La soggettiva dell’anima in
ENTER THE VOID Un film di Gaspar Noé Articolo di Fabiana Lupo
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Quasi tutti i film che conosciamo parlano dell’inscindibile binomio vita/morte, ma solo alcuni di loro riescono a tradurre questo dualismo in termini cinematografici. Questa nuova sezione dedicata al cinema vuole aprirsi con un film ben preciso, un film difficile che ha, sin dal titolo, l’intenzione di entrare nell’intangibilità dell’essere. Nonostante siano passati 7 anni dalla presentazione della pellicola a Cannes, Enter the void può essere considerato a oggi uno dei rari film del nuovo millennio ad aver avuto il coraggio di avventurarsi là dove pochi osano: nel vuoto.
La sequenza quasi schizofrenica in cui si susseguono i titoli di testa, sostenuta da un beat roboante e allucinatorio, è solo il proemio metaforico di una Tokyo sfavillante e fluorescente, una Sin City chiaroscura, fatta di tetri vicoli e accecanti luci al neon. “Mi piacerebbe sapere com’è Tokyo da lassù”. All’inizio del film il protagonista, Oscar, esprime alla sorella, Linda, il suo desiderio di sperimentare un punto di vista altro, fuori da sé, un volo pindarico sulle luci della città. Sin dalla prima inquadratura, un lungo piano sequenza di circa 5 minuti, il regista Gaspar Noè decide di mostrarci la scena in soggettiva, con gli occhi di Oscar. La sua intenzione di stabilire una forte identificazione tra protagonista e spettatore è talmente deliberata che decide di spezzare l’inquadratura con intervalli di nero, come a simulare lo sbattere degli occhi di Oscar. Anche davanti a uno specchio il regista non si frena: continuando a filmare in soggettiva con una precisione tecnica tale da evitare il riflesso della mdp, Noè tira fuori dal cappello il coniglio ma non ne svela il trucco.
Sembra di essere a teatro, di assistere a una performance stupefacente, nel senso più fenomenico del termine. Da una parte, attraverso l’utilizzo del piano sequenza, l’azione si svolge real time davanti ai nostri occhi; dall’altra, attraverso il punto di vista in soggettiva, il regista ci forza a salire su un palcoscenico allucinatorio su cui vi sono tavole di legno fluttuanti e una quarta parete completamente liquida. È così che Gaspar Noè, artista e performer in tal senso, conduce lo spettatore a esperire qualcosa di altro da se stesso, a essere e non essere più, a vedere il protagonista con quattro occhi, i propri e i suoi.
“Vederci come gli altri ci vedono è uno tra i doni più salutari. Appena meno importante è la capacità di vedere gli altri come essi si vedono.” Scriveva Aldous Huxley nel 1954 in Le porte della percezione, testo visionario in cui l’autore, pur di raggiungere sensazioni extracorporee, sperimenta su di sé l’uso di mescalina. In maniera meno consapevole rispetto a Huxley si muove Oscar che, ossessionato dalla voglia di provare un’esperienza simile alla morte e di essere “al di sopra” del proprio corpo, prova fisicamente ogni tipo di droga. Il primo tentativo in effetti sembra funzionare, seppur per un tempo limitato: di fronte a un enorme billboard con su scritto “Enter”, dopo aver fatto alcuni tiri di DMT, l’anima di Oscar si distacca dal corpo ed entra in un trip vorticoso in cui atomi di natura complessa si legano tra di loro attraverso trame nervose pulsanti. Ed è qui che la mdp lascia per la prima volta il corpo di Oscar per innalzarsi sopra di lui, inquadrare il protagonista dall’alto prima di immergersi in un bagno di esplosione di colori, di forme astratte e di immaterialità.
Una sequenza di cinema astratto che indubbiamente deve molto al viaggio cosmico di 2001: Odissea nello spazio di Kubrick, ma che forse filosoficamente ha un legame molto più profondo con gli esperimenti dei fratelli Whitney. In particolar modo con Lapis (1966), del più giovane dei due, James, realizzato in tempi non sospetti attraverso un sistema computerizzato meccanico: infinite particelle cosmiche ruotano attorno a un mandala che le attira o le respinge energicamente, in un ciclo continuo di eterno ritorno che sembra non avere un inizio né una fine. Lentamente Oscar si introduce così a un concetto più intimo di superamento del sé, più spiritualmente vicino alla religiosità orientale. Non è un caso che, poco dopo il suo “ritorno in sé”, l’argomento centrale di discussione con Alex sarà proprio la filosofia buddista, il distaccamento dell’anima dal corpo, la reincarnazione di cui si parla ne Il libro tibetano dei morti regalatogli dall’amico. Ed è solo attraverso l’esperienza inaspettata della morte, incontrata in uno squallido bar di Tokyo in seguito a una retata tesa dall’amico Victor, che Oscar può finalmente volare sulla città, sugli uomini, e guardare il mondo dall’alto.
“Dentro al vuoto c’è tutto. Te lo dico: potresti entrare in un luogo chiuso, e muoverti a piacere, senza essere turbato dalla fama. Entrandovi, canterai come un uccello: non entrandovi, smetterai. Non c’è porta, non c’è nessuno. Se l’Unità è la tua dimora, e aderisci all’ineluttabile, ti avvicinerai alla perfezione.” Come scriveva Zhuangzi circa 2300 anni fa, non esistono porte o muri che possano fermare il volo dell’anima, quando questa fonde insieme vita e morte, l’aldiquà e l’aldilà, in un unico grande cerchio, quello in cui le pluralità e gli opposti si svuotano di senso. L’esperimento visivo di Noè è qui traslato su un livello di immaterialità tale da rendere così leggero un oggetto pesante come la mdp, che diventa quasi inconsistente, un soffio d’aria. Il punto di vista dello spettatore da allucinatorio diventa a dir poco vertiginoso: i nostri occhi non sono più quelli del protagonista, ma di qualcuno che non è più materia-Oscar. Questi sono gli occhi dello spirito-Oscar. Attraverso un viaggio spazio-temporale in cui il campo gravitazionale si incrina davanti al bagliore di una lampada o di un fornello, la mdp collassa dentro buchi neri che dislocano questa nuova entità in punti passati remoti o prossimi della breve vita di Oscar. Durante queste scene, la scelta registica è quella di riprendere attraverso la presenza costante della quinta di Oscar, il quale rivive come un testimone discreto i propri ricordi. L’intenzione è mirata e audace: dietro la quinta del personaggio in realtà si nasconde la soggettiva dell’anima di Oscar con cui ormai lo spettatore non può più non identificarsi e da cui dipende quest’ultimo viaggio ineluttabile del protagonista. La complessità di sovrapposizioni d’identità fra l’“essere stato”, l’“essere” e il “non essere” si svela qui nella sua forma più completa, come in un gioco di riflessi in cui in fondo, nell’ultimo specchio, troviamo la nostra sagoma in miniatura.
Enter the void diventa dunque l’opera lirica dell’anima, e Gaspar Noè un direttore d’orchestra dell’aldilà capace di mostrare dei cortocircuiti visivi e interiori con un’abilità rara e raffinata. Fabiana Lupo
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Aldo Pardi, Ubaldo Fadini, Tiziana Villani, Claudia Landolfi, Enrico Pastore, Francesco Demitry, Sara Maddalena, Alessandro Rizzo, Gianluigi Mangiapane, Nicola Lonzi, Marco Bachini, Daniel Montigiani, Viviana Vacca, Fabio Treppiedi, Daniele Vergni, Mariella Soldo, Martina Lo Conte, Fabiana Lupo, Roberto Zanata, Bruno Maderna, Silvia Migliaccio, Alessio Mida, Natalia Anzalone, Miso Rasic, Mohamed Khayat, Pietro Camarda, Tommaso Dati, Enrico Ratti, Ilaria Palomba, Davide Faraon, Martina Tempestini, Fabio Milazzo, Rosella Corda, Stefania Trotta, Manuel Fantoni, Marco Fioramanti, Matteo Aurelio, Giuseppe Bonaccorso, Rossana De Masi, Massimo Maria Auciello, Maria Chirico, Ambra Benvenuto, Valentina Volpi, Massimo Acciai, Gianluca de Fazio, Marco Maurizi, Daniele Guasco, Carmen Guarino, Claudio Kulesko, Fabrizio Cirillo, Francesca Izzi, Francesco Panizzo.
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