Rivista d’arte diretta da F. Panizzo - Codice ISSN: 2281-9223 - Numero di Settembre, 2013 - Anno II
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Moebius Un film di Kim Ki-Duk
Articolo di Daniel Montigiani
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Come sicuramente abbastanza noto, una delle più vistose, palpitanti cifre stilistiche del penultimo film di Kim Ki-Duk – Pietà, Leone d’Oro alla mostra del cinema di Venezia 2012 – era quello della violenza e spietatezza che si presentano e si esplicitano con la forma della secchezza più candida e sincera. Col precedente Pietà il regista coreano pareva aver dato inizio – se è possibile dire in questo modo – a una sorta di nuova fase, ancora più radicale soprattutto dal punto di vista dei contenuti (già di per sé abbastanza estremi) e da quello della poetica.
Per quanto riguarda quest’ultimo caso, infatti, era venuta meno quella che poteva essere chiamata una più o meno perfetta compenetrazione di violenza e liricità, sostituita da una radicalizzazione dell’insieme degli elementi violenti non più sorretti (o almeno non particolarmente come in precedenza) da una fine, eppur visibile, impalcatura di delicatezza poetica. |
Tuttavia, per quanto ancora oggi potremmo affermare che il momento cinematograficamente più luminoso del regista coreano sia rappresentato da Ferro 3 – La casa vuota (dove, appunto, splende brutale l’incontro di eccesso e poesia), anche col prevalere secco della violenza di Pietà Kim Ki Duk era riuscito a dimostrare nuovamente il suo talento, le sue capacità.
Se, dunque, per molti spettatori Pietà, pur nella sua innegabile bellezza, era risultata una visione più o meno estrema, brutale, il nuovo film Moebius lo è ancora di più, per qualsiasi aspetto. In Moebius la cifra stilistica della violenza, rispetto ai film precedenti, si apre come una tesa ferita e sparpaglia, imbratta più o meno tutta l’area della pellicola di una sostanza non sempre facilmente sostenibile, soprattutto per occhi delicati. Tuttavia, per quanta violenza possa pulsare in questo caso, ci troviamo pur sempre in un film di Kim Ki Duk, dove la messa in scena di vari elementi estremi (in questo caso, ad esempio, ripetute evirazioni che si mescolano a simboli visibilmente fallici come lame e coltelli vari, il tentativo da parte della protagonista di inghiottire il sesso appena tagliato dell’uomo, uno stupro di gruppo) risulta difficilmente gratuita, anzi, al contrario, è prodotta e diligentemente guidata dal regista in maniera ammirevole. Il regista prepara e fa attentamente scatenare da subito la violenza trattandola visivamente come se fosse un rituale quasi riflessivo.
Se, dunque, per molti spettatori Pietà, pur nella sua innegabile bellezza, era risultata una visione più o meno estrema, brutale, il nuovo film Moebius lo è ancora di più, per qualsiasi aspetto. In Moebius la cifra stilistica della violenza, rispetto ai film precedenti, si apre come una tesa ferita e sparpaglia, imbratta più o meno tutta l’area della pellicola di una sostanza non sempre facilmente sostenibile, soprattutto per occhi delicati. Tuttavia, per quanta violenza possa pulsare in questo caso, ci troviamo pur sempre in un film di Kim Ki Duk, dove la messa in scena di vari elementi estremi (in questo caso, ad esempio, ripetute evirazioni che si mescolano a simboli visibilmente fallici come lame e coltelli vari, il tentativo da parte della protagonista di inghiottire il sesso appena tagliato dell’uomo, uno stupro di gruppo) risulta difficilmente gratuita, anzi, al contrario, è prodotta e diligentemente guidata dal regista in maniera ammirevole. Il regista prepara e fa attentamente scatenare da subito la violenza trattandola visivamente come se fosse un rituale quasi riflessivo.
Addirittura, nella prima sequenza – durante la quale nella casa dei protagonisti, il personaggio della madre decide di evirare il proprio uomo in presenza del figlio che inizial- mente osserva il tutto con aspetto indifferente – lo sviluppo di questo attacco brutale da parte della donna assomiglia a una specie di scontro di film di cappa e spada.
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Ma quest’ultima opera di Kim Ki-Duk risulta più estrema non soltanto per quanto riguarda l’intensificazione della rappresentazione della brutalità, ma anche per specifiche scelte registiche che riguardano l’ambito sonoro. Kim Ki-Duk, in un certo senso, ha scelto di fare un film muto sui generis: si tratta, cioè, di un film sonoro, ma il regista sceglie di evitare completamente i dialoghi, lasciando che siano gli sguardi dei personaggi, i movimenti dei loro corpi e le relazioni fra questi a dover naturalmente ed efficacemente spiegare agli spettatori lo svolgimento della storia, talvolta tanto essenziale quanto, paradossalmente, grottesca nei suoi eccessi. In questo modo, Kim Ki-Duk gira quasi un film primordiale, dove dal punto di vista uditivo sono presenti soltanto i rumori, le grida (di dolore e di piacere), i gemiti, i passi, il traffico distratto e indaffarato, dando così allo spettatore l’impressione di assistere cinematograficamente alle componenti elementari, basiche dell’essere umano, qui visto quasi come uno spettacolo composito e allo stesso tempo slabbrato di umori e istinti.
Il regista coreano, dunque, ha creato indubbiamente una delle esperienze cinematografiche più singolari degli ultimi mesi, che sfiora (volontariamente o meno) i vaghi territori della sperimentazione.
Il regista coreano, dunque, ha creato indubbiamente una delle esperienze cinematografiche più singolari degli ultimi mesi, che sfiora (volontariamente o meno) i vaghi territori della sperimentazione.
Daniel Montigiani
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