La drammaturgia dell’anima Knight of cups di Terrence Malick. Articolo di Fabiana Lupo

Revue Cinema
Sezione diretta da Fabiana Lupo

La drammaturgia dell’anima
Knight of cups
di Terrence Malick

Articolo di Fabiana Lupo

Il mese scorso abbiamo aperto questa pagina sul cinema con un film che ha mostrato il volo dell’anima attraverso una forte identificazione con il mezzo tecnico a cui si affida. Enter the void è infatti l’esempio più concreto di traduzione visiva dell’immaterialità dell’uomo, della sostanza più che dell’apparenza, dell’aldilà più che dell’aldiquà.

Su un binario parallelo, ma comunque in quella direzione, si muove da sempre uno dei registi più visionari della storia del cinema, un filosofo che ha plasmato i suoi film come se fossero dei veri e propri manifesti esistenzialisti. Con solo otto film all’attivo in più di quarant’anni di carriera, Terrence Malick è forse l’unico regista al mondo che non si può considerare tale proprio perché non dipende economicamente dall’industria cinematografica. Il suo modo riservato di accostarsi alla settima arte è probabilmente il più puro, il più libero, il più invidiabile: Malick è un cineasta smaliziato che non ha bisogno dei soldi di Hollywood, ma dei suoi sogni, della sua materia onirica per stendere la propria opera filosofica in una chiave più visionaria.

È all’incirca da mezzo secolo che Malick mette sul palcoscenico della vita l’inquietudine dell’uomo, la sua disperazione, la sua condizione di angelo cacciato dal paradiso e privato delle sue ali: il personaggio di Martin Sheen in Badlands (1973) poco si differenzia da quello di Brad Pitt in The tree of life (2011), entrambi accomunati da un senso di insoddisfazione violento, da un forte anelito verso il miraggio di una vita perfetta.

Ma è proprio con The tree of life che Malick apre un capitolo più “leggero” , più alto del suo cinema: da quel determinismo feroce da cui erano fagocitate le sue prime sceneggiature, Malick cambia registro per dare la parola a una narratività più sottile, libera da ogni obbligo di causa-effetto.

Knight of cups è sicuramente la pellicola più riuscita in tal senso, un tassello importante per la monumentale costruzione della sua “gesamtkunstwerk” filosofica, la realizzazione della sua opera d’arte totale. La tentazione di guardare questo film senza capirne il senso filosofico e banalizzando l’ansietà profonda del protagonista è forte. Ma noi, per evitare tale lettura riduttiva, faremo appello a uno dei testi fondamentali di Martin Heidegger, autore molto studiato dal regista duranti i suoi anni universitari. Proviamo a capire l’origine dell’angoscia di Rick (Christian Bale) attraverso un passo di Che cos’è la metafisica?:

L’angoscia originaria può risvegliarsi nell’esserci in ogni momento. Per essere destata non ha bisogno di un evento insolito. Alla profondità del suo dominio corrisponde la futilità del motivo che la può provocare. Essa è sempre sul punto di emergere, anche se solo di rado emerge per trascinarci nella sospensione.

Rick (Christian Bale) si aggira per le strade di Los Angeles come un’anima in pena tra dannati improbabili e vagabondi semimorenti, intrappolato in un mondo che sa di non appartenergli fino in fondo e dominato da legami scadenti o insoddisfacenti. Non ha un motivo in particolare per non gioire, non c’è un evento scatenante da cui far emergere la sua angoscia: non è nel dolore per la perdita del fratello, nella nostalgia verso una vita matrimoniale finita male, nel rapporto contrastante con il padre, nella continua ricerca di rapporti sessuali intensi ma evanescenti che risiede la ragione del suo malessere.

Rick è a tutti gli effetti un personaggio heideggeriano che vive dentro di sé la contraddizione di contenere l’infinito e il finito allo stesso tempo, il desiderio di infrangere questa linea imprecisata tra la terra e il cielo.
Non è un caso se le scene più intense sono quelle ambientate su quella linea fluttuante che si forma quando la spuma del mare incontra la sabbia: è lì che Rick si spinge con le persone a sé più care, per provare assieme a loro a superare il limite umano che li costringe a stare aggrappati alla terra ma a tendere verso l’alto.

È con queste figure che Rick prova a bagnarsi, a cercare attraverso i sentimenti di sfuggire alla sua mortalità, al suo “esserci”: quello a cui giunge però è sempre quella sensazione di “niente” che si nasconde dietro ogni forma di sentimento, quest’ultimo vissuto non come totalità dell’essere, ma come manifestazione di esso (“You don’t want love, you want a love experience”, gli ricorda una delle sue amanti).

Eppure proprio quando gli stati d’animo ci conducono in tal modo dinanzi all’ente nella sua totalità, ci nascondono il Niente che noi cerchiamo.

Solo attraverso la relazione con Elizabeth (Natalie Portman), Rick sembra voler costruire una scala che travalichi la spuma dell’oceano, il limite del sentire. L’immagine del pontile che si protende nell’oceano è indubbiamente una delle più poetiche del film: è solo con Elizabeth che Rick vi si spinge, quasi potesse con lei camminare sul mare. Illusorio però anche quell’attimo di immortalità: alla fine del molo vi è comunque l’abisso blu del mare, nel quale Rick decide di tuffarsi lasciando dietro di sé la sua amata (“Come with me”, è quello che sussurra la voice over di Rick a un Elizabeth che si guarda intorno spaventata). Così come il protagonista, anche la mpd nei film di Malick non riesce a distaccarsi dalla terra: i movimenti fluidi e veloci della steadicam sono l’esatta trasposizione emotiva dell’anima inquieta di Rick che, pur sentendosi di voler spiccare il volo, rimane con i piedi per terra. Anche quando quest’ultima trema, come nei primi minuti del film, e sembra non reggere più il peso del suo corpo, la mdp si muove bassa, come un occhio indagatore che mette a nudo le paure del soggetto ripreso.

A differenza di The tree of life, in Knight of cups la mpd non si stanzia in luoghi fuori da ogni possibile visualizzazione umana, non filma lunghe sequenze di viaggi odisseici attraverso la storia del mondo. Solo un’inquadratura, a pochi tagli di montaggio dall’inizio del film, si alza sopra le nostre teste per rivelarci uno scorcio dal di fuori della terra, una veduta mozzafiato su cui si distende una verde tempesta solare. È l’origine del tutto e del niente, il non distinto che si trasforma in distinto attraverso l’atto della vita (“All those years living the life of someone I didn’t even know”). Le immagini successive, riprese come se fossero dei filmini di famiglia, ci mostrano un piccolo Rick in riva al mare al tramonto in braccio al padre, la cui voice over nel frattempo racconta la storia del principe alla ricerca della sua perla nelle profondità del mare. Di nuovo il mare dunque, di nuovo quel limite su cui l’uomo si trova a muoversi, in una condizione nuova rispetto alla luce solare di cui faceva parte.

Inevitabile dunque che la drammaturgia di un film come Knight of cups sia suddivisa in capitoli, ognuno relativo a un lato affettivo specifico della vita di Rick. Da “la luna” a “la libertà”, Rick scopre sul tavolo dello schermo cinematografico le sue otto carte, gli otto capitoli della sua anima. A differenza di Enter the void dunque, qui l’operazione che compie Malick non è di elevazione spirituale della mdp, ma di immanente immedesimazione con lo stato d’animo del protagonista, con i suoi altalenanti smottamenti interiori, con la sua incapacità di trarre una linea di continuità emotiva nella sua vita.

La narrazione diventa così rarefatta che anche l’aspetto linguistico di una scena, il dialogo, può diventare immateriale: l’uso indistinto della voce che la maggior parte delle volte si svela essere una voice over, l’intenzione della mdp di lasciare spesso fuori campo i personaggi da cui provengono le frasi, trasformano questi momenti in veri e proprio incontri fra anime, dialoghi interiori e silenziosi, inconfessati, a volte sussurrati, a volte desiderati. Ed è per questo che Knight of cups può essere considerata una poesia per immagini, un’ode dell’anima che forse solo Malick poteva declamare con una tecnica così sublime.

Non sarà da Nobel come Bob Dylan, ma è sicuramente un bell’esempio che potrebbe fare scuola per un cinema profondamente lirico.

Fabiana Lupo

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