Come venni
a conoscenza del mio doppio “Racconto visionario durante una seduta sciamanica in Nepal” Prologo
In queste regioni dove gli esseri umani si fanno vedicoli degli dèi, viene fortemente rafforzato quel sottile legame percettivo tra visibile e invisibile. Ore 18:30 dell’8 novembre 1997 secondo il calendario occidentale. È già buio in questo villaggio Tamang senza elettricità, posto in fondo alla gola a mezza giornata di cammino a Sud-Est della valle di Kathmandu. |
È più che buio, tutto è nero davanti agli occhi, quando le mie orecchie odono lontano l’avvi-cinarsi ritmico del battito di un tamburo. È il suono divino del “dhjangro”, il tamburo sciamanico bipelle (cielo/terra, maschile femminile): il “bombo” sta arrivando per la sua seduta, fino all’alba, per evocare lo spirito di un famoso sciamano (Sete Rumba, ndr). È il suono divino del “dhjangro”, il tamburo sciamanico bipelle (cielo/terra, maschile femminile): il “bombo” sta arrivando per la sua seduta, fino all’alba, per evocare lo spirito di un famoso sciamano (Sete Rumba, ndr). Circondato dai suoi assistenti, si siede su un materassino di bambù a strisce intrecciate, col viso rivolto verso l’entrata. Comincia a recitare, mormorandoli, i mantra segreti e, battendo insieme il tamburo, chiama a consulto gli dèi, per ore. Stregato da quel battito ritmico e avvolto nel fumo e dagli odori dell’ambiente, la mia mente volava via e, come si racconta di Wu Tao-Tzu (VIII secolo), scomparivo nella nebbia del mio paesaggio appena dipinto.
Cominciavo ad afferrare il respiro delle cose, e a ogni inspirazione portavo l’invisibile dentro me stesso che prendeva forma, colore e suono. Le parole non erano più soltanto parole, evo- cavano delle nuove forze; sentivo che tutto il passatoi era ancora vivo, da qualche parte. Os- servavo gli oggetti di potere - il “phur-bu”, pugnale magico in legno, piantato nel terreno; i “g-torma”, figure umane in pasta di riso a rappresentare gli spiriti adiutori; il “rkan-glin”, femore umano per chiamare gli spiriti; la “ghanta mala”, serie di cinte di campanelli che annunciavano l’arrivo degli dèi - e mi univo a loro in questo mio viaggio iniziatico. Là, oltre lo specchio, l’immagine di me stesso, qualcuno altro-da-me, in forma umana: riconoscevo me stesso senza un sentimento di appartenenza. Forse era l’effetto del “roksi”, un distillato casereccio offerto dallo sciamano (“Sanu Khancha”, ndr).
Cominciavo ad afferrare il respiro delle cose, e a ogni inspirazione portavo l’invisibile dentro me stesso che prendeva forma, colore e suono. Le parole non erano più soltanto parole, evo- cavano delle nuove forze; sentivo che tutto il passatoi era ancora vivo, da qualche parte. Os- servavo gli oggetti di potere - il “phur-bu”, pugnale magico in legno, piantato nel terreno; i “g-torma”, figure umane in pasta di riso a rappresentare gli spiriti adiutori; il “rkan-glin”, femore umano per chiamare gli spiriti; la “ghanta mala”, serie di cinte di campanelli che annunciavano l’arrivo degli dèi - e mi univo a loro in questo mio viaggio iniziatico. Là, oltre lo specchio, l’immagine di me stesso, qualcuno altro-da-me, in forma umana: riconoscevo me stesso senza un sentimento di appartenenza. Forse era l’effetto del “roksi”, un distillato casereccio offerto dallo sciamano (“Sanu Khancha”, ndr).
C’erano due me stessi ora, due storie, due identità, due passati differenti, e il mio nuovo gemel- lo aveva anche un nome, Rafael. Era nato a Città del Messico l’8 agosto 1958, poeta e scrittore. Mi parlava senza muovere la bocca, lo capivo facilmente, e rispondevo nello stesso modo. Mi diceva che i miei antenati conoscevano non soltanto la storia del nostro passato, ma anche quella del nostro futuro. Aprivo gli occhi ad altre visioni. Belle immagini. Vedevo cose lontane che solo apparentemente sembravano vicine. Raccoglievo le foglie di Pipal (“Ficus religiosa”, ndr), le più belle le stipavo tra le pagine dio un libro. Le avrei offerte a tutte le donne che, anche sono una volta, pensandomi, si sono sentite bagnate. Potevo ascoltare le voci attraverso il muro e riconoscere le persone che parlavano. Ogni cosa era chiara, scattante e pura come l’ombra di un giavellotto. Gli eventi cambiavano sempre più veloci in questa nuova condizione estatica, e io con loro, superando continuamente la soglia del quotidiano. Ero davanti a una grotta dove un “monaco bom” ha vissuto meditando per anni; all’entrata l’impronta della sua mano destra era impressa sulla roccia. Io mettevo la mia mano sulla sua. La trance del “bombo”, annunciata dal tintinnìo della “ghanta-mala”, stava cominciando. Mi sentivo scorrere come un fiume (“... ricorda, un fiume può esistere senz’acqua, mai senza sponde”), il vento sul pelo dell’acqua e la terra sotto i piedi. Fissavo gli occhi dello sciamano, nel tremore della trance, i suoi occhio terrorizzati, obliqui verso la finestra, cercavano qualcuno.
La sua voce aveva cambiato tono, insieme al ritmo del tamburo, persino il respiro era diverso. Visibile e invisibile erano per entrambi alla stessa portata. Difficile abituarcisi. Gli parlavo di tracce di colore, di ghiaia pettinata sotto la luna piena, di trappole per sviare la percezione ordinaria. Accettare il mio doppio significava aspettarmi cose che la mia mente non poteva capire. Erano le 6:30 del mattino. Il secondo gallo stava per essere sacrificato. Lo sciamano gettava ancora riso per ringraziare gli dèi e chiedeva l’ultima offerta in denaro. Fissava gli occhi sull’altare e col suo braccio-giavellotto perforava i “g-torma”, considerando così finita la “puja”. Nello stesso tempo il mio doppio spariva. Dobbiamo imparare a percepire (dicembre 1997).
Consultabile anche dal libro: PRIMITIVI URBANI - Antropologia dell’arte presente, di Lidia Reghini di Pontremoli, cattedra di Antropologia culturale presso l’Accademia delle belle arti di Roma), 0 Art Gallery Internet Edizioni, Roma 1998.
La sua voce aveva cambiato tono, insieme al ritmo del tamburo, persino il respiro era diverso. Visibile e invisibile erano per entrambi alla stessa portata. Difficile abituarcisi. Gli parlavo di tracce di colore, di ghiaia pettinata sotto la luna piena, di trappole per sviare la percezione ordinaria. Accettare il mio doppio significava aspettarmi cose che la mia mente non poteva capire. Erano le 6:30 del mattino. Il secondo gallo stava per essere sacrificato. Lo sciamano gettava ancora riso per ringraziare gli dèi e chiedeva l’ultima offerta in denaro. Fissava gli occhi sull’altare e col suo braccio-giavellotto perforava i “g-torma”, considerando così finita la “puja”. Nello stesso tempo il mio doppio spariva. Dobbiamo imparare a percepire (dicembre 1997).
Consultabile anche dal libro: PRIMITIVI URBANI - Antropologia dell’arte presente, di Lidia Reghini di Pontremoli, cattedra di Antropologia culturale presso l’Accademia delle belle arti di Roma), 0 Art Gallery Internet Edizioni, Roma 1998.
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Marco Fioramanti
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