Quando si parla di storie di città, di flussi di persone e di cose urbane e quando si parla di Lei, non possiamo non parlare di Paris vu par, sei storie realizzate nel 1965 (unite in lungometraggio) scritte e dirette da 6 autori - diciamo pure - “vicini” a quello straordinario respiro che chiamiamo Nouvelle Vague.
L’idea produttiva di fondo è quella di raccontare delle storie di Parigi città, attraverso sei diversi quartieri, in cui il cinema si identifica con la città e viceversa. Nella loro avventura, i sei registi scelgono delle storie che in qualche modo possono ricondursi tutte alla stesso rapporto dell’individuo con i flussi urbani, o con le loro esperienze, le loro pulsioni. A partire da questa idea narrativa, in modo stavolta originale ed indipendente, le scelte stilistiche (regia, recitazione) di genere (dramma o parodia) e di contenuto, si articolano attraverso i sei cortometraggi.
A quanto pare il progetto che motiva la realizzazione del film doveva essere stato assai ambizioso, se Les cahieurs du cinema ne parla in questi termini: “Ce n’est pas le regne d’une avantguard stérile, que nous voulons instaurer [..] mais celui des auters” che fanno un cinema moderno, “[..] mais le cinema vraimont moderne, celui de demain, celui que nous entrevoyons et voudrions aider à percer, ne sera pas le fait des auteurs incapables à montrer la réalité actuelle et à venir, de se dégager du reflet de leurs obsessions [...]” sarà quello che attuerà “une nouvelle esthétique de realism”.
In sostanza si affermano alcune innovazioni, che acquisiscono valore di paradigma - o questo è perlomeno ciò che vorrebbero acquisire - al momento dell’uscita del film, ovvero “l’emploi du son direct et la couleur, dont nous voudrions faire la régle”. Nel numero 171 dei Cahiers, si considera che l’innovazione tecnica sia andata incontro all’economia. Se è vero che il corrente formato cinema era 35mm, Paris vu par, che è girato tutto in 16mm, costituisce non solo una risorsa produttiva (si immagini gli episodi Gare du Nord, La place de l’Etoile e Montparnasse et Levallois girati con le grandi cneprese), ma anche una proposta estetica. Le possibilità produttive che offrì la macchina a 16 mm sono state citate da tutti e sei i registi, che esaltarono la snellezza del dispotivo in funzione del rodaggio, diamo alcuni di quei contributi
“La 16mm m’a permis de m’attacher totalement au movement meme de ces personnages, pour les suivre dans leurs moindres réactions et traquer leurs intentions dans leurs regards ou leurs paroles..”. “..grace àu seize millimétres, puisque c’est quand meme moins cher que le treinte cinq. Et qu’on peut tourner plus vite, je me suis senti plus libre et j’ai mis certains choses qu’il m’aurait été difficile mettre dans d’autres films..”
Dal punto di vista analitico riuscire ad approfonditamente ognuno dei sei cortometraggi potrebbe rappresentare un lavoro per il quale non avremmo spazio a sufficienza. Cerchiamo quindi di cogliere i punti salienti di quanti più frammenti possibili e poi tracciare alcune conclusioni.
Gare du nord di Rouch, rappresenta quasi l’emblema di tutta l’ideologia di Paris vu par (che ricordiamo essere di Barbet Schroeder). Il regista infatti, che è anche antropologo, concentra la sua attenzione, quasi esclusivamente ai personaggi che interpretano l’episodio, la loro vita le loro relazioni, ma nella seconda parte non dimentica di rappresentare il loro rapporto con il tessuto urbano. Diremo però che allaccia un forte legame non alla città di Parigi nella specifico, ma a quella generale, alla Großtadt, la metropoli, che costrusice quindi un ponte di raccordo tra l’individuo e la geografia delle attrazioni, quella della nuova città, che non è più quella di Ruttamnn, Strand o la stessa Parigi di Clair che dorme ma la metropoli del dopoguerra, che suona nuove sinfonie urbane, più vicine alle psicologie che alle fisicità dei personaggi.
Ricollegandoci a quest’epoca (quella degli anni venti), in quanto ricca di sperimentazioni, sulla raccolta di documenti, sulle sinfonie urbane e dello sguardo che esse conferisocono alla visione umana della città, proviamo a tracciare delle differenze tra gli individui di quell’epoca (1920-1930) e i personaggi del 1965. Questi ultimi hanno un rapporto con la città, probabilmente neanche molto più consapevole dei personaggi delle avanguardie, in quanto ogni personaggio (nel senso di individuo di una storia) giunge nella propria storia senza una precedente esperienza di vita; ma se negli anni a cavallo dei secoli e fino agli anni trenta, le innovazioni, invenzioni, novità, in campo ingegnieristico, tecnico, elettronico ed anche artistico, stravolgono il dinamismo e la velocità dei rapporti fisici dell’individuo, non possiamo certo dire la stessa cosa dei loro successori. La grande maggioranza dei personaggi che vivono in Paris vu par infatti, sono figli degli anni 40-50 (eccetto la prostituta in Rue Saint-Denis e i genitori del bambino in La Muette, infatti tutti i personaggi si aggirano dai 20 ai 40 anni) può assistere ad alcuni evoluzioni dei media (tv), dei mezzi di trasporto (automobile e la vespa), ad alcune novità politiche (guerra Vietnam, uomo nello spazio) ma non si può certo asserire che queste siano allo stesso livello di quelle che stravolsero il mondo degli uomini che hanno visto la generazione precedente. Ciò che differenzia questi individui perciò è l’accento che essi porgono agli stimoli esterni che caratterizzano la loro vita, le loro reazioni, le loro scelte quotidiane, la loro pulsioni. Come vediamo in sostanza, si è spostato l’obiettivo della macchina da presa, che non sta più sulle rotaie di un treno, ma dentro al treno, sulla bocca e lo sguardo dei passeggeri, filmando un primo piano di un dramma anteriore, anziché su un paesaggio mangiato dalla tecnica. Il dinamismo della città, della sua tecnica, non è quindi più al centro dei pensieri di questi personaggi, in quanto ne conoscono dalla nascita le dinamiche, anche se sorprendentemente faranno fatica a svincolarsene completamente (Montparnasse et Levallois ce lo dimostra). Ciò forse che contamina le vite di questi personaggi è piuttosto una sottile mostruosità, per dirla con le parole di Chabrol, che trapela dalla conduzione quotidiana che questi personaggi hanno raggiunto. Una mostruosità che viene sviluppata attraverso le loro pulsioni, progressivamente occultate, fuggite (Place de l’Etoile), otturate per non farsi contagiare (La Muette), oppure scambiate, tradite (Montparnasse et Levallois).
Nell’arte informale degli anni 50-60, si suol inserire un certo malessere, un pessimismo di fondo, legati ai postumi della seconda guerra mondiale. Se dai primi anni sessanta si respira già un discreto cambio di tendenza con nuovi sviluppi culturali (pop art, la minigonna, la tv, La dolce vita, lo sviluppo edile, solo per dirne alcuni) tutto ciò non basta ad allontanare l’individuo da una sentita lontananza ed inter-incomunicabilità che affiora. Non a caso, un anno dopo (1966), Antonioni ci ricorda questa sfuggevole serenità, questa probabile possibilità all’impossibile, girando Blow up. Questo film, nonostante finisca in modo semi-positivo, emana uno sconfinato negativismo. Sarà per l’imminente caso Vietnam e guerra fredda, o forse per una coincidenza artistica, ma a metà degli anni sessanta, mentre ci si prepara ad alcune grandi rivoluzioni culturali, sociali e politiche (gli hippy e Woodstock, il sessantotto europeo, le dittature europee che cadono qualche anno più tardi), una riflessione profonda attanaglia lo spettatore sul grande schermo. Oltre al già citato Blow up, in questo periodo viene realizzato Farhenheit 451, film che sottolinea il pericolo delle classi povere di venire trafugati della cultura da parte del potere. Nel 1964, un anno prima, Kubrick realizzava Il dottor Stranamore, pellicola che accenna l’apocalisse della terra, mentre del 1966 è Persona, di Ingmar Bergman, che il regista scrisse durante una depressione e che ha come tema principale l’incomunicabilità e le crisi esistenziali. I pugni in tasca di Marco Bellocchio è del 1965, parla di una storia di una famiglia di anormali, nella quale un figlio uccide gli altri componenti della famiglia, venendo a sua volta lasciato morire dalla sorella incestuosa. Pierrot le fou di Godard, sempre dello stesso anno di Paris vu par, è un altro film, nel quale i personaggi non riescono ad ottenere nessuna salvezza e concludono la loro avventura con la morte. Nel 1966 Godard realizza Masculin, feminin e sappiamo quanto poco ottimistico fosse.
Ciò che non possiamo sostenere come un verdetto, ma sicuramente come uno spunto di riflessione e di ricerca è perciò un evidente ritorno dei caratteri dell’arte informale. Un negativismo che fa da basso continuo a storie che nello stile rappresentano dei nuovi modelli, nel modo di raccontare significano conquiste e nei contenuti e nelle retoriche delineano allo stesso modo uno sfrontato coraggio, una sincerità forse persino inquietante.
Le storie di Paris vu par, secondo chi scrive ripercorrono il cinema di un periodo forse troppo falcidiato da una negativa visione individuale e di insieme; una settima arte che racconta un momento difficile, nei contesti più variegati.
La famiglia ad esempio è raccontata da Chabrol in La Muette. La breve storia è vista dagli occhi di un bambino, che non sempre far parte dello stesso mondo dei grandi, ne ignora le dinamiche, non ne conosce le regole. La sua unica possibilità di tenersi lontano da questo mondo, è quella di non poterlo ascoltare. È importante pensare come vi possa essere una differenza sostanziale fra i due verbi sentire e ascoltare. Il bambino protagonista, probabilmente non ascolta i suoi genitori, né la città, ma li sente e ciò lo inquieta, lo fa star male. Per fuggire a questa tortura, decide di mettere dei tappi alle orecchie, che non gli permettono di sentire il minimo rumore. Questa soluzione gli costerà molto cara. Non riuscirà infatti a sentire la madre claudicante che caduta dalle scale incontrerà la morte. Nel finale anche la città stessa diventa un teatro muto, fatto solo di movimento e luce, nel quale i suoni appaiono quasi superflui. Il linguaggio della città, ormai stereotipato, con i suoi clacson, con le sue campane e le sue ambulanze, vive ugualmente anche non ascoltandolo. Chabrol decise di recitare in prima persona, assieme alla moglie.
In Gare du nord, si possono trovare molti dei caratteri moderni che contraddistinguono le nuove insoddisfazioni. La protagonista è Odile una giovane che durante una colazione qualunque con il fidanzato Jean-Pierre intravede l’inizio di un lento declino delle sue aspettative di vita. “Qu’on juge du degré d’improbabilité: l’aspiration majeure à laquelle l’héroine vient de reprocher à son mari de faire obstacle par son conformisme et son inertie, un inconnu rencontré quelques instants plus tard par accident lui offre de la réaliser séance tenante; affollée, la jeune femme le repousse”. Le passant e Odile hanno quindi praticamente una conversazione sullo stesso argomento che avevano avuto poco prima la ragazza e Jean-Pierre. Ma le convinzioni appena dichiarate al proprio partner, di fronte al giovane sconosciuto, vengono meno. E’ palese qui che Odile rappresenti il tratto dell’incomunicabilità per il regista; l’impossibilità dell’individuo di ritrovare esternamente i propri pensieri.Il giovane automobilista invece giudica la vicinanza possibile di Odile - che invece gli è negata – come una condanna finale. La disperazione con cui il giovane si propone ad Odile, è folle. Sembra come se fosse al casino e tentasse il tutto per tutto bluffando una mano a poker. Un all in fallito. C’è come una fantastica impressione, che egli sapesse che il suo destino passasse in quella strada a quell’ora. E Odile, che “devant la possibilité qui lui est offerte d’une realisation immediate, intégrale, du reve qu’elle vient de formuler, et la chaine de verre reliant soudain les objets de son désir la livre à une épouvente qui va croissant des premiers instants de la rencontre au cri boulversant qu’elle pousse à la vue de l’homme soutant dans le vide” Il teatro composto tra Odile e l’automobilista, o le passant, conferma che le cose sono sempre uguali, mentre ciò che cambia è il nostro modo di vederle. In questo passaggio è assai chiara l’analogia tra vita dell’inviduo e vita della città, le persone cambiano le proprie ambizioni o possono restare le stesse, alterano la loro attitudine a sentimenti o a passioni, ma non è sempre così.
La città in tutto ciò è l’emblema di una similitudine vita – geografia. Una città o un amore possono annoiare sin da subito o essere amate per sempre. Nella fattispecie, per le passant, la città è cambiata per diventare anche strumento di morte. La grandezza delle nuove strutture, come ad esempio le nuove sontuose stazioni, i ponti che collegano due strade lontane e che oltrepassano le ferrovie (costruiti per favorire le dinamiche fisiche dell’uomo) in questo caso diventano strutture per suggerire lui un suicidio. Il fischio del treno, forse il più paradigmatico e rappresentativo della tecnica del 900, giunge esattamente nel momento in cui il ragazzo decide di uccidersi e scandisce quindi la sinfonia della sua vita.
Il piano sequenza del cortometraggio (se si esclude la prima e l’ultima panoramica d’insieme) non possono che applicarsi, nel caso, alla storia di un personaggio seguito da una cima all’altra della sua traiettoria, che in realtà è traiettoria di morte, perché Odile in realtà muore con le passant, non sopravvive, nel senso che i suoi pensieri, le sue paure, i suoi sogni, vengono messi in discussione, sia esternamente che internamente. Claude Ollier, giudica il lavoro di Rouch, da alcune di queste analisi, come un lavoro nuovo, di inquieta sociologica, di psicodramma.
In Rue Saint - Denis, concordo parzialmente con ciò che afferma Jean Eustache nei Cahiers. Il critico dice “quand on n’a plus rien en dire sur quelque chose, on n’a plus rien en dire” Con questa tesi, in realtà non mi trovo molto d’accordo. L’episodio di Pollet è sicuramente il più fiacco di Paris vu par. Rue Saint - Denis è una via conosciuta in tutto il mondo soprattutto per le sue prostitute e per questo appare perlomeno assai poco originale comunicare per immagini, la storia tra una prostituta e un suo cliente, ovvero la più banale che possa immaginare qualsiasi spettatore comune. Da un cineasta ci si aspetterebbe qualcosa di più. Probabilmente gli unici spunti interessanti sono sempre legati alle dinamiche urbane. La prostituta è il simbolo della città, essendo lei stessa come una donna di facili costumi, cara, divertente e possibilmente pericolosa. Il cliente in questo caso non è un ragazzo di provincia, che non conosce bene queste dinamiche. Il racconto quindi vuole raccontare come una persona esterna possa non intersecare le sue attitudine con la vita urbane. Leon, il protagonista è impacciato, alla fine non ottiene nemmeno ciò per cui aveva cercato la prostituta, un po’ come se volesse dirci che si parte verso la città con uno scopo e poi si finisce con l’accettarne un altro. In Rue Saint - Denis, l’incontro di sesso si trasforma in una cena, ma che sa molto di nutrimento, anziché di rituale, più vicino ad una cena solitaria, ovvero noiosa, che ad una cena romantica. I due finiscono per parlare come se fossero una coppia navigata, non proprio sul punto di lasciarsi, ma nei botta e risposta della conversazione c’è quella disattenzione tipica di chi dialoga più per parlare che per condividere.
La scenografia a mio avviso è perfetta per questo tipo di storia, diegetica al massimo livello. La piattezza del plot, così come quella della regia, senza movimenti di macchina, con molte inquadrature girate con lo stesso punto macchina e obiettivo diverso, è basilare come la scenografia, ma le due cose vanno a braccetto e sono in un certo modo armoniose. Anche il montaggio è impreciso, probabilmente Pollet non ebbe molti ciak a disposizione e in realtà il suo più grosso errore è stato quello di pensare a troppe inquadrature nello stesso ambiente. È l’ episodio più corto (11.37) e l’unico episodio che si gira in unico ambiente, ma nonostante ciò è quello con più inquadrature (trentasette solo nella stanza per dieci minuti di film, non considerando le inquadrature di presentazione agli ambienti urbani, che fanno sono una media di un’inquadratura ogni sedici secondi, senza considerare che al montaggio gli stacchi sono ottantaquattro, ovvero uno ogni sette secondi di media, non proprio cifre da nouvelle vague) se si esclude Place de l’Etoile, girato quasi completamente in esterni ampi. In tutto l’episodio si respira un’aria di dilettantismo nonostante sia il settimo lavoro di Pollet. Lo scavalcamento di campo, considerato da molti come il più grave degli errori lo troviamo quando Leon è sulla sedia e la prostituta sul letto che parla delle sue gambe. Non pensiamo che ci siano dei buoni motivi per supporre che sia una trasgressione voluta, in quanto la drammaturgia non ci offre in quel preciso istante alcun suggerimento; si tratta semplicemente di un errore tecnico. Altre pressapochezze si trovano nel sonoro, tra uno stacco e l’altro di alcune inquadrature si sente una forte discontinuità di ambiente e di fruscìo, diremmo tipica di chi è alle prime armi. Nonostante queste impressioni si salva la drammaturgia degli attori. La loro storia può sembrare leggermente strana, ma è verosimile. La recitazione del ragazzo, Claude Melki, come ricorda lo stesso regista nelle pagine dei cahiers, è il motivo per il quale è stato ideato il cortometraggio, anche nella stessa intervista dichiara che “On ne reve pas de personnages, mais des objets, des moments, le temps, l’espace, la durée; tout cela, dans eun film a plus importance que la psychologie”. Place de l’Etoile – Il nostro eroe, come lo chiama Rohmer, è Jean – Marc, commesso che lavora in un negozio in zona Avenue des Champs-Élysées. Ma dall’uscita della metropolitana al negozio, di cose ne possono succedere. Rohmer, che è già un esperto nonché grande sostenitore delle riprese in esterni veri (uno su tutti ricordiamo La boulangère de Monceau), immagina nella piazza dell’Arco di Trionfo, le gesta di una storia di un uomo normale che vive il dramma di uno scampato delitto ed anziché mostrarlo con la tecnica ormai nota a Rohmer, ossia quella del flaneur parigino, lo fa raccontando questo personaggio che improvvisamente, impaurito dalle conseguenze della colluttazione con un barbone, inizia a scappare freneticamente. A tal proposito il regista ci fa notare una cosa: “..aucun parisien n’est pressé au pointde courir quatre cents mètres à la suite..”. I monumenti cambiano i flussi urbani, così come i lavori in corso. Il progresso dell’uomo nelle sue forme tecniche, determina poi anche la sua sociologia. La giornata tipo di Jean – Marc subisce gli eventi della grande città. Sulla metropolitana che lo porta a lavoro, una passeggera le pesta un piede. Il fatto lo turberà tanto, che uscito dalla metro, continuerà a toccarsi la scarpa e soprappensiero si scontra con il vagabondo che rappresenta a livello sceneggiatoriale un evento scatenante. Le abitudine duramente conquistate dal protagonista nell’arco degli anni (aver imparato a che ora prendere la metro per arrivare in orario, dove scendere, quale strada fare) diventano in questa giornata dei riferimenti perduti. Nella grande geografia urbana i cittadini si muovono per punti fermi che li rassicurano, senza i quali sarebbero persi. Jean – Marc sembra molto infastidito, quando a causa dei lavori in corso deve cambiare itinerario. Tutto ciò mette a contatto gli individui a volte con porzioni di geografia alle quali non sono interessati e che potrebbero riservar loro delle sorprese, positive, come ad esempio ne La boulangere de Monceau, in cui le narrateur (interpretato pensate un po’ da Barbet Schroeder, ideatore di Paris vu par) per cercare Silvye, s’imbatte nella fornaia (si noti come nel primo minuto del cortometraggio del 1963, ci sia un altro riferimento alla trasformazione della città “À l’ouest, le boulevard de Courcelles. Il conduit au parc Monceau tout près duquel un chantier de démolition marque actuellement l’emplacement de l’ancien Cité club, un foyer d’étudiants. C’est là que j’allais dîner tous les soirs quand je préparais mon droit”).
Il regista nella sua analisi, ci ricorda anche che ha effettuato un voluto rimarcamento dei colori verde e rosso. In tal caso le inquadrature numerose ai semafori ricordano ancor di più il senso moderno del tempo scandito dal progresso. Nella fattispecie, come ci ricorda lo stesso Rohmer, all’inizio del cortometraggio ha potuto inserire alcune riprese della visita del presidente della Repubblica Italiana a Parigi, per cui erano state affissa delle bandiere tricolore all’Arco di Trionfo.
Uno spunto che potrebbe farci riflettere su alcuni stili degli autori di questi cortometraggi è anche l’utilizzo delle didascalie da parte di Rohmer. Nelle sei parti del film, è l’unico ad utilizzarle. Se si vuol essere sostenitori di un cinema fatto solo ed esclusivamente per immagini, si potrebbe ritenere che almeno la didascalia “Rien dans le presse, ni ce jour-la ni les soivants”, che compare dopo che Jean – Marc compra un periodico (sicuramente vuol vedere se il vagabondo è morto) potesse essere sostituita da immagini. Capendo bene che quindici minuti sono pochi per chiunque per presentare un personaggio, ritengo che la voce fuori campo sia già un grosso aiuto per il realizzatore, mentre le didascalie sarebbero da escludere totalmente. Ci viene in mente però che nel 1965 potevano essere ancora fresche le nozioni di Qu’est que c’est le cinema di Bazin. Nella parte seconda, Bazin sostiene, anziché un cinema fatto di sole immagini (cellule uniche e fondamentali del film), un cinema impuro che sia contagiato dalle altre arti. La nostra è solo un’interpretazione, tra l’altro da verificare, ma la sensazione è che essendo Rohmer il regista che è rimasto più fedele ai concetti della Nouvelle vague (intesa come cinema dove non succede niente, cinema di flaneur, riprese in esterni reali, di presa diretta del sonoro), rispetto a Godard per esempio o a Truffaut, possa avere in qualche modo seguito più scrupolosamente le teorie di André Bazin, che considerato il padre dei Cahiers, da quelle teorie si può dire abbia ideato il movimento cinematografico francese. Nel finale credo che il regista abbia voluto concludere con un’altra suggestione. Jean - Marc uscendo dalla metro scontra il suo ombrello a quello di una bella signorina. Sarebbe potuto essere l’inizio di un’altra storia. Sarebbe potuto.
La Muette – Abbiamo già accennato alla mostruosità dei personaggi di questo episodio. Chabrol, tra l’altro, che interpreta il protagonista, nell sua analisi si sofferma proprio sull’interpretazione dei personaggi, quando vuole spiegare come è riuscito ad ottenere l’atmosfera che si respira in La Muette. Si tratta evidentemente di un cortometraggio classista, specchio della borghesia parigina, “La bourgeoisie c’est une classe, mais c’est aussi un était d’esprit, et la classe resistera moins que l’était d’esprit. L’était d’esprit grand – bourgeois va certainement résister à tous les régimes sociaux [..] Le pire est que une fois installés dans leur travaille de monstres, ils ne sont pas tellement malheureux. Ainsi, aussitot, que le type peut satisfaire sa petite libido. Et gagner de l’argent, et que la femme peut utiliser cet argent pour s’acheter des pommades pour la peau, il n’ya plus de problème.”
Il regista era convinto che nessuno avrebbe potuto capire che cosa aveva in mente, quando pensava al suo protagonista, un padre di famiglia distratto, un marito infedele, un cochon, come lui stesso osa dire. Il suo personaggio è caricaturale, come i personaggi della borghesia. Ma c’è anche un altro tema nell’episodio, che riguarda il vero protagonista, quello dai cui occhi vediamo la narrazione, ovvero il bambino. Un figlio che passa quasi inosservato, nella città e a casa sua. Ma la sua invisibilità non lo rende passivo, anzi lo fa soffrire al punto dal voler provare la sensazione di non esistere più e per fare un tentativo, con dei tappi alle orecchie, si isola dal mondo, dalla sua città, dalla sua fredda casa, da una stanza nella quale non vuole mai restare. L’episodio è quindi al tempo stesso storico, perché rappresenta una delle possibili storie a livello sociale, quindi una sorta di documento, con la mostruosità delle ipocrisie borghesi, dei loro falsi costumi e menzogne e in secondo luogo è anche sociologico, ovvero indaga le individualità dei personaggi.
Ognuno di loro è chiuso nel suo mondo. C’è un padre che prova a fare il padre ma non è capace (una musica dolce parte quando il padre è in stanza col figlio, tutto ci fa sembrare che voglia dar lui una lezione di vita, incoraggiarlo mentre invece riesce ad insegnar lui una regola matematica, ovvero quanto di meno sentimentale possa dirgli), che tradisce la moglie, una domestica che si vende al padrone, ed è odiata dal figlio, una moglie che non si sa con certezza, ma potrebbe pensare ad un altro uomo e fa finta di non sapere che il marito la tradisce perché non le converrebbe divorziare e un figlio che cammina solo nella città, che deve reggere il gioco al padre e che alla fine è, ironia della sorte il più colpevole perché non si accorge della madre ferita. È interessante anche l’uso che Chabrol fa delle conversazioni familiari: “Et comme la plusparts du temps, ils ne parlent qu’aux repas, (c’est pour cela que mon film est construit sur des conversations à table), ces horreurs déviennent encore plus extraordinaires.Simplement parce qu’ils ont rien à se dire, leur monstruosité resort dès qu’ils ouvrent la bouche.”
Se pensiamo che Chabrol per rendere tutto così vero, ha preferito andare lui stesso in scena con la moglie, questo ci fa supporre che sia lui che la moglie conoscessero bene in prima persona I personaggi che hanno rappresentato.
Montparnasse et Levallois - L’episodio di Godard è molto complesso, come sempre nella sua opera. Il regista come soggetto sceglie di citarsi, ovvero di girare una storia che Belmondo racconta in Une femme est une femme, Godard per girarlo sceglie la scenografia, gli attori, ma lascia quasi in mano agli interpreti i dialoghi e i movimenti di macchina all’operatore. Il suo è un esperimento meraviglioso in cui cerca di dimostrare quanto il cinema possa superare il senso in convinzione e dimostri la sua propria libertà. “Moi, j’avais le sens, les acteurs ont le signe, et l’operateur a donné la signification. Le trois étapes de la sémantique”.
Il suo scopo ricorda quello Zavattiniano, ovvero di creare un cinema che non abbia motlo da organizzare, ma che vive di istinto, di impressioni, di flussi; Godard dice che “l’existènce c’est un fleuve”. Egli vuole dare un’idea di Montparnasse, della sua pittura, della vita degli iartisti, ma anche degli artigiani, dei meccanici, degli operai. Il senso del lavoro si respira molto qui, addirittura supera le parole, i sentimenti. Il sonoro lo sottolinea in modo evidente, quando Monika, parlando con i suoi due amanti deve quasi sempre ripetere ciò che dice, perché il lavoro dei due uomini sovrasta le sue parole Godard durante tutta la sua carriera ha sempre indagato sulla difficoltà di poter esprimersi, di farsi capire, di non fraintendersi e in Montparnasse et Levallois ribadisce queste difficoltà. “Una delle idee divertenti del film è che uno dei due fa il meccanico, l’altro lo scultore in ferro d’avanguardia: atelier e garage sono ambienti che si assimilano nel comune rumore delle saldatrici e dei martelli, la confusione penetra in tutti gli aspetti della vita”.
Rispetto a questa tecnica, ovvero quella di creare volontariamente un sonoro non molto chiaro al pubblico, Godard risponde così “Nei primi film parlati non si capivano tutti i dialoghi e questo la gente lo trovava meraviglioso. Ascoltava il suono. Adesso invece la gente chiede che, se si pronuncia una parola, questa debba sempre avere un significato preciso, e che se sfugge è la catastrofe. Si tratta di una falsa idea di cinema. Al cinema c’è il suono e c’è l’immagine”.
La confusione in cui incappa Monika la ritroviamo in molti film del maestro francese, ma qui entra in gioco implicando le vite di Parigi, di Montparnasse dove lavora Ivan, e poi di Levallois dove lavora Roger. Anche il linguaggio è un tema dominante qui. Monika che crede di aver invertito le lettere, si precipita a parlare con Ivan e Roger, cercando almeno di salvarne uno, ma tramite le parole non si riesce a capire se davvero si era sbagliata. Come in Vivre sa vie c’è un problema nelle parole. Pare che più si parli, più ci si allontani dalla realtà, ovvero che più ci si sforzi di aggirare il problema, più ci sfugga.
Nel 2001, i fratelli Coen girano un film: The man who wasn’t there. Brevemente, il film parla di un barbiere che uccide l’amante della moglie, ma non viene scoperto, anzi, la moglie stessa viene accusata di omicidio, mentre a lui viene imputato un’ altra morte, quella di un uomo di affari a cui aveva dato dieci mila dollari da investire nel lavaggio a secco. Durante il processo, l’avvocato, per scagionare il suo cliente utilizza come strategia, una teoria di un fisico tedesco, Heisenberg, Ebbene il principio del fisico tedesco afferma che “...non tutte le proprietà di una particella quantistica possono essere misurate con precisione illimitata. Per misurare la posizione di una particella con una precisione elevata bisogna ricorrere a una luce di lunghezza d’onda molto corta, e quindi altamente energetica. Ciò si traduce nel trasferimento di una certa quantità di moto alla particella e pertanto non è possibile misurare con esattezza sia la posizione sia il momento. E lo stesso vale per altre coppie di grandezze fisiche. In situazioni simili, un errore in una misura porta inevitabilmente a ripercuotersi su altre misurazione altri e Heisenberg aveva stabilito che il prodotto di errori e disturbi non può essere inferiore a un certo valore”
L’applicazione che ne fanno i fratelli Coen, autori della sceneggiatura, è ovviamente diversa. L’avvocato va in prigione a spiegare la sua strategia al barbiere: “Si chiama principio di indeterminazione. Sembra un’idea bislacca, ma anche Einstein l’ha presa in considerazione. La scienza, la percezione, il dubbio, il ragionevole dubbio. Sto dicendo che alcune volte, più guardi, più guardi, meno conosci. È un fatto, è provato, è un fatto e comunque è l’unico fatto appurato.”
Al processo: “L’avvocato gli gettò molta plvere negli occhi [..]disse loro di guardarmi, di guardarmi bene, tanto più mi avessero guardato, tanto meno senso avrebbe avuto quella storia. Disse che non ero il tipo d’uomo che può uccidere, che per l’amor di Dio ero solo un barbiere, ero come tutti loro, un uomo comune, la cui unica copla era quella di non avere un posto nel mondo e di provare ad investire nel lavaggio a secco. Disse che ero un uomo dei nostri tempi e che se mi avessero condannato sarebbe stato come legare un cappio attorno al loro collo. Disse di guardare non ai fatti, ma al significato dei fatti. Poi disse che quei fatti non avevano significato. Fece un gran bel discorso, gli credetti persino io”.
C’è la sensazione che Godard abbia in testa qualcosa del genere quindi quando fa parlare i suoi personaggi. L’approfondimento delle conoscenze linguistiche, personali, sentimentali, non è quindi sinonimo di perfezionamento, ma spesso di abbaglio.
L’idea produttiva di fondo è quella di raccontare delle storie di Parigi città, attraverso sei diversi quartieri, in cui il cinema si identifica con la città e viceversa. Nella loro avventura, i sei registi scelgono delle storie che in qualche modo possono ricondursi tutte alla stesso rapporto dell’individuo con i flussi urbani, o con le loro esperienze, le loro pulsioni. A partire da questa idea narrativa, in modo stavolta originale ed indipendente, le scelte stilistiche (regia, recitazione) di genere (dramma o parodia) e di contenuto, si articolano attraverso i sei cortometraggi.
A quanto pare il progetto che motiva la realizzazione del film doveva essere stato assai ambizioso, se Les cahieurs du cinema ne parla in questi termini: “Ce n’est pas le regne d’une avantguard stérile, que nous voulons instaurer [..] mais celui des auters” che fanno un cinema moderno, “[..] mais le cinema vraimont moderne, celui de demain, celui que nous entrevoyons et voudrions aider à percer, ne sera pas le fait des auteurs incapables à montrer la réalité actuelle et à venir, de se dégager du reflet de leurs obsessions [...]” sarà quello che attuerà “une nouvelle esthétique de realism”.
In sostanza si affermano alcune innovazioni, che acquisiscono valore di paradigma - o questo è perlomeno ciò che vorrebbero acquisire - al momento dell’uscita del film, ovvero “l’emploi du son direct et la couleur, dont nous voudrions faire la régle”. Nel numero 171 dei Cahiers, si considera che l’innovazione tecnica sia andata incontro all’economia. Se è vero che il corrente formato cinema era 35mm, Paris vu par, che è girato tutto in 16mm, costituisce non solo una risorsa produttiva (si immagini gli episodi Gare du Nord, La place de l’Etoile e Montparnasse et Levallois girati con le grandi cneprese), ma anche una proposta estetica. Le possibilità produttive che offrì la macchina a 16 mm sono state citate da tutti e sei i registi, che esaltarono la snellezza del dispotivo in funzione del rodaggio, diamo alcuni di quei contributi
“La 16mm m’a permis de m’attacher totalement au movement meme de ces personnages, pour les suivre dans leurs moindres réactions et traquer leurs intentions dans leurs regards ou leurs paroles..”. “..grace àu seize millimétres, puisque c’est quand meme moins cher que le treinte cinq. Et qu’on peut tourner plus vite, je me suis senti plus libre et j’ai mis certains choses qu’il m’aurait été difficile mettre dans d’autres films..”
Dal punto di vista analitico riuscire ad approfonditamente ognuno dei sei cortometraggi potrebbe rappresentare un lavoro per il quale non avremmo spazio a sufficienza. Cerchiamo quindi di cogliere i punti salienti di quanti più frammenti possibili e poi tracciare alcune conclusioni.
Gare du nord di Rouch, rappresenta quasi l’emblema di tutta l’ideologia di Paris vu par (che ricordiamo essere di Barbet Schroeder). Il regista infatti, che è anche antropologo, concentra la sua attenzione, quasi esclusivamente ai personaggi che interpretano l’episodio, la loro vita le loro relazioni, ma nella seconda parte non dimentica di rappresentare il loro rapporto con il tessuto urbano. Diremo però che allaccia un forte legame non alla città di Parigi nella specifico, ma a quella generale, alla Großtadt, la metropoli, che costrusice quindi un ponte di raccordo tra l’individuo e la geografia delle attrazioni, quella della nuova città, che non è più quella di Ruttamnn, Strand o la stessa Parigi di Clair che dorme ma la metropoli del dopoguerra, che suona nuove sinfonie urbane, più vicine alle psicologie che alle fisicità dei personaggi.
Ricollegandoci a quest’epoca (quella degli anni venti), in quanto ricca di sperimentazioni, sulla raccolta di documenti, sulle sinfonie urbane e dello sguardo che esse conferisocono alla visione umana della città, proviamo a tracciare delle differenze tra gli individui di quell’epoca (1920-1930) e i personaggi del 1965. Questi ultimi hanno un rapporto con la città, probabilmente neanche molto più consapevole dei personaggi delle avanguardie, in quanto ogni personaggio (nel senso di individuo di una storia) giunge nella propria storia senza una precedente esperienza di vita; ma se negli anni a cavallo dei secoli e fino agli anni trenta, le innovazioni, invenzioni, novità, in campo ingegnieristico, tecnico, elettronico ed anche artistico, stravolgono il dinamismo e la velocità dei rapporti fisici dell’individuo, non possiamo certo dire la stessa cosa dei loro successori. La grande maggioranza dei personaggi che vivono in Paris vu par infatti, sono figli degli anni 40-50 (eccetto la prostituta in Rue Saint-Denis e i genitori del bambino in La Muette, infatti tutti i personaggi si aggirano dai 20 ai 40 anni) può assistere ad alcuni evoluzioni dei media (tv), dei mezzi di trasporto (automobile e la vespa), ad alcune novità politiche (guerra Vietnam, uomo nello spazio) ma non si può certo asserire che queste siano allo stesso livello di quelle che stravolsero il mondo degli uomini che hanno visto la generazione precedente. Ciò che differenzia questi individui perciò è l’accento che essi porgono agli stimoli esterni che caratterizzano la loro vita, le loro reazioni, le loro scelte quotidiane, la loro pulsioni. Come vediamo in sostanza, si è spostato l’obiettivo della macchina da presa, che non sta più sulle rotaie di un treno, ma dentro al treno, sulla bocca e lo sguardo dei passeggeri, filmando un primo piano di un dramma anteriore, anziché su un paesaggio mangiato dalla tecnica. Il dinamismo della città, della sua tecnica, non è quindi più al centro dei pensieri di questi personaggi, in quanto ne conoscono dalla nascita le dinamiche, anche se sorprendentemente faranno fatica a svincolarsene completamente (Montparnasse et Levallois ce lo dimostra). Ciò forse che contamina le vite di questi personaggi è piuttosto una sottile mostruosità, per dirla con le parole di Chabrol, che trapela dalla conduzione quotidiana che questi personaggi hanno raggiunto. Una mostruosità che viene sviluppata attraverso le loro pulsioni, progressivamente occultate, fuggite (Place de l’Etoile), otturate per non farsi contagiare (La Muette), oppure scambiate, tradite (Montparnasse et Levallois).
Nell’arte informale degli anni 50-60, si suol inserire un certo malessere, un pessimismo di fondo, legati ai postumi della seconda guerra mondiale. Se dai primi anni sessanta si respira già un discreto cambio di tendenza con nuovi sviluppi culturali (pop art, la minigonna, la tv, La dolce vita, lo sviluppo edile, solo per dirne alcuni) tutto ciò non basta ad allontanare l’individuo da una sentita lontananza ed inter-incomunicabilità che affiora. Non a caso, un anno dopo (1966), Antonioni ci ricorda questa sfuggevole serenità, questa probabile possibilità all’impossibile, girando Blow up. Questo film, nonostante finisca in modo semi-positivo, emana uno sconfinato negativismo. Sarà per l’imminente caso Vietnam e guerra fredda, o forse per una coincidenza artistica, ma a metà degli anni sessanta, mentre ci si prepara ad alcune grandi rivoluzioni culturali, sociali e politiche (gli hippy e Woodstock, il sessantotto europeo, le dittature europee che cadono qualche anno più tardi), una riflessione profonda attanaglia lo spettatore sul grande schermo. Oltre al già citato Blow up, in questo periodo viene realizzato Farhenheit 451, film che sottolinea il pericolo delle classi povere di venire trafugati della cultura da parte del potere. Nel 1964, un anno prima, Kubrick realizzava Il dottor Stranamore, pellicola che accenna l’apocalisse della terra, mentre del 1966 è Persona, di Ingmar Bergman, che il regista scrisse durante una depressione e che ha come tema principale l’incomunicabilità e le crisi esistenziali. I pugni in tasca di Marco Bellocchio è del 1965, parla di una storia di una famiglia di anormali, nella quale un figlio uccide gli altri componenti della famiglia, venendo a sua volta lasciato morire dalla sorella incestuosa. Pierrot le fou di Godard, sempre dello stesso anno di Paris vu par, è un altro film, nel quale i personaggi non riescono ad ottenere nessuna salvezza e concludono la loro avventura con la morte. Nel 1966 Godard realizza Masculin, feminin e sappiamo quanto poco ottimistico fosse.
Ciò che non possiamo sostenere come un verdetto, ma sicuramente come uno spunto di riflessione e di ricerca è perciò un evidente ritorno dei caratteri dell’arte informale. Un negativismo che fa da basso continuo a storie che nello stile rappresentano dei nuovi modelli, nel modo di raccontare significano conquiste e nei contenuti e nelle retoriche delineano allo stesso modo uno sfrontato coraggio, una sincerità forse persino inquietante.
Le storie di Paris vu par, secondo chi scrive ripercorrono il cinema di un periodo forse troppo falcidiato da una negativa visione individuale e di insieme; una settima arte che racconta un momento difficile, nei contesti più variegati.
La famiglia ad esempio è raccontata da Chabrol in La Muette. La breve storia è vista dagli occhi di un bambino, che non sempre far parte dello stesso mondo dei grandi, ne ignora le dinamiche, non ne conosce le regole. La sua unica possibilità di tenersi lontano da questo mondo, è quella di non poterlo ascoltare. È importante pensare come vi possa essere una differenza sostanziale fra i due verbi sentire e ascoltare. Il bambino protagonista, probabilmente non ascolta i suoi genitori, né la città, ma li sente e ciò lo inquieta, lo fa star male. Per fuggire a questa tortura, decide di mettere dei tappi alle orecchie, che non gli permettono di sentire il minimo rumore. Questa soluzione gli costerà molto cara. Non riuscirà infatti a sentire la madre claudicante che caduta dalle scale incontrerà la morte. Nel finale anche la città stessa diventa un teatro muto, fatto solo di movimento e luce, nel quale i suoni appaiono quasi superflui. Il linguaggio della città, ormai stereotipato, con i suoi clacson, con le sue campane e le sue ambulanze, vive ugualmente anche non ascoltandolo. Chabrol decise di recitare in prima persona, assieme alla moglie.
In Gare du nord, si possono trovare molti dei caratteri moderni che contraddistinguono le nuove insoddisfazioni. La protagonista è Odile una giovane che durante una colazione qualunque con il fidanzato Jean-Pierre intravede l’inizio di un lento declino delle sue aspettative di vita. “Qu’on juge du degré d’improbabilité: l’aspiration majeure à laquelle l’héroine vient de reprocher à son mari de faire obstacle par son conformisme et son inertie, un inconnu rencontré quelques instants plus tard par accident lui offre de la réaliser séance tenante; affollée, la jeune femme le repousse”. Le passant e Odile hanno quindi praticamente una conversazione sullo stesso argomento che avevano avuto poco prima la ragazza e Jean-Pierre. Ma le convinzioni appena dichiarate al proprio partner, di fronte al giovane sconosciuto, vengono meno. E’ palese qui che Odile rappresenti il tratto dell’incomunicabilità per il regista; l’impossibilità dell’individuo di ritrovare esternamente i propri pensieri.Il giovane automobilista invece giudica la vicinanza possibile di Odile - che invece gli è negata – come una condanna finale. La disperazione con cui il giovane si propone ad Odile, è folle. Sembra come se fosse al casino e tentasse il tutto per tutto bluffando una mano a poker. Un all in fallito. C’è come una fantastica impressione, che egli sapesse che il suo destino passasse in quella strada a quell’ora. E Odile, che “devant la possibilité qui lui est offerte d’une realisation immediate, intégrale, du reve qu’elle vient de formuler, et la chaine de verre reliant soudain les objets de son désir la livre à une épouvente qui va croissant des premiers instants de la rencontre au cri boulversant qu’elle pousse à la vue de l’homme soutant dans le vide” Il teatro composto tra Odile e l’automobilista, o le passant, conferma che le cose sono sempre uguali, mentre ciò che cambia è il nostro modo di vederle. In questo passaggio è assai chiara l’analogia tra vita dell’inviduo e vita della città, le persone cambiano le proprie ambizioni o possono restare le stesse, alterano la loro attitudine a sentimenti o a passioni, ma non è sempre così.
La città in tutto ciò è l’emblema di una similitudine vita – geografia. Una città o un amore possono annoiare sin da subito o essere amate per sempre. Nella fattispecie, per le passant, la città è cambiata per diventare anche strumento di morte. La grandezza delle nuove strutture, come ad esempio le nuove sontuose stazioni, i ponti che collegano due strade lontane e che oltrepassano le ferrovie (costruiti per favorire le dinamiche fisiche dell’uomo) in questo caso diventano strutture per suggerire lui un suicidio. Il fischio del treno, forse il più paradigmatico e rappresentativo della tecnica del 900, giunge esattamente nel momento in cui il ragazzo decide di uccidersi e scandisce quindi la sinfonia della sua vita.
Il piano sequenza del cortometraggio (se si esclude la prima e l’ultima panoramica d’insieme) non possono che applicarsi, nel caso, alla storia di un personaggio seguito da una cima all’altra della sua traiettoria, che in realtà è traiettoria di morte, perché Odile in realtà muore con le passant, non sopravvive, nel senso che i suoi pensieri, le sue paure, i suoi sogni, vengono messi in discussione, sia esternamente che internamente. Claude Ollier, giudica il lavoro di Rouch, da alcune di queste analisi, come un lavoro nuovo, di inquieta sociologica, di psicodramma.
In Rue Saint - Denis, concordo parzialmente con ciò che afferma Jean Eustache nei Cahiers. Il critico dice “quand on n’a plus rien en dire sur quelque chose, on n’a plus rien en dire” Con questa tesi, in realtà non mi trovo molto d’accordo. L’episodio di Pollet è sicuramente il più fiacco di Paris vu par. Rue Saint - Denis è una via conosciuta in tutto il mondo soprattutto per le sue prostitute e per questo appare perlomeno assai poco originale comunicare per immagini, la storia tra una prostituta e un suo cliente, ovvero la più banale che possa immaginare qualsiasi spettatore comune. Da un cineasta ci si aspetterebbe qualcosa di più. Probabilmente gli unici spunti interessanti sono sempre legati alle dinamiche urbane. La prostituta è il simbolo della città, essendo lei stessa come una donna di facili costumi, cara, divertente e possibilmente pericolosa. Il cliente in questo caso non è un ragazzo di provincia, che non conosce bene queste dinamiche. Il racconto quindi vuole raccontare come una persona esterna possa non intersecare le sue attitudine con la vita urbane. Leon, il protagonista è impacciato, alla fine non ottiene nemmeno ciò per cui aveva cercato la prostituta, un po’ come se volesse dirci che si parte verso la città con uno scopo e poi si finisce con l’accettarne un altro. In Rue Saint - Denis, l’incontro di sesso si trasforma in una cena, ma che sa molto di nutrimento, anziché di rituale, più vicino ad una cena solitaria, ovvero noiosa, che ad una cena romantica. I due finiscono per parlare come se fossero una coppia navigata, non proprio sul punto di lasciarsi, ma nei botta e risposta della conversazione c’è quella disattenzione tipica di chi dialoga più per parlare che per condividere.
La scenografia a mio avviso è perfetta per questo tipo di storia, diegetica al massimo livello. La piattezza del plot, così come quella della regia, senza movimenti di macchina, con molte inquadrature girate con lo stesso punto macchina e obiettivo diverso, è basilare come la scenografia, ma le due cose vanno a braccetto e sono in un certo modo armoniose. Anche il montaggio è impreciso, probabilmente Pollet non ebbe molti ciak a disposizione e in realtà il suo più grosso errore è stato quello di pensare a troppe inquadrature nello stesso ambiente. È l’ episodio più corto (11.37) e l’unico episodio che si gira in unico ambiente, ma nonostante ciò è quello con più inquadrature (trentasette solo nella stanza per dieci minuti di film, non considerando le inquadrature di presentazione agli ambienti urbani, che fanno sono una media di un’inquadratura ogni sedici secondi, senza considerare che al montaggio gli stacchi sono ottantaquattro, ovvero uno ogni sette secondi di media, non proprio cifre da nouvelle vague) se si esclude Place de l’Etoile, girato quasi completamente in esterni ampi. In tutto l’episodio si respira un’aria di dilettantismo nonostante sia il settimo lavoro di Pollet. Lo scavalcamento di campo, considerato da molti come il più grave degli errori lo troviamo quando Leon è sulla sedia e la prostituta sul letto che parla delle sue gambe. Non pensiamo che ci siano dei buoni motivi per supporre che sia una trasgressione voluta, in quanto la drammaturgia non ci offre in quel preciso istante alcun suggerimento; si tratta semplicemente di un errore tecnico. Altre pressapochezze si trovano nel sonoro, tra uno stacco e l’altro di alcune inquadrature si sente una forte discontinuità di ambiente e di fruscìo, diremmo tipica di chi è alle prime armi. Nonostante queste impressioni si salva la drammaturgia degli attori. La loro storia può sembrare leggermente strana, ma è verosimile. La recitazione del ragazzo, Claude Melki, come ricorda lo stesso regista nelle pagine dei cahiers, è il motivo per il quale è stato ideato il cortometraggio, anche nella stessa intervista dichiara che “On ne reve pas de personnages, mais des objets, des moments, le temps, l’espace, la durée; tout cela, dans eun film a plus importance que la psychologie”. Place de l’Etoile – Il nostro eroe, come lo chiama Rohmer, è Jean – Marc, commesso che lavora in un negozio in zona Avenue des Champs-Élysées. Ma dall’uscita della metropolitana al negozio, di cose ne possono succedere. Rohmer, che è già un esperto nonché grande sostenitore delle riprese in esterni veri (uno su tutti ricordiamo La boulangère de Monceau), immagina nella piazza dell’Arco di Trionfo, le gesta di una storia di un uomo normale che vive il dramma di uno scampato delitto ed anziché mostrarlo con la tecnica ormai nota a Rohmer, ossia quella del flaneur parigino, lo fa raccontando questo personaggio che improvvisamente, impaurito dalle conseguenze della colluttazione con un barbone, inizia a scappare freneticamente. A tal proposito il regista ci fa notare una cosa: “..aucun parisien n’est pressé au pointde courir quatre cents mètres à la suite..”. I monumenti cambiano i flussi urbani, così come i lavori in corso. Il progresso dell’uomo nelle sue forme tecniche, determina poi anche la sua sociologia. La giornata tipo di Jean – Marc subisce gli eventi della grande città. Sulla metropolitana che lo porta a lavoro, una passeggera le pesta un piede. Il fatto lo turberà tanto, che uscito dalla metro, continuerà a toccarsi la scarpa e soprappensiero si scontra con il vagabondo che rappresenta a livello sceneggiatoriale un evento scatenante. Le abitudine duramente conquistate dal protagonista nell’arco degli anni (aver imparato a che ora prendere la metro per arrivare in orario, dove scendere, quale strada fare) diventano in questa giornata dei riferimenti perduti. Nella grande geografia urbana i cittadini si muovono per punti fermi che li rassicurano, senza i quali sarebbero persi. Jean – Marc sembra molto infastidito, quando a causa dei lavori in corso deve cambiare itinerario. Tutto ciò mette a contatto gli individui a volte con porzioni di geografia alle quali non sono interessati e che potrebbero riservar loro delle sorprese, positive, come ad esempio ne La boulangere de Monceau, in cui le narrateur (interpretato pensate un po’ da Barbet Schroeder, ideatore di Paris vu par) per cercare Silvye, s’imbatte nella fornaia (si noti come nel primo minuto del cortometraggio del 1963, ci sia un altro riferimento alla trasformazione della città “À l’ouest, le boulevard de Courcelles. Il conduit au parc Monceau tout près duquel un chantier de démolition marque actuellement l’emplacement de l’ancien Cité club, un foyer d’étudiants. C’est là que j’allais dîner tous les soirs quand je préparais mon droit”).
Il regista nella sua analisi, ci ricorda anche che ha effettuato un voluto rimarcamento dei colori verde e rosso. In tal caso le inquadrature numerose ai semafori ricordano ancor di più il senso moderno del tempo scandito dal progresso. Nella fattispecie, come ci ricorda lo stesso Rohmer, all’inizio del cortometraggio ha potuto inserire alcune riprese della visita del presidente della Repubblica Italiana a Parigi, per cui erano state affissa delle bandiere tricolore all’Arco di Trionfo.
Uno spunto che potrebbe farci riflettere su alcuni stili degli autori di questi cortometraggi è anche l’utilizzo delle didascalie da parte di Rohmer. Nelle sei parti del film, è l’unico ad utilizzarle. Se si vuol essere sostenitori di un cinema fatto solo ed esclusivamente per immagini, si potrebbe ritenere che almeno la didascalia “Rien dans le presse, ni ce jour-la ni les soivants”, che compare dopo che Jean – Marc compra un periodico (sicuramente vuol vedere se il vagabondo è morto) potesse essere sostituita da immagini. Capendo bene che quindici minuti sono pochi per chiunque per presentare un personaggio, ritengo che la voce fuori campo sia già un grosso aiuto per il realizzatore, mentre le didascalie sarebbero da escludere totalmente. Ci viene in mente però che nel 1965 potevano essere ancora fresche le nozioni di Qu’est que c’est le cinema di Bazin. Nella parte seconda, Bazin sostiene, anziché un cinema fatto di sole immagini (cellule uniche e fondamentali del film), un cinema impuro che sia contagiato dalle altre arti. La nostra è solo un’interpretazione, tra l’altro da verificare, ma la sensazione è che essendo Rohmer il regista che è rimasto più fedele ai concetti della Nouvelle vague (intesa come cinema dove non succede niente, cinema di flaneur, riprese in esterni reali, di presa diretta del sonoro), rispetto a Godard per esempio o a Truffaut, possa avere in qualche modo seguito più scrupolosamente le teorie di André Bazin, che considerato il padre dei Cahiers, da quelle teorie si può dire abbia ideato il movimento cinematografico francese. Nel finale credo che il regista abbia voluto concludere con un’altra suggestione. Jean - Marc uscendo dalla metro scontra il suo ombrello a quello di una bella signorina. Sarebbe potuto essere l’inizio di un’altra storia. Sarebbe potuto.
La Muette – Abbiamo già accennato alla mostruosità dei personaggi di questo episodio. Chabrol, tra l’altro, che interpreta il protagonista, nell sua analisi si sofferma proprio sull’interpretazione dei personaggi, quando vuole spiegare come è riuscito ad ottenere l’atmosfera che si respira in La Muette. Si tratta evidentemente di un cortometraggio classista, specchio della borghesia parigina, “La bourgeoisie c’est une classe, mais c’est aussi un était d’esprit, et la classe resistera moins que l’était d’esprit. L’était d’esprit grand – bourgeois va certainement résister à tous les régimes sociaux [..] Le pire est que une fois installés dans leur travaille de monstres, ils ne sont pas tellement malheureux. Ainsi, aussitot, que le type peut satisfaire sa petite libido. Et gagner de l’argent, et que la femme peut utiliser cet argent pour s’acheter des pommades pour la peau, il n’ya plus de problème.”
Il regista era convinto che nessuno avrebbe potuto capire che cosa aveva in mente, quando pensava al suo protagonista, un padre di famiglia distratto, un marito infedele, un cochon, come lui stesso osa dire. Il suo personaggio è caricaturale, come i personaggi della borghesia. Ma c’è anche un altro tema nell’episodio, che riguarda il vero protagonista, quello dai cui occhi vediamo la narrazione, ovvero il bambino. Un figlio che passa quasi inosservato, nella città e a casa sua. Ma la sua invisibilità non lo rende passivo, anzi lo fa soffrire al punto dal voler provare la sensazione di non esistere più e per fare un tentativo, con dei tappi alle orecchie, si isola dal mondo, dalla sua città, dalla sua fredda casa, da una stanza nella quale non vuole mai restare. L’episodio è quindi al tempo stesso storico, perché rappresenta una delle possibili storie a livello sociale, quindi una sorta di documento, con la mostruosità delle ipocrisie borghesi, dei loro falsi costumi e menzogne e in secondo luogo è anche sociologico, ovvero indaga le individualità dei personaggi.
Ognuno di loro è chiuso nel suo mondo. C’è un padre che prova a fare il padre ma non è capace (una musica dolce parte quando il padre è in stanza col figlio, tutto ci fa sembrare che voglia dar lui una lezione di vita, incoraggiarlo mentre invece riesce ad insegnar lui una regola matematica, ovvero quanto di meno sentimentale possa dirgli), che tradisce la moglie, una domestica che si vende al padrone, ed è odiata dal figlio, una moglie che non si sa con certezza, ma potrebbe pensare ad un altro uomo e fa finta di non sapere che il marito la tradisce perché non le converrebbe divorziare e un figlio che cammina solo nella città, che deve reggere il gioco al padre e che alla fine è, ironia della sorte il più colpevole perché non si accorge della madre ferita. È interessante anche l’uso che Chabrol fa delle conversazioni familiari: “Et comme la plusparts du temps, ils ne parlent qu’aux repas, (c’est pour cela que mon film est construit sur des conversations à table), ces horreurs déviennent encore plus extraordinaires.Simplement parce qu’ils ont rien à se dire, leur monstruosité resort dès qu’ils ouvrent la bouche.”
Se pensiamo che Chabrol per rendere tutto così vero, ha preferito andare lui stesso in scena con la moglie, questo ci fa supporre che sia lui che la moglie conoscessero bene in prima persona I personaggi che hanno rappresentato.
Montparnasse et Levallois - L’episodio di Godard è molto complesso, come sempre nella sua opera. Il regista come soggetto sceglie di citarsi, ovvero di girare una storia che Belmondo racconta in Une femme est une femme, Godard per girarlo sceglie la scenografia, gli attori, ma lascia quasi in mano agli interpreti i dialoghi e i movimenti di macchina all’operatore. Il suo è un esperimento meraviglioso in cui cerca di dimostrare quanto il cinema possa superare il senso in convinzione e dimostri la sua propria libertà. “Moi, j’avais le sens, les acteurs ont le signe, et l’operateur a donné la signification. Le trois étapes de la sémantique”.
Il suo scopo ricorda quello Zavattiniano, ovvero di creare un cinema che non abbia motlo da organizzare, ma che vive di istinto, di impressioni, di flussi; Godard dice che “l’existènce c’est un fleuve”. Egli vuole dare un’idea di Montparnasse, della sua pittura, della vita degli iartisti, ma anche degli artigiani, dei meccanici, degli operai. Il senso del lavoro si respira molto qui, addirittura supera le parole, i sentimenti. Il sonoro lo sottolinea in modo evidente, quando Monika, parlando con i suoi due amanti deve quasi sempre ripetere ciò che dice, perché il lavoro dei due uomini sovrasta le sue parole Godard durante tutta la sua carriera ha sempre indagato sulla difficoltà di poter esprimersi, di farsi capire, di non fraintendersi e in Montparnasse et Levallois ribadisce queste difficoltà. “Una delle idee divertenti del film è che uno dei due fa il meccanico, l’altro lo scultore in ferro d’avanguardia: atelier e garage sono ambienti che si assimilano nel comune rumore delle saldatrici e dei martelli, la confusione penetra in tutti gli aspetti della vita”.
Rispetto a questa tecnica, ovvero quella di creare volontariamente un sonoro non molto chiaro al pubblico, Godard risponde così “Nei primi film parlati non si capivano tutti i dialoghi e questo la gente lo trovava meraviglioso. Ascoltava il suono. Adesso invece la gente chiede che, se si pronuncia una parola, questa debba sempre avere un significato preciso, e che se sfugge è la catastrofe. Si tratta di una falsa idea di cinema. Al cinema c’è il suono e c’è l’immagine”.
La confusione in cui incappa Monika la ritroviamo in molti film del maestro francese, ma qui entra in gioco implicando le vite di Parigi, di Montparnasse dove lavora Ivan, e poi di Levallois dove lavora Roger. Anche il linguaggio è un tema dominante qui. Monika che crede di aver invertito le lettere, si precipita a parlare con Ivan e Roger, cercando almeno di salvarne uno, ma tramite le parole non si riesce a capire se davvero si era sbagliata. Come in Vivre sa vie c’è un problema nelle parole. Pare che più si parli, più ci si allontani dalla realtà, ovvero che più ci si sforzi di aggirare il problema, più ci sfugga.
Nel 2001, i fratelli Coen girano un film: The man who wasn’t there. Brevemente, il film parla di un barbiere che uccide l’amante della moglie, ma non viene scoperto, anzi, la moglie stessa viene accusata di omicidio, mentre a lui viene imputato un’ altra morte, quella di un uomo di affari a cui aveva dato dieci mila dollari da investire nel lavaggio a secco. Durante il processo, l’avvocato, per scagionare il suo cliente utilizza come strategia, una teoria di un fisico tedesco, Heisenberg, Ebbene il principio del fisico tedesco afferma che “...non tutte le proprietà di una particella quantistica possono essere misurate con precisione illimitata. Per misurare la posizione di una particella con una precisione elevata bisogna ricorrere a una luce di lunghezza d’onda molto corta, e quindi altamente energetica. Ciò si traduce nel trasferimento di una certa quantità di moto alla particella e pertanto non è possibile misurare con esattezza sia la posizione sia il momento. E lo stesso vale per altre coppie di grandezze fisiche. In situazioni simili, un errore in una misura porta inevitabilmente a ripercuotersi su altre misurazione altri e Heisenberg aveva stabilito che il prodotto di errori e disturbi non può essere inferiore a un certo valore”
L’applicazione che ne fanno i fratelli Coen, autori della sceneggiatura, è ovviamente diversa. L’avvocato va in prigione a spiegare la sua strategia al barbiere: “Si chiama principio di indeterminazione. Sembra un’idea bislacca, ma anche Einstein l’ha presa in considerazione. La scienza, la percezione, il dubbio, il ragionevole dubbio. Sto dicendo che alcune volte, più guardi, più guardi, meno conosci. È un fatto, è provato, è un fatto e comunque è l’unico fatto appurato.”
Al processo: “L’avvocato gli gettò molta plvere negli occhi [..]disse loro di guardarmi, di guardarmi bene, tanto più mi avessero guardato, tanto meno senso avrebbe avuto quella storia. Disse che non ero il tipo d’uomo che può uccidere, che per l’amor di Dio ero solo un barbiere, ero come tutti loro, un uomo comune, la cui unica copla era quella di non avere un posto nel mondo e di provare ad investire nel lavaggio a secco. Disse che ero un uomo dei nostri tempi e che se mi avessero condannato sarebbe stato come legare un cappio attorno al loro collo. Disse di guardare non ai fatti, ma al significato dei fatti. Poi disse che quei fatti non avevano significato. Fece un gran bel discorso, gli credetti persino io”.
C’è la sensazione che Godard abbia in testa qualcosa del genere quindi quando fa parlare i suoi personaggi. L’approfondimento delle conoscenze linguistiche, personali, sentimentali, non è quindi sinonimo di perfezionamento, ma spesso di abbaglio.
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Alessio Mida
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Sitografia:
http://www.occhisulcinema.it/Dos-Il%20Dottor%20Stranamore.htm
http://www.lescienze.it/news/2012/01/18/news/principio_di_indeterminazione_meccanica_quantistica_heisenberg_posizione_velocit_spin_neutroni-799356/
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