Rivista d’arte diretta da F. Panizzo e V. Vacca - Codice ISSN: 2281-9223 - Numero di Settembre, 2013 - Anno II
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JIAOYOU
(STRAY DOGS) Un film di Tsai Ming-Liang
Articolo di Daniel Montigiani
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Forse, senza nemmeno pensare di esagerare, sarebbe corretto dire che Tsai Ming-Liang, uno dei più stimati registi al mondo ormai da anni e talentuoso responsabile insieme a Edward Yang e a Hou Hsiao Hsen del rinvigorimento innovativo del cinema taiwanese, al di là dei cosiddetti meriti artistici, per quanto riguarda questo Stray dogs dovrebbe essere almeno stimato e ammirato non tanto per aver continuato a installare all’interno di questa sua nuova pellicola la magica solidità della sua poetica, quanto per non aver minimamente temuto di intensificare in maniera ulteriore la complessità del suo percorso cinematografico. Già vincitore a Venezia nel 1996 del Leone d’Oro con Vive l’amour!, con Stray dogs Tsai torna in concorso quest’anno al Lido riuscendo ad ottenere il Gran Premio della Giuria. Se Vive l’amour! e, più in generale, tutta la sua filmografia non sono mai certo stati considerati film di facile fruizione, Stray dogs risulta esserlo ancora di meno.
Tsai qui porta avanti con una forza tanto convinta quanto pacata, quasi zen, i tasselli e le caratteristiche cinematografiche che scandiscono talentuosamente il suo cinema da Rebels of the neon God (suo esordio nel lungometraggio nel 1994), come la scelta di ritornare al cosiddetto “cinema delle origini” (gli anni che vanno dalla nascita del cinematografo Lumière fino a poco prima dell’arrivo di Griffith, quando la visione cinematografica si basava su poche inquadrature, mancando ancora un vero e proprio montaggio) attraverso la scelta di lunghi piani-sequenza, la solitudine e conseguente alienazione dei personaggi mostrata rifacendosi allo stile di Antonioni (ovvero campi lunghi e lunghissimi all’interno dei quali i personaggi, situati nel paesaggio come magre e indifese figurine, vengono da questo risucchiati, confusi e resi elemento passivo), l’importanza dei silenzi e la scarsità di dialoghi. Tutte queste sono, appunto, caratteristiche da sempre presenti nel suo talento, ma qui amplificate in maniera quasi esponenziale: in questo senso è possibile indicare i due piani-sequenza che, come in una sorta di Ring-komposition filmica, aprono e chiudono il film, in questo modo quasi sigillandolo alle sue due estremità.
Si tratta di piani-sequenza di una lunghezza non indifferente (nel primo caso, dieci minuti, vediamo una donna – Yang Quei Mei, memorabile protagonista di Vive l’amour! e The Hole – Il buco - voltata di spalle che si pettina di fronte ai piccoli figli addormentati in un letto, nel secondo caso – circa quindici minuti di durata – vediamo i due coniugi della famiglia protagonista ambiguamente l’uno a poca distanza dall’altro), di una densità che lo spettatore è obbligato – con piacere o meno – ad affrontare con lo sguardo. Tsai, qui in maniera ancora più radicale rispetto alle opere precedenti, crea dei piani sequenza dalla lunghezza semplicemente affascinante e abbacinante, la cui potenza sembra quasi immobilizzare l’inquadratura e i personaggi fino a solidificare l’immagine, a farla concrezione, finendo col renderla della consistenza di una pietra ipnotica.
Il regista taiwanese dimostra qui ulteriormente che spesso, quasi in maniera paradossale, più viene messa in scena e raccontata una storia semplice e banale (le secche vicissitudini di una povera famiglia formata da coniugi e due figli che sembrano progressivamente annegare in una società voracemente consumistica) e maggiormente, pur nella sua amara spietatezza, risulta di un memorabile potere fissante e opacamente cristallino.
Il regista taiwanese dimostra qui ulteriormente che spesso, quasi in maniera paradossale, più viene messa in scena e raccontata una storia semplice e banale (le secche vicissitudini di una povera famiglia formata da coniugi e due figli che sembrano progressivamente annegare in una società voracemente consumistica) e maggiormente, pur nella sua amara spietatezza, risulta di un memorabile potere fissante e opacamente cristallino.
Daniel Montigiani
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