Witz rubrica diretta da Daria Chiappe
L’edonismo danzante
di David Parsons
Ripercorrendo la storia della Post Modern Dance americana non
si può fare a meno di soffermarsi sulla grandezza della Parsons Dance, la compagnia
di danza statunitense fondata da David Parsons e dal Light designer Howell
Binkley nel 1987, nonché una delle più famose a livello internazionale per la
notevole comunicabilità, positività ed energia.
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A tale successo David Parsons giunge molto presto, in anticipo rispetto ad altri grandi maestri della danza, ma tuttavia senza saltare tappe fondamentali e consuete come quella di una lunga formazione avvenuta nel suo caso presso la scuola di Alvin Ailey e di Paul Taylor. È proprio grazie a queste grandi personalità e alla sua lunga esperienza come ballerino prima, che gli è stato possibile poi dare vita ad uno stile proprio, originale e riconoscibile, basato sulla preparazione atletica dei danzatori, sull’uso di musiche energiche ed effetti spettacolari, capace così di regalare al pubblico emozioni sempre nuove.
Diventato ormai un’icona della Post Modern Dance, a David Parsons va riconosciuto soprat- tutto il merito di aver sottratto la danza all’eccesso di significazione cui stava andando incontro negli ultimi anni, restituendole quella spensieratezza e quella gioia che le appartiene da sempre. La sua danza infatti non pretende di raccontare qualcosa a tutti i costi, né di scavare nelle tenebre dell’io per portare alla luce le angosce e le paure più nascoste, come molti dei contemporanei di Parsons usano invece fare. La sua danza non è altro che sano e spontaneo movimento del corpo nello spazio e nel tempo. Pura liberazione del corpo e dei sentimenti. Con David Parsons si torna dunque a danzare per il piacere di farlo e per dimostrare come la danza, in quanto impulso naturale dell’uomo, sia prima di tutto vita e gioia.
Diventato ormai un’icona della Post Modern Dance, a David Parsons va riconosciuto soprat- tutto il merito di aver sottratto la danza all’eccesso di significazione cui stava andando incontro negli ultimi anni, restituendole quella spensieratezza e quella gioia che le appartiene da sempre. La sua danza infatti non pretende di raccontare qualcosa a tutti i costi, né di scavare nelle tenebre dell’io per portare alla luce le angosce e le paure più nascoste, come molti dei contemporanei di Parsons usano invece fare. La sua danza non è altro che sano e spontaneo movimento del corpo nello spazio e nel tempo. Pura liberazione del corpo e dei sentimenti. Con David Parsons si torna dunque a danzare per il piacere di farlo e per dimostrare come la danza, in quanto impulso naturale dell’uomo, sia prima di tutto vita e gioia.
Con questa precisa idea della danza egli ha realizzato numerose coreografie, alcune delle quali sono entrate a far parte del repertorio della compagnia, continuando tutt’oggi ad incantare il pubblico per la loro notevole originalità. Molte di esse sono state riproposte in Italia anche quest’anno nel suo ultimo spettacolo intitolato The Best Parsons Dance. |
Un’occasione questa per
vedere riassunti 25 anni di storia della compagnia americana e per
ammirare i numerosi talenti di cui essa si compone tra i quali: Elena D’Amario, Eric Bourne, Sarah Braverman, Melissa Ullom, Steven Vaughn, Christina Ilisije, Jason Macdonald e Ian Spring, tutti esibitisi in cinque diversi pezzi accomunati da forza e solarità, tanto da far apparire la danza una festa gioiosa senza fine.
Assistendo allo spettacolo, si ha l’impressione che i ballerini non siano mai stanchi di saltare, volteggiare, correre e sorridere, come se il ballo, anziché stremarli, li ricaricasse. A venir percepita dunque non è la fatica, bensì la naturalezza, la spontaneità di corpi, che sembravano essere nati apposta per danzare. Corpi talmente armonici da apparire quasi interscambiabili: non un ballerino che primeggi, non un ballerino migliore degli altri, ma otto danzatori sorprendenti in egual misura, identici nello stile, nella tecnica e nella forza fisica. Uno spettacolo emozionante e coinvolgente nella complessità dei suoi 90 minuti, ma soprattutto in due momenti, quelli che possono essere considerati i più artistici e innovativi della serata e che coincidono con le coreografie più note della compagnia, quella delle mani danzanti (Hand Dance, 2003) e quella in cui, attraverso l’utilizzo di luci stroboscopiche, il ballerino viene colto in salti sorprendenti, dando l’impressione di essere sospeso per aria ed intrappolato in una serie di fotogrammi (Caught, 1982).
David Parsons dunque usa condire le sue coreografie di effetto, di spettacolarità, di armonia musicale, ma soprattutto di una diffusa allegria, nascosta ed esibita un po’ ovunque: nei colori sgargianti di abiti e scenografie, nelle musiche vitali, nei movimenti energici e travolgenti, ma soprattutto nell’anima dei ballerini. Un’allegria contagiosa che ci spinge a constatare quanto sia reale ciò che si dice sugli artisti, ovvero che siano probabilmente gli unici a trovare la felicità nel proprio lavoro!
Assistendo allo spettacolo, si ha l’impressione che i ballerini non siano mai stanchi di saltare, volteggiare, correre e sorridere, come se il ballo, anziché stremarli, li ricaricasse. A venir percepita dunque non è la fatica, bensì la naturalezza, la spontaneità di corpi, che sembravano essere nati apposta per danzare. Corpi talmente armonici da apparire quasi interscambiabili: non un ballerino che primeggi, non un ballerino migliore degli altri, ma otto danzatori sorprendenti in egual misura, identici nello stile, nella tecnica e nella forza fisica. Uno spettacolo emozionante e coinvolgente nella complessità dei suoi 90 minuti, ma soprattutto in due momenti, quelli che possono essere considerati i più artistici e innovativi della serata e che coincidono con le coreografie più note della compagnia, quella delle mani danzanti (Hand Dance, 2003) e quella in cui, attraverso l’utilizzo di luci stroboscopiche, il ballerino viene colto in salti sorprendenti, dando l’impressione di essere sospeso per aria ed intrappolato in una serie di fotogrammi (Caught, 1982).
David Parsons dunque usa condire le sue coreografie di effetto, di spettacolarità, di armonia musicale, ma soprattutto di una diffusa allegria, nascosta ed esibita un po’ ovunque: nei colori sgargianti di abiti e scenografie, nelle musiche vitali, nei movimenti energici e travolgenti, ma soprattutto nell’anima dei ballerini. Un’allegria contagiosa che ci spinge a constatare quanto sia reale ciò che si dice sugli artisti, ovvero che siano probabilmente gli unici a trovare la felicità nel proprio lavoro!
Daria Chiappe
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