotondissimo abbraccio meccanico da parte dell’inamovibile grande raccordo anulare che, non a caso, viene da subito paragonato all’anello del pianeta Saturno): dunque, dal punto di vista della distribuzione della psicologia umana che abita le zone attorno al grande raccordo anulare abbiamo i personaggi più diversi e disparati, come, ad esempio, l’eccentrico nobile torinese e sua figlia studentessa universitaria che vivono in un monolocale drasticamente a ridosso del raccordo, il bizzarro, ossessivo eppur delicato “palmologo” dal fare fascinosamente filosofico che cerca di proteggere le piante dalle larve, il ridicolo attore agé di fotoromanzi, prostitute perennemente in macchina.
Da ciò dunque non può che derivare il maggior prego di questo film forse eccessivamente premiato: non tanto la sua supposta capacità poetica, quanto l’abilità da parte del regista di riuscire a servire negli occhi dello spettatore una divertente, divertita e tragicomica compenetrazione di eleganza, riflessività visiva e filosofica (si pensi al già citato personaggio del “palmologo-filosofo”) e talvolta irresistibile comicità stracciona proveniente da una buffa miseria umana.
Daniel Montigiani
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