Il surrealismo sconfina anche nell’arte fotografica. È il caso della produzione “Prove di volo” di Stefano Frattini e Valentina Di Francesco, che hanno voluto immortalare angoli di diversi paesaggi mondiali con in primo piano un salto, un soggetto ripreso di spalle che si eleva in dicersi scenari: un salto che è da definirsi più correttamente come sospensione, come prova di volo. È un progetto che sta procedendo, attendendo quali saranno i futuri paesaggi su cui si staglierà la figura umana. Ripresa sempre di spalle, in volo. Parlavamo di surrealismo in un’ottica che vede una sfumatura delicata e leggera delle luci, che delineano colori e tonalità cromatiche tenui, soffuse e calibrate. La tecnica usata vuole portare verso una costruzione del sogno, visione onirica quanto metaempirica e indefinita del panorama, che si estrae da una contestualizzazione, temporale quanto logistica, della dimensione circoscritta e circoscrivente ogni soggetto in essa iscritto. Il messaggio passa come espressione di un’interiorità umana e psicologica che non ricerca spiegazioni altre ed estranee, esterne quanto eterodirette. La mano che immortala l’attimo e la tenuta dell’obiettivo, immobile e fissa, ci garantiscono una prevalenza estetica e sostanziale dell’immagine, quasi determinandone una centralità concettuale. Sullo sfondo si delinea il panorama, ora marittimo, una distesa di mare su cui si eleva in modo agile quanto atletico la figura umana che si sospende dalla forza della gravità, ora montano, quasi dominando col salto il ghiacciaio che ci regala una visione imponente quanto prevalente, ora cittadino, Venezia, forse l’unico luogo riconoscibile nella produzione, con visioni che ci suggeriscono scenari lagunari.
La sospensione regna sovrana come sensazione e come emozione e ci induce alla lettura delle opere dei due fotografi, architetti per formazione e professione. Tutto si introduce in una lettura metafisica che ci porta oltre al dato reale, pur partendo da esso, il salto, appunto, in un reale luogo che non può essere ascrivibile come non luogo, ma spazio vitale di espressività. Ci si imbatte in un progetto che vede nella coerenza narrativa l’impeto estetico, quasi addentrandoci in una forza visionaria che si vive in un’autoscarto, certamente conseguenza di un’elaborazione mentale, di una proiezione interiore, di un anelito intimo tendente alla liberazione e all’emancipazione dell’io dalle contingenze e dalle circostanze, limitanti e finite. La tecnica è semplice dal momento in cui, come asseriscono gli stessi autori, è bastato solamente scattare la fotografia, nel momento giusto, quello della sospensione, senza fare affidamento in un aspetto correttivo e fuorviante di una post produzione. Il contesto in cui si inserisce la produzione vive della sospensione anche nella sua configurazione e rappresentazione: sembra che si sia abbandonato ogni contatto con il reale e il tangibile, con lo scorrere del tempo, con la caducità delle cose, con la finitudine del concreto. L’astrazione si vive estraendo il soggetto e rendendolo simbolo, in questa vediamo una carica di simbolismo fotografico senza precedenti, di un messaggio centrale, che del contorno logistico e architettonico naturalistico ne fa un orpello ornamentale, in un’eccezione puramente minimalista ed essenziale nel dare parvenza di verità e di realmente esistito all’immagine immortalata. La sospensione esiste nel momento in cui vive nella dimensione naturalistica e minimalista in cui è inserita: quale altro modo è possibile nel rendere forte quel senso di liberazione e di elevazione dell’io, sconfinando nel simbolismo, in quell’alveo in cui difficile risulta, e alquanto forzato, la separazione tra l’oggettivo e il soggettivo, tra l’esterno e l’io interiore. La pura visività, pur presente e percepibile nell’opera nel suo complesso, si distanzia dall’elemento reale per abbandonarsi a scenari non descrittivi, intrisi di surrealismo; panorami che si nutrono del vero e del concreto, partendo da essi, ma che si proiettano su prospettive altre e ulteriori, mai esplorate, mai conosciute, mai affrontate, ma dense di significante poetico, quanto lirico. Stravagante risulta parlare attraverso questi concetti di un’opera fotografica, ma è in questo quel lato che ci porta a considerare ormai sperate quelle distinzioni, pretestuose quanto arcaiche, tra arte pittorica e arte fotografica, elevando quest’ultima a pieno titolo tra le categorie non stereotipate e limitative dell’arte visiva e performativa nella sua eccezione più generale e classica. Staremo e Valetina possono aver tentato, con un ottimo risultato, a rendere questo superamento artistico possibile. Alessandro Rizzo
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Georg Schrimpf:
da un espressionismo di un nuovo realismo alla dimensione magica di una nuova oggettività. di Alessandro Rizzo L’immateriale nel blu immenso e universale
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