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IO E TE Un film di Bernardo Bertolucci Sembra che, purtroppo, Io e te possa essere considerato un film importante e degno di particolare attenzione in buona parte soltanto per il fatto che costituisce il tanto aspettato ritorno di Bernardo Bertolucci dietro la macchina da presa dopo l’interessante (seppur, forse, un po’ manierato e derivativo) The dreamers del 2002, ovvero dopo quasi ben dieci anni.
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Io e te, infatti, tratto (quasi) fedelmente dal celebre romanzo breve di Niccolò Ammaniti, non pare proprio essere capace di particolare bellezza e interesse, se non per alcuni bagliori stilistici che ogni tanto vengono vagamente sparsi per le inquadrature. Eppure la storia, seppur abbastanza semplice, avrebbe potuto fornire una base stimolante dalla quale poter estrarre momenti più che memorabili: Lorenzo, quattordicenne sui generis piuttosto introverso e nervoso, frequenta il liceo classico e vorrebbe vivere in una sorta di mondo lontano dai problemi quotidiani, dai genitori, dagli scontri con i compagni di scuola che lo prendono in giro. Un giorno, nel corso delle vacanze di Natale, mente alla madre dicendole di star per prendere parte a una settimana bianca con altri tre compagni. In realtà, il ragazzo inganna la famiglia e si “rifugia” di nascosto nella cantina di casa per passarci due settimane completamente solo, portandosi dietro cibo, il telefono e poco altro. |
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Ma l’improvviso arrivo della sorella Olivia – la quale ben presto dimostra di avere seri problemi di droga - che cerca un luogo dove nascondersi sconvolge la sua ricercata e nascosta solitudine; un “incontro” inizialmente poco felice e contrastato ma che, alla fine, si rivelerà soprattutto per Lorenzo un’esperienza nuova capace di aiutarlo anche per i giorni che verranno. Il regista, già come aveva fatto totalmente o in parte in pellicole come La commare secca, Prima della rivoluzione e Strategia del ragno, avrebbe potuto approfittare dei molti “momenti morti” fra i due personaggi principali nascosti nel luogo segreto per esplorarli poeticamente, affinché potesse emergere il fascino e la bellezza inafferrabile del non-detto, così da avere la possibilità di esaltare stilisticamente il silenzio dei due ragazzi, il loro senso di attesa, di estrarre con la macchina da presa un aspetto o più aspetti inediti degli sguardi dei due.
Un altro elemento che Bertolucci avrebbe potuto sfruttare a proprio favore è l’esplorazione degli interni (ci si riferisce qui ovviamente in particolar modo al “bunker” in cui il protagonista inizialmente si trova da solo per poi essere “raggiunto” dalla sorella), mossa stilistica questa messa alla perfezione in atto in un suo film nemmeno lontanissimo nel tempo, L’assedio (1999). Ne L’assedio, ad esempio, Bertolucci aveva ulteriormente dato la conferma della capacità che ha la sua macchina da presa di sedurre gli interni di qualsiasi tipo (delle case, in questa occasione), di corteggiarli con i suoi sinuosi movimenti fino a far sì che tali interni, ormai succubi dell’obiettivo, rivelassero tutta la loro bellezza inedita e poetica, sorprendente. Nelle molte scene ambientate nell’attrezzatissimo “bunker” di Lorenzo, l’interesse visivo sembra praticamente quasi inesistente. Addirittura, in buona parte di questi “momenti sotterranei” dei due protagonisti pare di assistere ad alcuni episodi messi su da certi registi italiani tanto popolari quanto abbastanza innominabili.
Un altro elemento che Bertolucci avrebbe potuto sfruttare a proprio favore è l’esplorazione degli interni (ci si riferisce qui ovviamente in particolar modo al “bunker” in cui il protagonista inizialmente si trova da solo per poi essere “raggiunto” dalla sorella), mossa stilistica questa messa alla perfezione in atto in un suo film nemmeno lontanissimo nel tempo, L’assedio (1999). Ne L’assedio, ad esempio, Bertolucci aveva ulteriormente dato la conferma della capacità che ha la sua macchina da presa di sedurre gli interni di qualsiasi tipo (delle case, in questa occasione), di corteggiarli con i suoi sinuosi movimenti fino a far sì che tali interni, ormai succubi dell’obiettivo, rivelassero tutta la loro bellezza inedita e poetica, sorprendente. Nelle molte scene ambientate nell’attrezzatissimo “bunker” di Lorenzo, l’interesse visivo sembra praticamente quasi inesistente. Addirittura, in buona parte di questi “momenti sotterranei” dei due protagonisti pare di assistere ad alcuni episodi messi su da certi registi italiani tanto popolari quanto abbastanza innominabili.
Anche il “senso dello schifo”, caratteristica abbastanza insistente specialmente da quando il protagonista decide di rifugiarsi nel luogo segreto, non sembra mettere in campo alcun elemento particolarmente notevole: l’insistenza sulle imperfezioni del volto del protagonista, le riprese delle formiche nel luogo segreto (in un’occasione, tra l’altro, messe doppiamente in evidenza dalla lente di ingrandimento attraverso la quale il protagonista le osserva), i dettagli della bocca del ragazzino sulla quale rimangono non ben decifrabili resti di cibo non sembrano affatto elementi che, in maniera cruda ma sentita, esprimano sinceramente ed efficacemente, ad esempio, la condizione psicologica e psicofisica dei due. Questi assomigliano invece ad elementi portatori di un disgusto se non fine a se stesso, comunque abbastanza inutile.
Anche il rapporto fra musica e film sembra risultare poco riuscito: l’uso diegetico della canzone Ragazzo solo, ragazza sola di David Bowie con testo di Mogol (tra l’altro, fra parentesi, versione italiana abbastanza terribile della splendida Space oddity, ovviamente sempre di Bowie) per tentare di descrivere in maniera sintetica ma espressiva la condizione esistenziale dei due sembra una scelta frettolosa e abbastanza scontata. |
Dunque, questo Io e te, nonostante alcuni piccoli momenti più che interessanti (come i sinuosi movimenti di macchina capaci di rappresentare l’altrettanto movimentata vita dei due protagonisti; la sequenza dall’aspetto addirittura alla Lynch in cui Lorenzo, dall’interno della sua stanza, si immagina di vedere i suoi genitori al piano di sopra come grottesche caricature striscianti occupate a prenderlo in giro per il disturbo narcisistico di personalità di cui pare soffrire), risulta un film che, forse, è capace di rimanere nella mente dello spettatore solo per il tempo della sua durata, per poi, una volta finito, uscire quasi definitivamente dalla sua vista.
Daniel Montigiani
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